ENIKŐ CSUKOVITS
Le innovazioni istituzionali nell’età angioina e i loro parallelismi napoletani*
Nel 1317, Roberto il Saggio, re di Napoli, ordinò un’immagine votiva al famoso pittore dell’epoca, Simone Martini. L’opera rappresentativa fu commissionata e realizzata in occasione della canonizzazione del fratello di Roberto, Luigi, vescovo di Tolosa, da parte di papa Giovanni XXII. Simone Martini, avendo delle qualità serie non solo nella pittura ma anche nella trasmissione di messaggi politici, raffigurò con una nobile semplicità la scena ideata da Roberto. In mezzo all’immagine – circondata da una cornice di gigli dorati su fondo azzurro – si vede sul trono da sovrano il nuovo santo con attributi vescovili, ma rappresentato in abito francescano e in mantello con gigli angioini. Luigi con la mano sinistra pone la corona sulla testa di Roberto inginocchiato davanti a lui. Sopra la mitra del santo-vescovo due angeli tengono un’altra corona, la corona celestiale portata dagli angeli è leggermente più grande, anche se simile a quella destinata a Roberto. Il quadro eleva un evento storico sul livello della sacralità: il terzogenito Roberto infatti deve il trono di Napoli all’abdicazione di suo fratello maggiore, ma qui il gesto dovuto alla scelta della carriera ecclesiastica, quasi si trasforma in volontà divina, attraverso la persona di Luigi, che ottiene la corona celestiale.
Nello stesso anno in Ungheria, a Szepeshely (Spišská Kapitula), Enrico, il prevosto del comitato di Szepes (Spiš), fece dipingere una scena simile sulla parete della chiesa capitolare. Al centro di un affresco di grandi misure è seduta in questo caso la Vergine, con il bambino Gesù sulle ginocchia, la quale pone la corona sulla testa di Carlo I che similmente a suo zio Roberto è in ginocchio. Sull’affresco murale si vedono anche dei personaggi secondari: a destra della Vergine vi è Tamás, l’arcivescovo di Esztergom, dietro di lui il committente del quadro, il prevosto Enrico. L’arcivescovo tiene nella mano la corona, mentre il prevosto regge il globo del regno. Dietro a Carlo si vede Frank Tamás Semsei, castellano di Szepes e scudiere di Carlo con la spada del re in mano. La tematica dell’affresco è unica in Ungheria, anche se la sua qualità artistica è inferiore a quella del maestro senese. La tematica, la composizione e il simbolismo dei due quadri suggeriscono tuttavia delle radici comuni. Le due immagini non semplicemente furono dipinte nello stesso anno e destinate alla gloria di due membri della stessa dinastia, ma anche il programma iconografico è identico: sia la tavola di Simone Martini sia l’affresco ungherese dell’anonimo maestro sottolineano l’origine divina del potere del sovrano raffigurato. Rispetto alle somiglianze, le differenze sembrano trascurabili: nel quadro di Napoli il mediatore della volontà divina è il fratello canonizzato mentre nell’affresco ungherese è la Vergine Maria stessa a fornire la corona, come una manifestazione precoce dell’idea dell’Ungheria come regnum Marianum.
I sovrani medievali, soprattutto gli imperatori bizantini, si facevano volentieri rappresentare con Cristo che pone – come mano di Dio – la corona sulla loro testa. I re normanni della Sicilia, perlopiù su influenza bizantina adottavano questa tradizione: venne raffigurato così Ruggero II nel mosaico della cattedrale di Palermo, o Guglielmo II in quello di Monreale. Questa rappresentazione stabilitasi in questo modo nel regno di Sicilia, venne rivitalizzata in una forma attualizzata durante la nuova dinastia degli Angiò, provenienti dalla Francia, anzi appare anche nel regno lontano ottenuto da un ramo della dinastia, ovvero nel Regno d’Ungheria. La vicinanza tra le due immagini – che sicuramente non è casuale – oltrepassa le relazioni artistiche e stilistiche tra le corti di Napoli e Ungheria, e richiama l’attenzione in generale sulla questione del rapporto e dell’influenza tra le due corti.
