1. Promuovere, coordinare e diffondere la cultura nazionale
Sodalizio di scienziati, letterati e artisti, che con determinate norme si adoprano a profitto delle discipline che coltivano […]. Nell’Accademia [d’Italia] è l’Italia con tutte le tradizioni del suo passato, le certezze del suo presente, le anticipazioni del suo avvenire (Mussolini).
Questa è la prima definizione di Accademia che compare nel 1941 nella voce omonima del Vocabolario della lingua italiana pubblicato dall’Accademia d’Italia. Nella formulazione originaria essa appariva al terzo posto fra i lemmi. Sottoposta a varie revisioni, la voce aveva infatti cambiato e sovvertito l’ordine del testo preparatorio, che indicava sette e non nove significati: iniziava con «Casa e giardini di Acadèmo ateniese», «Scuola dei filosofi seguaci di Platone» – scesi all’ottavo e al nono posto nella versione a stampa –, quindi «Società di studiosi, artisti, scienziati, costituita per iniziativa privata o creata dall’autorità pubblica, con speciali regolamenti e con determinati compiti, con il fine di favorire la vita della cultura e dell’arte». La redazione definitiva esprimeva evidentemente la volontà di valorizzare il ruolo concreto e operativo dell’accademia. La stessa citazione di Mussolini, ripresa dal discorso di inaugurazione dell’istituto del 28 ottobre 1929, non è il puro orpello retorico presente in tanti testi del periodo fascista: appare piuttosto come un invito a vivacizzare e attualizzare un organismo che la sola definizione formale tendeva a rendere anonimo e a banalizzare. La dicotomia fra il passato e il presente o il futuro era chiara a molti, se il bibliotecario dell’Accademia dei Lincei Giuseppe Gabrieli poteva scrivere nel 1929: «l’importanza delle grandi accademie va declinando. Esse hanno ormai un valore più storico e tradizionale che attuale e dinamico, funzione piuttosto coordinativa, editoriale, decorativa e rappresentativa»; e concludere, esprimendo gli obiettivi del fascismo: «Nuovo impulso alla cultura nazionale si propone di dare l’Accademia d’Italia».
In nome del primato italiano
Il nuovo ente è l’espressione più alta e ambiziosa di una politica complessiva del fascismo, che dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 cercò di controllare il mondo della cultura – dal quale soltanto potevano venire, in assenza di alternative politiche legali, pericoli per il regime in costruzione – occupando le istituzioni esistenti e creandone di nuove per utilizzare a proprio sostegno gli intellettuali, ritenuti indispensabili mediatori del consenso. Nel febbraio 1925 nacque l’Istituto Giovanni Treccani per la pubblicazione dell’Enciclopedia italiana diretta da Gentile, in marzo l’Istituto di studi romani fondato da Carlo Galassi Paluzzi, di cui fu primo presidente il ministro della Pubblica istruzione Pietro Fedele, in giugno l’Istituto nazionale fascista di cultura ad opera della direzione del Pnf per promuovere «la formazione di una coscienza politica nazionale salda e organica», presieduto fino al 1937 da Gentile. Nel 1926 fu la volta dell’Accademia d’Italia, inaugurata tre anni dopo, mentre numerose iniziative si susseguirono negli anni Trenta, a sostegno più o meno diretto delle scelte del governo: nel campo scientifico e tecnologico il Consiglio nazionale delle ricerche reso operativo nel 1927, o gli istituti storici nazionali riorganizzati sotto l’egida della Giunta centrale per gli studi storici creata nel 1934.
Protagonista vincente di questa politica culturale fu Gentile, che cercò di attrarre nell’orbita del fascismo intellettuali di varia estrazione ideologica in nome della cultura nazionale – in continuità con «la vecchia Italia, che noi non possiamo cancellare» – e non del partito fascista, pur senza rinunciare a una concezione militante della cultura, negando l’antitesi tra questa e il fascismo e sottolineando la necessità di utilizzarla per combattere democrazia, socialismo e liberalismo. Con la sua posizione concordava Volpe, che nel 1925 invitò il fascismo a non costituirsi in «setta», «antitesi assoluta al liberalismo»: a questo spirito Volpe informò la sua opera alla Scuola di storia moderna e contemporanea e all’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea. La cultura espressa dalle istituzioni vecchie e nuove controllate dal fascismo non fu quindi uniforme e non registrò necessariamente l’ideologia del regime: tuttavia, anche se non sempre i risultati corrisposero alle aspettative, la “nuova cultura” promossa dalle varie istituzioni incise a fondo proponendo nuove tematiche politiche, economiche e sociali che costrinsero gli avversari a confrontarsi sul suo terreno.
