II
Pensiero e istituzioni educative
Chiara Coletti
L’impresa e sigillo dell’Accademia è il monte Subasio coperto nelle sue pendici di verdeggianti, ed ubertosi olivi: circa il mezzo irrigato da varie copiose sorgenti di limpide acque; e nella sommità smaltato di amene, e fiorite praterie. Nella cima si vede Apollo in piedi ritto in atto di scendere al basso, tenendo con la sinistra mano la sua lira armoniosa, e con la destra versando delle corone d’alloro sopra uno scoglio, ove si vede inciso a grandi caratteri “Gli Accademici del Subasio”. In un cartello che sovrasterà a tutto ciò si leggerà l’antico motto dell’Accademia “Nil mortalibus arduum est” a basso poi si leggerà “Doctarum hederae praemia frontium diis miscent superis”.
Antico e moderno sembrano fondersi fino a confondersi nelle poche righe con cui, nelle carte preparatorie delle nuove Leggi organiche di cui si stava dotando l’Accademia Properziana del Subasio nel 1818, si abbozzava una prima descrizione del rinnovato stemma accademico. Se la tardo-settecentesca stagione arcadica vi appariva ancora richiamata dalle suggestioni parnasiane che accompagnano il gesto di Apollo, il paesaggio macchiettato di ulivi e ricco di acque sembrava già distintamente evocare il nuovo gusto che proprio allora stava scoprendo, nelle campagne umbre ricche di acque e vegetazione, uno dei suoi più ricercati soggetti. Più problematico e denso delle contraddizioni che percorrevano la società in quei decenni di transizione, appare invece il senso del motto scelto. Mentre la promessa di edere come premio per le fronti dei dotti e l’invito ad ascendere le pendici del monte Subasio-Parnaso con l’esercizio intellettuale richiamano senz’altro le origini umanistiche dell’antica Accademia, la scelta iniziale del verso «Nihil mortalibus arduum est» – che non sembra in realtà essere stato presente nell’antica insegna – lascia intravedere le tensioni e le contraddizioni che percorrevano la società nei difficili decenni di inizio secolo. Sempre tratto dalle Odi di Orazio, quella che sembra, a prima vista, una trionfale, illuministica, affermazione delle potenzialità umane, svela invece un’asserzione più riflessiva e matura. Nel carme da cui è tratta la breve citazione infatti, il poeta, nell’augurare all’amico Virgilio un felice viaggio verso la Grecia, compiange e ammira la stirpe umana, fragile e audace al tempo stesso che, insofferente dei limiti giustamente stabiliti dagli dei, li infrange superba e, sfidando le acque che le furono vietate, si affida ad un esile legno in balia dei venti e delle tempeste pur di seguire il suo insaziabile desiderio di conoscenza.
All’indomani del crollo del Grande Impero, dei suoi valori, delle sue forzature, si avvertiva da più parti, in Europa come negli Stati della Penisola, il bisogno di ricostruire, di rielaborare, di restaurare – per utilizzare un termine dai confini storiografici ormai fluidi; evidenti apparivano però, a più livelli, le incertezze e gli slittamenti che questa operazione immancabilmente portava con sé, che si volesse ridare vita a consolidate istituzioni culturali, come università o accademie, o che si dovesse far rinascere, anche qui su grande o su piccola scala, le istituzioni politiche così duramente provate dal vento rivoluzionario prima e dalla bufera napoleonica poi. La stessa società, da tempo “geneticamente” mutante, appariva ormai ovunque – sebbene con tempi e velocità differenti – indirizzata a cambiamenti profondi e inesorabili. Le accademie e più in generale le associazioni culturali in tutta la loro pletorica e multiforme presenza costituiscono, soprattutto in quei decenni segnati, in alcuni contesti da una censura politica attenta e occhiuta, uno di quei luoghi di socializzazione nei quali i ceti dirigenti e gli intellettuali cercavano di esprimere la propria “cultura politica”, magari indirettamente attraverso i loro studi storici o filtrandola «attraverso un protagonismo operativo in campo agricolo, teso alla produzione o alla sua ricaduta sul sociale».
Gli studi storici hanno mostrato da tempo come, già nel Settecento, in particolare dagli anni Settanta del secolo, mentre il circuito accademico della Penisola si irrobustiva con la nascita di nuovi istituti – certo con scarti e differenze di intensità fra i diversi Stati –, si stesse sviluppando un vivace dibattito sul ruolo delle accademie e degli intellettuali; talvolta collegate alla struttura statale, molte di esse stavano ampliando i loro interessi alle tematiche scientifiche, spesso creando delle sezioni a questi ambiti esplicitamente dedicate.