Nella storiografia ungherese è un topos di vecchia data che dietro i cambiamenti istituzionali dell’Ungheria trecentesca in quasi ogni caso vadano cercate le influenze napoletane, o quelle francesi presentatesi tramite la trasmissione napoletana. Questa interpretazione non nasce con la storiografia moderna, anzi già il famoso giurista del periodo degli Iagelloni, István Werbőczy nel suo famoso Tripartitum – dove mette in iscritto la consuetudine degli ungheresi – ritiene che nei provvedimenti degli Angiò ungheresi si realizzino influenze straniere: «tuttavia si afferma che il processo giuridico e l’uso processuale che noi osserviamo nell’iniziare, continuare, discutere e terminare delle cause, siano stati introdotti durante il regno del signore re Carlo, padre del soprammenzionato re Luigi, dalle frontiere della Francia» (ex Galliarum finibus). Questo concetto trasmesso da Werbőczy è rimasto parte dell’opinione pubblica ungherese, e si è integrato organicamente anche nel pensiero storiografico moderno, costruitosi sin dall’Ottocento. Nel terzo volume dedicato a questa epoca del grandioso manuale scritto per le celebrazioni del Millenario ungherese (1896), intitolato Storia della nazione ungherese, Antal Pór fa risalire a modelli francesi e napoletani ad esempio il sistema militare detto “banderiale” introdotto da Carlo I, l’uso dei blasoni e la forma di vita cavalleresca, e anche – riferendosi appunto a Werbőczy – i cambiamenti nel codice di procedura. L’elenco degli influssi napoletani si allargava con l’aumento del numero delle opere storiografiche scritte sull’epoca. Nella Storia ungherese di Bálint Hóman e Gyula Szekfű – la rappresentativa opera del periodo tra le due guerre mondiali che avrebbe determinato la visione storica di più generazioni in Ungheria – Hóman, autore della parte medievale dedica grande spazio ai cambiamenti avvenuti duranti gli Angiò, spiegando quasi ogni cambiamento con modelli napoletani e indirettamente francesi. Secondo l’autore Carlo I, infatti, diffuse «le cerimonie, gli usi, i divertimenti della cavalleria francese» nella sua corte, con l’aiuto dei «suoi collaboratori napoletani», ovvero i Druget, formò il nuovo sistema militare basandosi su bandiere considerando «l’esempio italiano e francese», e per formare la sua politica economica «prese a modello le regalie che gli Angioini di Napoli avevano ereditato dall’imperatore Federico II». Anche nel caso della riforma mineraria – pur menzionando l’influenza della vicina Boemia in questo campo – l’autore giudica che con l’instaurazione della libertà mineraria dei proprietari, il sovrano introdusse il sistema conosciuto anche a Napoli; è ovvio che parlando dell’introduzione dell’inchiesta (inquisitio) nel sistema delle prove, non abbia dimenticato di menzionare l’origine normanno-francese di questo importante elemento giuridico.
Nella letteratura specifica vi si legge sia di influenze napoletane rilevanti che di trascurabili: Dezső Dercsényi nel suo panorama storico scritto secondo lo spirito di Huizinga sull’età di Luigi il Grande, collega la conoscenza del modello italiano alle spedizioni napoletane del re Luigi. Secondo il suo parere, «la campagna militare e il soggiorno a Napoli, hanno lasciato una traccia profonda e incancellabile nello spirito del giovane re, e l’influenza di questo si sente in tutta la vita intellettuale dell’epoca». Questa influenza si manifesta sia in cose esteriori che in cambiamenti istituzionali fondamentali: dopo il ritorno in patria, Luigi e la sua corte cominciarono a indossare vestiti di taglia e moda italiana, e un’altra conseguenza delle esperienze italiane fu l’introduzione di un maestro di corte (magister curiae) – che corrisponde grosso modo al titolo di siniscalco – alla direzione della corte. La storiografia ungherese degli anni ’30 era in ricerca di collegamenti esterni, e così essa si rivolgeva volentieri verso l’Italia che influenzava la storia ungherese sin dall’alto Medioevo, e che proprio in quel periodo alimentava un rapporto sempre più amichevole con l’Ungheria. Accanto alle sintesi di Hóman e Dercsényi...