1. Dalle origini alla fondazione della Chiesa Evangelica Metodista in Italia (1869)
I primi missionari metodisti arrivarono in Italia nel 1861, ma le origini del metodismo nella penisola possono essere fatte risalire almeno all’aprile 1849, quando il pastore James Dixon (1788-1871), in un discorso presso l’Annual Meeting della Wesleyan Methodist Missionary Society (WMMS), si chiedeva se di lì a qualche anno non si sarebbe potuto leggere “Roma” tra le sedi di missione elencate nei Verbali della Società. Dixon era possibilista: parlando delle Valli Valdesi, dove dei missionari wesleyani erano già arrivati, tramite l’attività che svolgevano nella Francia meridionale, affermava che si poteva incrementare il loro numero, incaricandone uno o due di prestare particolare attenzione al «progresso degli eventi» e, se questo fosse stato positivo, li si doveva lasciar andare there, ossia a Roma. Già in quegli anni di metà Ottocento, dunque, si iniziava ad ipotizzare l’invio di pastori metodisti in Italia. Forse però nemmeno un ottimista come Dixon poteva immaginare che il «progresso degli eventi» sarebbe arrivato in tempi così rapidi (egli pensava che i più giovani avrebbero forse potuto vederlo), e non solo rendendo possibile l’evangelizzazione metodista in Italia, ma anche, appunto, a Roma, dove non molto tempo dopo la caduta del potere temporale del papato il wesleyano Henry James Piggott avrebbe trasferito la sede centrale delle attività di questa Chiesa (1873), e dove anche i metodisti episcopali americani sarebbero arrivati (1871). Roma, dove i wesleyani occuperanno – qualche decennio dopo – la chiesa di Ponte Sant’Angelo (appartenente alla Chiesa Libera fino al 1904), e dove gli episcopali costruiranno (1893-1895) un grande complesso (comprendente anche un tempio) in via Venti Settembre: entrambe posizioni strategiche e simboliche, così come lo era quella dell’edificio (anch’esso metodista episcopale) che sorgerà agli inizi degli anni Venti del Novecento sulla collina di Monte Mario, per “guardare dall’alto” il Vaticano – un proposito ritenuto così oltraggioso da scatenare subito una violenta campagna da parte sia cattolica che nazionalista per la chiusura dell’opera. Anche se in effetti, se non nella previsione delle date, Dixon aveva spinto molto in là il suo ottimismo per quanto riguardava gli esiti della possibile predicazione metodista a Roma, affermando che se lì fosse stata annunciata la «giustificazione per fede», questa «verità», se ampiamente insegnata e recepita, avrebbe «rivoluzionato e rovesciato il papato intero»: una sola «verità» avrebbe «sovvertito il sistema».
L’arrivo del metodismo in Italia, infatti, si inquadra nel cosiddetto «sogno protestante», condiviso dagli evangelici italiani e dai loro sostenitori di altri paesi (come appunto, con particolare forza, nell’ambito dell’opinione pubblica britannica): l’idea che alla riforma politica nazionale (il Risorgimento e il sorgere dell’Italia liberale) si connettesse una riforma religiosa (ed etica), e che accadesse anche in Italia ciò che era avvenuto nell’Europa settentrionale del Cinquecento. Il papato era visto come grande nemico delle libertà politiche, sociali, religiose e individuali. Non mancavano a volte accenti millenaristi: la caduta di “Roma-Babilonia” era in alcuni ambienti inglesi descritta in tono apocalittico e vista come prossima, oggetto del giudizio divino. Anche dagli osservatori più moderati, il procedere degli eventi risorgimentali veniva visto come un segnale della caduta del potere papale. Dixon aveva pronunciato il suo discorso alla fine di aprile del 1849: allora, a Roma c’era la Repubblica Romana, e Pio IX era esule a Gaeta. L’idea che dei missionari protestanti potessero giungere nella Città Eterna non doveva sembrare così improbabile.
I passi più concreti fatti dalla Società Missionaria Wesleyana per l’avvio dell’opera in Italia si datano al triennio 1859-1861. La prima iniziativa era ancora del tutto preliminare: nel 1859-1860, il pastore William Arthur (1819-1901) – allora uno dei Segretari della Società – intraprese un viaggio in Italia, per osservare i mutamenti del paese nel processo risorgimentale. Ne nacque il fortunato volume Italy in Transition. Public Scenes and Private Opinions in the Spring of 1860 (edito proprio nel 1860), che presto raggiunse le sei edizioni. La «transizione» che l’Italia stava vivendo, oltre che politica (Arthur commentava le varie annessioni al Piemonte), sembrava al missionario essere anche spirituale: egli aveva incontrato alcuni evangelici italiani, discutendo del problema della «libertà religiosa»; la sua impressione della situazione spirituale italiana era quella di un milieu ora pronto per l’evangelizzazione. I dati riportati da Arthur aprirono concretamente il dibattito sulla possibilità di avviare una missione in Italia: decisione che la Società intendeva prendere solo dopo aver esplorato «più attentamente» il campo. Il Report della Società Missionaria per il 1860, letto durante il meeting annuale in aprile, dedica qualche riga all’Italia nel contesto degli «unoccupied fields», dove si potrebbero avviare nuovi progetti; tra i paesi europei, l’Italia viene appunto citata come esempio particolarmente significativo di terra ove «the former superstitions of the people have been greatly weakened, a spirit of inquiry has been extensively awakened, and where sound instruction and guidance in the good ways of the Lord would prove of inestimable value».
Questa idea dell’Italia come di un campo «ampiamente bisognoso» del lavoro della WMMS – citando le parole del Report dell’anno successivo, il 1861 – veniva vista come «confermata» nei mesi successivi, e condivisa dalla maggioranza degli «amici della Società». Un pastore wesleyano – si legge – si è offerto, ed è stato incaricato di intraprendere la missione in Italia, iniziando con osservazioni “sul campo” che consentano di stabilire quale potrà essere la località più adatta come centro operativo, senza interferire con altri gruppi che abbiano simili obiettivi. Si trattava di Richard Green (1829-1907), che il Report dell’aprile 1861 dava come già «arrivato a Firenze».
Questo Report presenta un altro dato del massimo interesse, che non sembra essere stato finora posto in luce dalla storiografia. Si era meno che agli inizi della missione metodista in Italia: eppure, ancor prima di aver effettivamente fondato delle comunità, si pianificava la distribuzione della «traduzione di alcuni sermoni di Wesley». Dodici sermoni, si afferma, erano stati già tradotti da un italiano convertito al protestantesimo, residente a Londra, «e saranno stampati in Italia», con l’intenzione di ottenere «una più rapida e ampia circolazione». Si auspicava anche la formazione di «persone competenti» che potessero svolgere il ruolo di evangelisti tra i propri connazionali. Quest’ultima affermazione fa intendere il progetto già chiaro fin da subito di formare teologicamente una classe di evangelisti italiani (ancora però non si parla di pastori, che s...