Linguaggi politici nell'Italia del Rinascimento
eBook - ePub

Linguaggi politici nell'Italia del Rinascimento

  1. 561 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Linguaggi politici nell'Italia del Rinascimento

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Intorno al tema dei linguaggi politici è in corso ormai da diversi anni un intenso dibattito storiografico, grazie anche al rinnovamento di prospettive scaturito dal dialogo con altre scienze umane e sociali. Proprio l'esigenza di mettere a fuoco questo denso nodo concettuale ha indotto un gruppo di studiosi del tardo Medioevo e del primo Rinascimento a cimentarsi con un progetto di ricerca articolato lungo due direttrici principali.Innanzitutto si è voluto allargare l'analisi oltre il circuito dei testi prodotti da umanisti, filosofi e altri "grandi autori", valorizzando l'ampio spettro di fonti per convenzione definite "pragmatiche" – capitoli, gravamina, arenghe, missive, statuti, testimoniali, atti notarili, ecc. – solitamente trascurate dagli storici delle idee come da quelli della cultura "alta".In secondo luogo si è prestata un'attenzione particolare alle circostanze d'uso dei linguaggi, così da cogliere la funzione polemica e rivendicativa: da qui l'importanza dei contesti in cui le idee prendevano corpo e dei rapporti tra gli autori o produttori di testi e i loro destinatari.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Linguaggi politici nell'Italia del Rinascimento di Autori Vari, Andrea Gamberini, Giuseppe Petralia, Andrea Gamberini, Giuseppe Petralia in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Historia e Historia del Renacimiento europeo. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788867285587
Il lessico della soggezione e il lessico della sovranità
PATRICK BOUCHERON

