1. Possedere quindi essere. Patrimoni femminili e diritti disuguali
1. Pratiche della vita e degli affari
Forse l’onorevole Gallini sapeva di presentare un progetto troppo ambizioso. Era il 1910, agli uomini non era ancora stato concesso il suffragio universale, eppure il deputato socialista riteneva che per le donne fossero maturi i tempi per ottenere il diritto al voto amministrativo. In realtà Gallini non pensava a tutte le donne ma alle pubbliche mercantesse, cioè a quelle donne «pratiche della vita e degli affari» che nel commercio si erano guadagnate la maturità per godere dei diritti politici. Tale maturità era dettata soprattutto dalla loro capacità di amministrare con cautela e responsabilità un patrimonio individuale. L’abilità negli affari delle mercantesse, secondo Gallini, le rendeva superiori «alle donne più istruite e agli uomini più intelligenti».
La proposta di legge non venne neanche ammessa alla discussione in aula. Tuttavia è significativo che l’onorevole Gallini chiedesse al parlamento italiano di prendere atto della dirompente presenza delle donne sulla scena pubblica del commercio, dove forte era il loro coinvolgimento sia sul piano personale che su quello patrimoniale.
Prima ancora che il dibattito sull’accesso femminile alle professioni si animasse per poi giungere all’importante traguardo dell’abolizione dell’autorizzazione maritale nel 1919, le Camere di Commercio, gli studi notarili e i tribunali italiani erano da tempo frequentati da donne che, da sole o in collaborazione con altri, usavano capitali e competenze per fare affari, chiedere e concedere prestiti, far circolare denaro.
Non è un caso che le mercantesse – e non i loro colleghi – dovessero essere “pubbliche”. Per loro era necessario un riconoscimento e un controllo da sancire ufficialmente, se è vero infatti che il possesso di capitali e competenze da impiegare negli affari rappresentava per le donne un importante fattore di emancipazione, è altrettanto vero che lo stato liberale ottocentesco predispose a tutela della proprietà familiare un’impalcatura giuridica capace di arginare le possibili derive di una così pericolosa autonomia.
Un principio di fondo animava le norme che disciplinavano l’accesso delle donne alla mercatura: la libera gestione di un capitale non doveva nuocere agli equilibri economici della famiglia. Per queste ragioni il Codice di Commercio del Regno d’Italia del 1882 seguiva orientamenti distinti a seconda dello stato civile e dell’età delle donne coinvolte in affari commerciali: se nubili o vedove potevano liberamente intraprendere un’attività senza particolari vincoli, se minorenni dovevano essere emancipate dal padre o dalla madre vedova, al contrario le donne sposate dovevano necessariamente ottenere l’autorizzazione dei mariti, che veniva concessa con un atto generico e preventivo.
In effetti erano proprio le donne sposate a rappresentare la spina nel fianco di questo sistema. Da un lato, queste particolari mercantesse non avevano bisogno di autorizzazione se prima del matrimonio esercitavano il commercio pubblicamente e notoriamente, dall’altro bisognava pur fare i conti col fatto che la loro vita pubblica metteva in crisi «quel carattere di riserbo che è proprio della moglie e della madre». Le riflessioni dei giuristi liberali restituiscono ancora di più il senso del potere che si riversava nelle mani delle mercantesse una volta ottenuta l’autorizzazione preventiva:
La moglie cui fu consentito l’esercizio del commercio – osservava Cesare Vivante – deve riputarsi per tutto ciò che le concerne come non maritata. Ella ha tutti gli obblighi di un commerciante: può disporre di tutto il suo patrimonio, anche di quei beni che non sono addetti al commercio, per gli scopi del medesimo, per esempio, convertire gli immobili in denaro e viceversa; può frequentare la borsa, deve tenere libri di commercio; i suoi atti si presumono commerciali; se cessa i suoi pagamenti cade in stato di fallimento e risponde penalmente di un esercizio colpevole e doloso.
Inoltre, se una mercantessa più intraprendente decideva di associarsi ad altri commercianti, la necessità di rafforzare il controllo sulla sua attività economica diveniva ancora più urgente, e in questo caso non bastava l’autorizzazione preventiva ma era necessario uno specifico consenso del coniuge. Lo stesso Vivante metteva in guardia dai rischi di una pratica capace di travolgere nelle sue vicende tutto il patrimonio della moglie. Attraverso la costituzione di una società – osservava il giurista – le donne stabilivano un vincolo che limitava fortemente il diritto di revoca spettante per legge al marito, entrando anche «in relazioni intime» con soci dei quali il coniuge poteva diffidare per ragioni morali ed economiche.
Tra i giuristi anche Ercole Vidari suggeriva che la creazione di una società commerciale potesse avere gravi conseguenze patrimoniali per la moglie, senza contare poi «le considerazioni anche di ordine morale» alla base di una simile scelta e consigliava quindi di limitare al massimo tale capacità alle donne.
Per le ragioni appena accennate intorno all’autorizzazione maritale concessa alle mercantesse venne elaborato un meccanismo di bilanciamento di poteri che prevedeva per il marito – pur sempre «capo e signore» della moglie – la possibilità di revocare in ogni momento il proprio consenso all’attività economica della consorte. Allo stesso modo le mogli potevano rivolgersi al tribunale quando ritenevano che tale revoca fosse ingiustificata o dettata da motivi di interesse personale.
Alla luce di questa ponderata divisione di diritti e opportunità tra uomini e donne, è interessante notare come le pratiche del commercio e degli scambi nell’Italia liberale si siano spesso fondate sui ruoli disuguali appena descritti. Tali asimmetrie hanno prodotto continui slittamenti tra forme spinte di autonomia femminile e rigidi richiami all’ordine, in nome di più tradizionali e rassicuranti gerarchie familiari.
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