Anche nei territori della provincia pontificia, spesso in passato liquidati senza sfumature dagli studi storici come culturalmente torpidi e economicamente arretrati (in particolare il giudizio storiografico ha pesato sull’area umbra e la campagna laziale), nel quindicennio immediatamente successivo al rientro del papa e nel clima di moderata tolleranza e cauto riformismo instaurato dal pontefice e dal suo segretario di Stato Ercole Consalvi, nel tessuto accademico locale tornava a scorrere nuova linfa dopo la pausa napoleonica. Negli anni dell’aggregazione all’Impero napoleonico, infatti, nel quadro della generale – e faticosa – riorganizzazione delle istituzioni educative e del sistema universitario, le antiche accademie locali, laddove erano ancora in vita, non avevano trovato una loro collocazione e spesso, con alcune eccezioni (come a Perugia dove la Arcadica Colonia Augusta continuò a tenere riunioni), sospesero la loro attività. D’altro canto, mentre nella Capitale la politica della Consulta aveva prestato molta attenzione a consolidare e ridefinire questo tipo di istituzioni culturali come luoghi di formazione e di “mediazione” anche politica (sia premiandone alcuni antichi, come i Lincei, sia dando vita a nuove formazioni, come l’Accademia di Archeologia o la Società di Agricoltura), nella provincia umbra quella ristretta porzione di intellettuali che nutriva interessi moderni e – moderatamente – riformatori era stata coinvolta in prima linea dal regime o direttamente nell’amministrazione del Dipartimento o nella riforma dell’insegnamento universitario. Mentre, infatti, nel biennio repubblicano il tono dello scontro fra intellettuali “giacobini” e ambienti conservatori o più semplicemente moderati si era consumato, sul territorio, con toni aspri e il confine tra ortodossia e modernizzazione sembrava diventato un baratro, gli anni del regime napoleonico, nei quali si era recuperato un dialogo su base moderata e utilitaristica fra uomini colti, notabili e governo francese, non avevano generato nei gruppi intellettuali le amarezze e le delusioni che ne avevano invece segnato le coscienze in altri contesti italiani. All’indomani del 1815, sul consolidato terreno dei concetti di pubblico bene, utilità sociale, progresso, incivilimento, si giocava una delicata partita che vedeva gli intellettuali umbri e le piccole ma agguerrite e aggiornate comunità scientifiche locali cercare di dare contenuti realmente “moderni” a processi di riforma – economica, assistenziale, universitaria – che, seppur cautamente, anche lo Stato sembra inizialmente interessato a portare a compimento.
Nella presente sede si propongono alcune prime riflessioni sulla realtà accademica umbra negli anni della Restaurazione a partire dal confronto fra due istituti, l’Accademia Properziana del Subasio di Assisi e l’Accademia degli Ottusi di Spoleto, entrambe di antica tradizione, entrambe pressoché inattive durante l’epoca napoleonica e entrambe ricostituite proprio negli anni oggetto della nostra indagine, i cui percorsi primo-ottocenteschi presentano interessanti analogie e significative diversità.
Scriveva nel 1866 l’erudito assisano Antonio Cristofani:
Ricorderò […] che l’anno 1818 tornò a vivere tra noi l’antica accademia letteraria […] properziana. Le Accademie oggi fanno ridere non così allora. Una tornata accademica era tenuta dagli uomini colti una faccenda seria, e dal mondo curioso ed elegante il più bello de’ passatempi.
Certo, nell’infervorato clima dell’Italia post-unitaria in cui Cristofani scriveva, le tornate accademiche apparivano ormai svuotate delle tensioni e dei conflitti sociali e politici che trovavano ormai altre sedi e altri canali di sfogo, ma dei tempi gloriosi della rifondazione accademica del ’18, sui quali aveva sentito i racconti dalla viva voce dei suoi protagonisti, alcuni dei quali suoi amati maestri, Cristofani mostrava di avere gran rispetto.
L’Accademia di Assisi all’inizio dell’Ottocento aveva già alle spalle una lunga storia. Fondata all’inizio del Cinquecento (1516) come Compagnia del Monte o Subasiana, si era poi trasformata, quasi senza soluzione di continuità, in Accademia dei Desiosi (1554-1644) e, a partire dal 1656, degli Eccitati; in questa veste la sua attività si era protratta fino al 1736, seppur stancamente negli ultimi decenni. Alla metà del Settecento dopo una breve infruttuosa stagione come Accademia dei Rinati (1750), nel 1774 si era tardivamente aggregata all’Arcadia romana assumendo il nome di Colonia Arcadica Properziana e, nelle tarde, inadeguate vesti di Arcadia av...