L’architettura come linguaggio politico: cenni sul caso lombardo nel secolo XV1

Trenta anni fa, Paul Veyne, storico dell’evergetismo nel mondo ellenistico e romano, ultimava la sua opera maggiore (Le pain et le cirque) definendo le «tre sfide della politica»: Chi comanda? Cosa comanda? Con quale tono comanda?2 Indubbiamente, troviamo in nuce, in questa formulazione le premesse degli sviluppi storiografici odierni riguardo ai linguaggi politici in cui convergono tre importanti correnti storiografiche. La prima è la sociologia storica della dominazione politica, arricchita non solo dai progressi della prosopografia, ma anche dai nuovi quesiti della storia sociale, valendosi di scale d’analisi sempre più sottili e del riconoscimento dell’autonomia degli attori:3 «Chi comanda?». La storia dello Stato è anzitutto una storia sociale, e non solo perché ha l’incarico di fare la sociologia dei ceti dirigenti, ma perché ha il compito di decifrare il rapporto sociale che istituisce la governamentalità4 – in altre parole, la società politica nella sua accezione più larga.5 La seconda parte del programma («Cosa comanda?») sembra, di primo acchito, più convenzionale, semmai si trattasse solo di riconoscere il programma d’azioni future negli atti di governo; ma le nuove prospettive, aperte dalle scienze sociali, che vagliano la nozione stessa dell’azione politica, vengono ad ampliarla.6 Inoltre, si collega al terzo interrogativo («Con quale tono comanda?») che innesta la dimensione meramente retorica dell’analisi del discorso.7 È su questo punto che gli storici odierni dei linguaggi politici si riconoscerebbero più volentieri, nell’analizzare il rapporto discorsivo che si stabilisce tra governanti e governati – ciò che la storiografia della costruzione dello Stato ha chiamato e seguita a chiamare “il dialogo politico”8– sebbene gli stessi privilegerebbero sicuramente al solo accenno d’ingiunzione autoritaria (il linguaggio politico che ordina, comanda, intima) una gamma più duttile e variegata, che va, passando per tutte le forme di persuasione, dalla seduzione alla minaccia.
Scegliendo il tema: l’architettura come linguaggio politico, ossia lo studio di un linguaggio non verbale, sono ben consapevole di discostarmi dall’asse principale della nostra problematica. Ovviamente, potremmo accontentarci dell’affermazione che lo “stile” degli storici dell’arte equivale al “tono” degli storici della res politica, dell’osservazione che l’espressione di Paul Veyne calza appieno con l’analisi della committenza artistica, forti degli apporti stabiliti dalla sociologia della produzione e del consumo dell’opera d’arte. Questa ultima, infatti, troverebbe volentieri nell’incipit del libro di Michaël Baxandall Painting and Experience in Fifteenth Century Italy, il suo slogan mobilizzatore: «una pittura del Quattrocento è il prodotto di una relazione sociale».9 Tuttavia, rispetto alla storia della pittura o, in misura minore, a quella della scultura,10 la storia dell’architettura rimane, per molto tempo, refrattaria ai rinnovamenti di tale problematica; nonostante l’appello di Manfredo Tafuri alla sua “banalizzazione” – da intendere come una volontà d’integrare l’oggetto architettonico nell’insieme dei quesiti comuni degli storici, e all’evenienza degli storici dei linguaggi politici – la condivisione dei ruoli istituzionalmente fissata dalle realtà accademiche ha a lungo difeso il proprio campo, per non dire il proprio isolamento, limitandosi alla cerchia degli specialisti.11
Situazione paradossale, quando si sa con quale facilità – e spesso con quale gaudio – gli storici cedono volentieri alla tentazione di evocare questo o quel monumento come “espressione del potere”, seppure ai soli fini pedagogici.12 Di solito, i medievisti, a differenza dei loro colleghi antichisti, citano gli edifici nei loro ragionamenti solo per illustrare un discorso già costituito: in effetti, cosa sarebbe la storia politica della città greco-romana senza l’analisi archeologica della sua struttura monumentale? Si tratta, insomma, di dimostrare, eventualmente di fare capire, ciò che le fonti scritte hanno rivelato e che la loro analisi ha stabilito nel discorso dello storico. Ma che l’analisi di un’opera d’arte, di un edificio, di un profilo monumentale – in sintesi, di una fonte non scritta che in teoria può solo ed esclusivamente essere afferrata in modo visivo dagli attori – e ciò che d’altronde dovremo vagliare – possa intervenire direttamente nell’operazione storica, vale a dire costituire una fonte di conoscenza a sé, la cui rilevanza sarebbe pari ad un testo e forse verrebbe perfino a confutarlo – costituisce un passo che un buon numero di storici rifiuta di compiere.
È probabile che costoro abbiano, in merito, delle serie ragioni legate al metodo stesso dell’interpretazione. A rigore di logica, l’interpretazione di un edificio non obbedisce alle stesse regole positive che presiedono all’interpretazione dei testi e non offre le stesse garanzie erudite di scientificità. Ciò è assai vero se si vuole stabilire la realtà linguistica degli atti di potere, cercando di applicare il rigore delle scienze del linguaggio. Non esiste una linguistica delle immagini come esiste una linguistica dei testi e le teorie che prevalgono oggi nell’antropologia della cultura visiva, complicando il rapporto tra significante e significato – mi riferisco tra l’altro, in campo medievale, ai lavori di Hans Belting13 – proscrive (e con tutta probabilità a buon diritto) ogni tentativo di una semiotica strutturale del messaggio visivo. È ovvio per un edificio ben più che per l’immagine dipinta, poiché manca all’architettura la possibilità della duplicazione in serie, che costituisce forse l’unica via d’accesso ad uno studio sistematico dell’imago medievale.14
