1. Il cambio di regime del 1302
La fine del primo dominio di Matteo Visconti è un episodio mal conosciuto della storia milanese, dato che ad essa concorsero molteplici fattori che raramente sono stati presi in considerazione nella loro totalità. Le manovre antiviscontee di Bonifacio VIII, le ambizioni di affermazione di diversi signori padani, la mai sopita volontà di rivalsa dei della Torre e le divisioni interne alla stessa dinastia dei Visconti concorsero tutte al clamoroso e imprevisto cambio di regime. Queste forze ebbero però successo soltanto perché si incontrarono con il malcontento popolare diffusosi a Milano contro le ambizioni signorili di Matteo e contro i costi della sua politica espansionistica, insostenibili in un momento di difficoltà economiche. Non bisogna dimenticare, infatti, che proprio nel 1302 l’Italia centro-settentrionale fu martoriata da una grave carestia, che fece impennare il prezzo dei grani e causò gravi difficoltà, soprattutto ai gruppi sociali più deboli. Non abbiamo testimonianze dirette sugli effetti della carestia in Milano, ma è probabile che anche qui vi siano stati forti rincari che resero necessario l’intervento del comune, come avvenne a Cremona e a Bergamo.
Gli storici ambrosiani, però, quelli attuali non meno che i cronisti del XIV secolo, sono stati estremamente restii a riconoscere la possibilità che il popolo di Milano potesse ribellarsi contro i Visconti. La cacciata di Matteo e Galeazzo Visconti dalla città è stata dunque variamente attribuita alla pressione militare esercitata dai guelfi o alle manovre e ai tradimenti di signori rivali quali il piacentino Alberto Scotti – offeso per il mancato matrimonio di sua figlia con Beatrice d’Este, andata in sposa a Galeazzo – o il comasco Corrado Rusca, aizzato dalla nuora. Nessuno sembra aver osservato il ruolo determinante di Bonifacio VIII nell’organizzare la spedizione militare contro Matteo, così come pochissima attenzione e nessuna spiegazione ha ottenuto la contemporanea insurrezione popolare che impedì a Matteo e Galeazzo di organizzare una resistenza in città.
Alla radice di molte letture recenti delle vicende del 1302 c’è, come accade spesso, il racconto di Galvano Fiamma, il quale afferma soltanto che Matteo «depose il dominio» su Milano a causa di una congiura contro di lui guidata da Alberto Scotti che comprendeva i principali signori delle città confinanti e la pars nobilium di Milano. Bernardino Corio, invece, seguendo il testo del contemporaneo Antonio da Retenate, riferisce dettagliatamente dei tumulti, anche se con una cronologia non troppo precisa che rende difficile ricostruire le vicende. Sarà dunque necessario tentare di dipanare la narrazione dello storico rinascimentale, integrandola con le altre fonti disponibili e premettendo una necessaria, rapida ricostruzione del governo di Matteo Visconti, volta a metterne in luce le peculiarità, ma anche i costi economici e sociali.
1. Uso e abuso del Popolo: il governo di Matteo Visconti
Gli studiosi della Milano di fine Duecento hanno spesso paradossalmente sottovalutato la capacità politica dimostrata da Matteo Visconti nell’affermare il proprio dominio sulla città, considerandolo invece una semplice emanazione del potente prozio Ottone. Ha avuto invece poco seguito l’intuizione di Giovanni Tabacco, che quasi quarant’anni fa aveva rilevato che Matteo aveva invece saputo giocare una partita in proprio, basando il suo potere sull’alleanza con il Popolo, rinnovando in questa direzione la precedente esperienza torriana.
Le radici dell’ascesa di Matteo affondano nella profonda crisi vissuta dal comune milanese alla fine del 1282, quando il tentativo di Guglielmo VII di Monferrato di instaurare una signoria personale su Milano appoggiandosi alla parte più estremista dell’aristocrazia ghibellina portò alla reazione dei popolari e dei nobili moderati guidati da Ottone Visconti. Nel novembre del 1282 il marchese venne dunque cacciato da una rivolta capitanata dall’arcivescovo. Ne seguirono alcuni anni confusi, che videro paradossalmente l’avvicinamento fra la ghibellina Milano e le guelfe Cremona e Brescia contro l’alleanza fra il ghibellino Guglielmo e i guelfi della Torre. In questa caotica situazione, dal 1285 le istituzioni popolari ripresero vigore, tornando ad agire come protagoniste nella vita pubblica milanese. Proprio dall’aprile del 1285 l’ufficio dei dodici sapienti di provvisione, istituito probabilmente fra 1278 e 1279, fu ristrutturato: i suoi membri furono guidati da un priore, assunsero anche il titolo di anziani e dichiararono di operare per il Popolo e il comune.
Fu in questo contesto politico che nel 1287 Matteo Visconti ottenne il titolo di Capitano del popolo dall’assemblea comunale. Secondo Galvano Fiamma, egli avrebbe dovuto poi cedere la carica ad esponenti di altre grandi famiglie milanesi, ma, una volta acquisitala, la tenne, facendosi rinnovare l’incarico. Sotto la sua egida, il Popolo milanese riprese un ruolo di primo piano nel governo cittadino.
Come nuovo capitano del Popolo, Matteo promosse la rinascita della Credenza di Sant’Ambrogio, l’antico organismo che nel corso del XIII secolo aveva rappresentato le istanze dei popolari ambrosiani, che era sopravvissuta per un ventennio priva di qualsiasi ruolo effettivo e che venne rifondata sullo scorcio del Duecento quale «società nuova della Credenza di Sant’Ambrogio». Almeno dall’anno 1300, nella persona del suo giudice, Riccardo di Arezzo, essa ebbe un’attività estremamente vivace, dato che l’ufficiale è ricordato da diverse pergamene agire in cause che riguardavano la chiesa di San Giorgio in Palazzo e il capitolo di Sant’Ambrogio. Da quando il capitaneato fu saldamente acquisito da Matteo, si moltiplicano le menzioni della sua attività, tramite un collegio di giudici che finirono con l’amministrare una quantità significativa delle cause in corso in città.
Come si è accennato, l’ostilità fra Guglielmo VI...