1. Gli intellettuali alla prova dell’Italia unita
1. L’eredità del trasformismo
Nel 1885 Pasquale Villari ristampava le sue Lettere meridionali, e poteva sottolineare con amara soddisfazione:
In sul principio parve quasi, che io fossi mosso dalla strana e impotente mania di seminare agitazione e diffidenza in un paese tranquillo e felice; di sollevare lo spettro della questione sociale, nella sola parte d’Europa dove essa non esisteva. Ma vennero poi alla luce molti nuovi scritti, i quali provarono che io non avevo sognato […]. La emigrazione sempre crescente […]; gli scioperi ripetuti dai contadini lombardi nei giorni di raccolta; le aggressioni che di tanto in tanto si moltiplicano improvvisamente; la propaganda delle sètte sovversive, le quali già si fanno sentire; tutti questi sono segni di un male latente, che invano si cercherebbe nascondere e negare.
Questa Prefazione alla seconda edizione è datata ottobre 1884, ed era stata scritta mentre la stampa continuava a fornire sempre più preoccupanti informazioni sul colera che aveva ancora una volta investito numerose province italiane, per concentrarsi poi dal settembre nell’Italia meridionale e soprattutto a Napoli. Una riprova, se ce ne fosse stato bisogno, che le antiche denunce erano ancora attuali. E tuttavia questa riedizione di testi – che, alla loro apparizione un decennio prima, nel 1875, sul giornale l’«Opinione», e in volume nel 1878, avevano già allora ricordato quanto «l’edifizio da noi costruito fosse molto più debole di quel che credevamo» – assumeva il carattere più di un memento che di un intervento attivo, mentre ormai la svolta degli anni Ottanta andava dispiegando in Italia tutte le sue conseguenze, politiche in primo luogo, ma anche culturali con la progressiva crisi di quel positivismo su cui le riflessioni di Villari stesso si erano fondate.
Se nel 1884 giungevano finalmente a conclusione i lavori della Giunta parlamentare per l’Inchiesta agraria, presieduta da Stefano Jacini, quasi simbolicamente sorgevano nello stesso anno le Acciaierie Terni, con l’appoggio di Brin in funzione anche dell’espansione della Marina da guerra, elemento essenziale per lo sviluppo di una politica coloniale italiana.
Il 17 gennaio del 1885 era partito da Napoli quello che con diplomatica ipocrisia era chiamato «corpo di spedizione di Assab», ma il cui compito in realtà era l’occupazione di Massaua, e il 27 gennaio, alla Camera, il ministro degli Esteri Mancini sottolineava il carattere di «legge naturale» dell’espansione coloniale e la conseguente responsabilità, cui l’Italia non poteva più sottrarsi, di «mondiale incivilimento», di «alta missione educatrice» nei confronti delle genti africane. Anche per l’Italia era giunto il momento di gravarsi del «fardello dell’uomo bianco», secondo la celebre poesia di Kipling, e con più ragioni di altri popoli:
Orbene se l’emigrazione esiste, se questo fatto non si può impedire, dappoiché sacra è la libertà dell’uomo, e, prima fra tutte le libertà, quella di vivere dove meglio piace a ciascuno; ebbene, sarà più vantaggioso che questa emigrazione si disperda sulla faccia del globo; che vada a caso in lontane ed ignote regioni, dove l’aspetta il disinganno e talora la morte; o che vi siano paesi, le condizioni dei quali siano già ben conosciute, dove il suo lavoro possa essere con certa e propizia utilità esercitato, e dove sventoli la bandiera nazionale, che tuteli e protegga le industrie degli emigranti italiani?
Nello stesso 1885 uno scrittore che si era rivelato quattro anni prima con Malombra, Antonio Fogazzaro, sceglieva gli inizi degli anni Ottanta per ambientare il suo nuovo romanzo, il cui protagonista, Daniele Cortis, nel clima di «trasformazione che c’è per aria», affermava la necessità di contrapporre alla «religione costituzionale inglese» con il suo «dispotismo parlamentare», ai rischi di un prossimo ingresso nella vita politica di «nuove moltitudini elettorali […] inclinate a procacciarsi un utile diretto con la loro partecipazione al Governo, a promuovere un’azione legislativa, esagerata e improvvida, esclusivamente a loro favore», l’immagine di una monarchia responsabile, «ruota maestra» del «meccanismo costituzionale».