La polemica contro gli intellettuali che «stanno alla finestra» senza mettere la scienza al servizio dell’azione investe anche le accademie, considerate in genere espressione di una cultura astratta e non funzionale ai compiti di uno Stato moderno. La Reale Accademia d’Italia con sede in Roma sembra tuttavia, o vuole essere, altra cosa. Non percorsa dall’ispirazione gentiliana, si propose fin dall’inizio di avere un rapporto assai stretto con la realtà e con il potere politico: il suo quarto presidente Luigi Federzoni poté a ragione osservare nel 1939 che essa era un «istituto vivo e operante, ossia prettamente fascista, in antitesi col vecchio concetto convenzionale di pomposa inutilità che si vuol di solito collegare ad ogni tradizione accademica».
È del 7 gennaio 1926 il decreto istitutivo del nuovo ente posto «sotto la tutela dello Stato», che «ha per iscopo di promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservarne puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l’espansione e l’influsso oltre i confini dello Stato» (art. 2). Il suo patrimonio sarebbe stato costituito per la massima parte dal palazzo e dall’assegno annuo forniti dallo Stato. L’avrebbero formata 60 accademici a vita nominati con decreto reale, che godevano degli «onori, titoli, prerogative e dignità spettanti ai grandi ufficiali dello Stato» e, oltre ai gettoni di presenza, avrebbero avuto un compenso annuo di 36.000 lire cumulabile con altri assegni, stipendi e pensioni; nelle «pubbliche funzioni e cerimonie» essi avrebbero indossato una uniforme. L’Accademia «non ha membri o soci corrispondenti né italiani né stranieri», precisa l’art. 6. «Nulla è innovato alle disposizioni vigenti relative alla Reale Accademia dei Lincei e alle altre Accademie o Istituti esistenti nel Regno», recita l’art. 9 del decreto.
L’importanza e il carattere della nuova accademia sono già chiari. Saranno specificati da interventi successivi. Il 30 gennaio, presentando alla Camera il disegno per la conversione in legge del decreto, Mussolini fu esplicito: il nuovo istituto aveva origine nella «nostra rivoluzione» – dalla quale era nato il regime fascista – e si diversificava quindi dalle altre accademie, con i loro compiti particolari o locali: esso doveva essere «un centro vivo della cultura nazionale» che «contribuisca a formare quella comunione degli intelletti, con la quale sia possibile agli italiani affermare il primato nelle arti e nelle scienze che fu più volte nostro». Dopo la scuola, appena riformata, era la volta dell’alta cultura, i cui esponenti avrebbero avuto nella gerarchia dello Stato un riconoscimento specifico al di fuori di quello tradizionale del seggio senatoriale. L’art. 33 dello Statuto albertino prevedeva infatti che il sovrano poteva nominare senatori anche i membri, che ne facessero parte da almeno sette anni, della Regia Accademia delle Scienze di Torino, fino all’Unità organo di consulenza non solo scientifica dello Stato sabaudo.
L’insistenza sul primato italiano, ma soprattutto sulla rivoluzione fascista, sulla nazione e la comunione degli intelletti, tornano il 5 febbraio nella relazione per la conversione in legge del neo vicepresidente della Camera Giacomo Acerbo: egli accenna senza nominarla all’Accademia dei Lincei per l’«ambito circoscritto» delle discipline considerate, aggiunge che il nuovo istituto «guiderà autorevolmente e coordinerà il lavoro delle altre Accademie ed Istituti scientifici al fine di evitare dispersioni e duplicazioni», e auspica che ad esso sia assegnata «una sede non solo idonea e degna, ma che si ricolleghi alla gloria del Rinascimento, cioè al primato d’Italia, quando essa guidò verso le nuove conquiste il pensiero e l’anima dell’umanità». L’idea del palazzo della Farnesina era evidentemente già nell’aria.
La Camera approvò il 6 febbraio con voto segreto la conversione in legge del decreto del 7 gennaio a grande maggioranza (222 favorevoli, 6 contrari). Più complessa la situazione al Senato dove i membri erano di nomina regia ed erano presenti anche voci non allineate. «Al nuovo indirizzo del pensiero del dopo guerra, di cui il Fascismo è precisa testimonianza, è necessario corrisponda una nuova istituzione che rappresenti la volontà dell’Italia fascista», quell’Accademia d’Italia il cui «compito principale […] sarà quello di coordinare, aiutare, inspirare il lavoro delle altre, facendosi iniziatrice di grandi pubblicazioni d’insieme, compiute con la cooperazione di tutte le forze intellettuali della Nazione», affermò il 9 marzo il capo del governo. Nella sua relazione del 13 marzo Gentile ricordò le tante accademie esistenti nel paese, «eredità dello sparpagliamento politico e morale in cui le varie regioni italiane, se non le varie provincie e città, giacquero in passato», e la...