1. Rappresentare, mostrare, leggere
1. Importanza delle fonti
Le fonti hanno sempre avuto una grande importanza per le ricerche storiche soprattutto da quando, lungo la seconda metà dell’Ottocento, si è andato riconoscendo alla storiografia uno specifico statuto disciplinare. Basta pensare al rilievo che nell’opera di Droysen viene dato all’euristica e ai «materiali» su cui la ricerca storica deve basarsi, ai modi cui lo storico ricorre per poterli adeguatamente analizzare, siano pochi o molti, dispersi o unitariamente conservati, ben individuati o mescolati ad altri, o addirittura nascosti. «Dobbiamo partire dall’idea – afferma fra l’altro Droysen – che il ricercatore che vuole informarsi storicamente non pesca a casaccio nella massa dei materiali, ma sa cosa vuole e interroga di conseguenza il materiale esistente». E aggiunge: «quanto più è ricca la sua conoscenza, più profonda la sua cultura […] tanto più grandi saranno i mezzi a sua disposizione per porre correttamente la sua domanda e cercarsi il materiale per dare la sua risposta». Di materiali, si sa, «ce ne sono infinitamente più di quanto non si potrebbe credere inizialmente; e la genialità del ricercatore si mostrerà soprattutto nel saper trovare dove altri non videro nulla finché non gli fu mostrato tutto ciò che c’era».
Il rapporto tra storiografia e fonti è peraltro cambiato nel corso del tempo.
La mappa dei materiali-fonte è diventata via via più estesa. Famosa è la prolusione fatta al Collège de France da Lucien Febvre all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso. Per gli storici del Novecento è diventata una sorta di manifesto programmatico. La storia – dice Febvre – si fa con «i testi, certamente; ma tutti i testi. E non solo i documenti d’archivio […]. I testi, evidentemente: ma non soltanto i testi. Anche i documenti, qualunque sia la loro natura […], quelli, soprattutto, che sono procurati dallo sforzo di nuove discipline», siano esse «prossime o lontane» rispetto alla disciplina storica. Insomma, «la storia […] si costruisce senza esclusioni, con tutto ciò che l’ingegno umano può inventare e combinare per supplire al silenzio dei testi, alle distruzioni dell’oblio».
La storiografia novecentesca, nell’ampliare i propri oggetti di ricerca e nel moltiplicare i punti di vista e gli approcci di metodo con cui affrontarli, ha pressoché unanimemente accettato l’allargamento, a seconda dei casi più o meno esteso, della nozione di fonte. Così la tipologia delle fonti è diventata sempre più variegata e diversificata rispetto a quanto era accaduto in precedenza. Non ci sono più fonti da privilegiare rispetto ad altre. Tanto meno le fonti archivistiche, che per qualche tempo invece lo sono state, in quanto ritenute tra le più oggettive. Esse sono invece, non meno di altre, soggettive, parziali, lacunose. Ci restituiscono infatti molte informazioni e notizie, ma molte vi sono appena accennate o del tutto taciute. Anche per questo, e per decenni, quanti le hanno utilizzate hanno finito col fare la storia dei vincitori più che dei vinti, degli uomini più che delle donne, delle persone – ed erano poche – che detenevano una qualche forma di potere politico, economico, sociale, culturale, ecc. più che delle persone – ed erano tante – cosiddette qualunque, costrette a osservare da lontano, o a subire, l’attività del potere esercitato da altri.
Le fonti relative ai ceti inferiori e a chi sapeva malamente o nient’affatto scrivere sono state, fino a tempi recenti, scarse, frammentarie o pressoché inesistenti. Così – come ha osservato alcuni decenni fa Thompson – c’è voluto del tempo prima che i tanti esclusi dalla storia fossero riscattati «dalla scellerata condiscendenza dei posteri».
Per dare inizio a questo riscatto, ma non solo per questo, alcuni storici, soprattutto a partire dagli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, hanno utilizzato con approcci metodologici nuovi sia fonti già note, sia fonti prima poco considerate o del tutto ignorate. È stata infatti, ha osservato Momigliano, la grande «inventività di forme storiografiche», che senza dubbio costituisce «la caratteristica del nostro tempo», a indurre a riletture e a nuove interpretazioni di fonti già conosciute, nonché a individuare fonti fino ad allora pressoché neglette. Nel compiere queste operazioni si è diventati inoltre sempre più consapevoli che le fonti – come ha sottolineato Topolski – sono da intendere in senso dinamico; esse cioè, a seconda delle domande poste loro dagli storici, modificano, evidenziano, aumentano la loro intrinseca, potenziale struttura informativa.