Episodi diversi ma che confermavano che in quell’anno 1885 veniva da un lato a compimento quanto era stato preannunziato con la riforma elettorale del 1882, e cominciavano a delinearsi nello stesso tempo temi nuovi o rinnovati che avrebbero dominato il decennio successivo.
Molti elementi confermavano del resto che gli anni fra il 1882 e il 1886 rappresentavano un periodo di transizione nella cultura politica italiana.
Che con il 1882 una stagione si fosse conclusa era risultato evidente agli osservatori, e non senza lasciare uno strascico di inquietudini.
Nella sua Prefazione alla seconda edizione delle Lettere meridionali del 1885 Villari aveva ricordato tra l’altro gli studi «del Franchetti e del Sonnino; e poi moltissimi altri, fra i quali citerò solo i Governanti e governati, del professore Turiello. Egli, che aveva incominciato col farmi un poco il viso dell’arme, venne fuori più tardi con le sue notevolissime indagini». E ancora aveva indicato tra le conseguenze della sua opera quella «Rassegna Settimanale, fondata dai medesimi signori Sonnino e Franchetti», che aveva svolto «una propaganda intelligente, generosa ed efficace, a difesa delle classi più povere, e contribuì di molto a ridestare su questo argomento la pubblica opinione». E tuttavia proprio nel 1882 Sidney Sonnino aveva chiuso la sua battaglia della «Rassegna Settimanale». In parte era una conseguenza della consapevolezza che la lotta politica dopo la riforma elettorale aveva bisogno di altri mezzi, del giornale quotidiano ad esempio, un tema anche questo che cominciava a dominare la vita intellettuale italiana, se nel giornale e non nel Parlamento il Daniele Cortis di Fogazzaro avrebbe visto alla fine del romanzo lo strumento ideale della sua futura battaglia. Ma il congedo di Sonnino dai lettori della «Rassegna Settimanale» poteva anche essere letto come la sanzione di una sorta di resa di fronte ai nodi che l’Unità d’Italia aveva lasciato aperti, e del resto Governo e governati in Italia di Pasquale Turiello, anch’esso citato da Villari, e anch’esso dell’82, collocando al centro della riflessione il «carattere degli italiani», sembrava voler sottolineare che la questione meridionale era prodotto di stratificazione etnica prima ancora che sociale.
Anche Giosuè Carducci collegava quell’anno chiave con una data altrettanto significativa, quando affermava che se «con la rivendicazione di Roma all’Italia, comunque andasse, il supremo ideale della mia politica nazionale fu raggiunto, e finì la bella età leggendaria della democrazia italiana», con il 1882 era conseguito, o almeno era in via di conseguimento, «l’altro ideale della mia vita democratica, il suffragio universale». Si chiudeva così una stagione che aveva avuto il nome simbolo di Giuseppe Garibaldi, morto in quello stesso anno: «la rivelazione di gloria che apparì alla nostra fanciullezza, la epopea della nostra gioventù, la visione ideale degli anni virili, sono disparite e chiuse per sempre». E lo stesso Carducci ricordava che con la riforma elettorale la nazione era entrata «in una fase d’agitazione e d’evoluzione, che avrà bisogno, e abbondanza, di prosa, magari brutta, e niente affatto di poesia». Ma chi sarebbe stato l’interprete del nuovo periodo che si apriva? Non certo quei partiti cui Carducci rivolgeva il suo acerbo rimprovero:
Coraggio, o partiti, coraggio; e spiegate le vostre glorie intorno al letto di morte dell’eroe. Avanti la Destra, anarchica e socialista, per ragguantare il potere! Avanti la Sinistra, conservatrice e sbirra, per ritenerlo! […] E voi progressisti, con le soperchierie dei saliti ad altezze insperate […]! E voi repubblicani, col bizantinismo sonante […]. Né manchino i socialisti, almeno quelli che custodiscono a freddo nei loro pensieri e nei sogni certe idee e certe scene nelle quali la sensuale leggerezza celtica si accoppia libidinosamente alla torva crudeltà druidica.
Nello stesso anno, nel...