Nella letteratura storiografica non si sono in seguito verificate rilevanti inversioni di tendenza, anche se alcune tematiche hanno perso terreno, altre hanno conosciuto ridimensionamenti e modificazioni o sono andate a occupare spazi tuttora in gran parte inesplorati. Gli storici si sono inoltre sempre più resi conto che continuare a discutere su classificazioni di fonti, via via proposte soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, non serve più di tanto, una volta che si proceda nel concreto lavoro di ricerca. E sanno che non ci sono più rigide gerarchie di rilevanza da rispettare. Ma ovviamente, se si intende indagare in modo corretto su un dato oggetto di studio, non si possono ignorare determinate fonti o sceglierle in modo arbitrario. Se è vero che tutto è o può essere considerato fonte, è anche vero che è importante cercare di conoscere, nei limiti del possibile, le rispettive, e quasi sempre complesse e intricate, stratigrafie. Nella pratica storiografica si è da tempo acquisita la consapevolezza che sia utile e opportuno cercare di essere informati sulle strutture proprie ai vari tipi di fonte e sulle vicende culturali e storiche che le hanno interessate. È una consapevolezza da conservare quando nell’esercizio della suddetta pratica vengono inglobati tipi di fonti in passato trascurati o poco frequentati. E quando gli storici manifestano interesse per le tecniche, le forme, i linguaggi che li connotano, e intendano confrontarsi con analisi, categorie, interpretazioni praticate da studiosi di altre discipline.
2. Trasmissioni e stratigrafie
Sconfinare di tanto in tanto in campi disciplinari diversi da quello in cui si è soliti operare, è certamente un’operazione proficua. Sopratutto lo è qualora si cerchi di intravvedere quali rapporti possano instaurarsi tra essi. E per riflettere su come affrontare tematiche e problematiche che vi sono connesse. Consapevole delle difficoltà che avrei incontrato e dei rischi che avrei corso, ho a lungo esitato prima di gettare uno sguardo su saperi, procedure, fonti propri di settori disciplinari per me inconsueti. Ho finito per puntarlo, una volta superate le esitazioni derivanti dalla pratica di una prolungata consuetudine con le fonti documentarie, su alcuni rapporti che intercorrono tra storiografia, letteratura e cinema.
Come si vedrà nei capitoli seguenti, ho preso in considerazione quattro opere letterarie e due film. È una scelta che ne sottende un’altra: quella connessa alle coordinate spazio-temporali entro le quali le opere e i film vanno collocati. Le une e gli altri sono riferibili all’ambito italiano e a un arco cronologico compreso grosso modo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento. Trattano di storie e di persone del mondo impiegatizio; riguardano problematiche che lo hanno in vario modo attraversato.
Dare esplicito rilievo ai contesti spazio temporali in cui le fonti che si vogliono utilizzare sono state prodotte è un’ovvietà. Ma è un’ovvietà su cui è sempre opportuno riflettere, se non altro perché si tratta di situazioni specifiche, che rinviano o sono intrecciate ad altri tipi di contestualizzazioni. Le fonti, per poterle correttamente «interpretare», sono sempre da ricondurre, da «restituire», secondo l’accezione sottolineata da Jean Starobinski in un saggio non recente ma tutt’altro che datato, all’interno degli specifici contesti di produzione-trasmissione. La «disciplina storica – ha scritto Thompson – è, anzitutto, la disciplina del contesto; ogni fatto può acquistare significato soltanto entro un insieme di altri significati». A sua volta Momigliano, in un breve ma denso scritto sulle regole da tener presenti quando si gioca con le fonti, ha affermato che «lo scopo dello storico è di riconoscere la situazione specifica che permette di collocare il documento nel suo esatto contesto di spazio e tempo», in quanto «ciascun documento è il prodotto di una situazione specifica e ci dice qualcosa sulla medesima».
Per documenti non si devono intendere soltanto le fonti d’archivio; per contesti non si deve pensare soltanto a quelli propri di questo tipo di fonti. Se è vero che il termine-concetto di contesto è elemento caratterizzante del sapere e della pratica archivistica, è anche vero che esso ha un’importanza tutt’altro che trascurabile anche per fonti d’altro tipo. Per esempio per quelle letterarie e filmiche. Esse infatti risultano tanto più dense di informazioni quanto più si riuscirà a ricondurle all’interno dei rispettivi e specifici spazi di produzione, nonché dei relativi e più vasti ambiti culturali, sociali, politici.
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