Ora, se estendiamo il campo d’analisi, dal monumento isolato allo spazio urbano, non per questo il nodo si scioglie. Di sicuro, è scontato rilevare che la città può leggersi come un testo ed il messaggio architettonico intendersi come un proemio – come Umberto Eco ha fatto con tanto brio, importando le nozioni linguistiche di connotazione e di denotazione nell’interpretazione dei monumenti.15 L’analogia strutturale esistente tra il testo e l’architettura spiega alcuni prestiti intrecciati tra le varie discipline: gli storici dei testi hanno, da tempo, preso in prestito il concetto di reimpiego dagli archeologi16 e a loro volta gli storici dell’arte condividono con i letterati il concetto di citazione.17 Costoro postulano l’esistenza di un lessico architettonico, (il vocabolario classico della teoria degli ordini), di una sintassi (il barocco come riorganizzazione degli elementi classici) e a volte di uno stile (il barocco del Bernini come variante libera di tale riorganizzazione).
Ciononostante, affermare che l’architettura è un linguaggio politico non è un passo del tutto evidente. Persino un autore a dir poco fiducioso negli effetti positivi di un metodo strutturalista come Roland Barthes, ne conveniva. Circa quaranta anni fa, in una conferenza su semiologia e urbanistica, tenutasi a Napoli, egli constatava: «la città è un discorso e questo discorso è davvero un linguaggio: la città parla ai suoi abitanti, noi parliamo la nostra città, la città dove ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, riguardandola».18
Da questo punto di vista, parlare dell’architettura come di un linguaggio politico collimerebbe con gli obiettivi del nostro lavoro collettivo di ricerca sui linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento, il cui doppio registro consta sia del ventaglio di soggetti capaci di sviluppare discorsi politici complessi, sia dello spettro stesso dei linguaggi utilizzati. Il linguaggio dell’architettura, infatti, non è solo un monologo rivolto dal committente a chi guarda l’edificio; dato che utilizzano la città, gli abitanti rispondono al messaggio loro indirizzato. Così riusciamo ad eludere l’aporia definita in precedenza: lo spazio urbano non si legge come un’impronta lasciata al suolo dalle relazioni di potere, in cui lo storico potrebbe verificare quello che sa già della struttura politica dello Stato che l’ha organizzata e che qui troverebbe una traduzione visiva. Il suolo urbano non è né un pavimento neutro e inerte né i suoi abitanti sono dei consumatori passivi di messaggi loro rivolti:19 è in loco che s’intesse il senso politico dei luoghi, mediante la pratica dello spazio, costituito dal fatto, per gli utenti della città, di abitarvi, di lavorarvi, di passeggiarvi, ma anche di rappresentarsela, di parlarne, di preferire radunarsi su questa o quella piazza… – altrettante pratiche chiamate giustamente énonciations da Michel de Certeau.20 Ma anche qui, bisogna essere cauti per non illudersi, e tentare di definire con rigore la natura epistemologica di tale tipo d’analisi. Proseguendo il suo ragionamento, Roland Barthes, a ragione, ci mette in guardia: quando si evoca il linguaggio della città, si usa una metafora. Ora, precisamente «il vero salto scientifico sarà realizzato, quando si potrà parlare del linguaggio della città senza metafora».21
Sarebbe molto presuntuoso pretendere di spiccare tale salto scientifico in questa sede. Ma ci fu un tempo in cui architetti, umanisti e più genericamente uomini di potere hanno creduto di aver realizzato tale salto, e quel tempo è precisamente il Quattrocento. Con Leon Battista Alberti, e particolarmente con Filarete, l’architettura si erge a linguaggio politico: anzi, all’arte del convincere, che attinge dalla retorica la sua ambizione, i suoi metodi e il suo lessico. Quindi, parlare di architettura come di linguaggio politico nell’Italia del secondo Quattrocento ha un senso specifico, dal momento che gli architetti tentano di farsi conoscere come gli autori degli edifici che costruiscono e tale rivendicazione prende un senso preciso nella nuova configurazione dei linguaggi politici nell’ambito del sistema di corte. È quello che tenterò di esporvi nella prima parte, suggerendo che l’interpretazione data da Filarete su Alberti avvalora la tendenza alla politicizzazione dell’arte di edificare.
Ora, il fatto che tale evoluzione avvenga nel momento dell’espatrio dell’architetto fiorentino nella Milano sforzesca, non è del tutto casuale. A Milano, infatti, l’analisi delle fonti attinenti alla prassi e, specie alla corrispondenza degli ingegneri, rivela palesemente che il cantiere è altresì un luogo di confronto dei linguaggi politici. Sarà l’argomento della seconda parte, dedicata più ai fallimenti, ché ai successi, più ai cantieri non ultimati ché ai progetti compiuti. Ma in tal caso, il metodo consiste nel fare luce sul senso del messaggio dell’architettura, grazie all’analisi dei testi che lo commentano. Sarà opportuno chiedersi, in una terza e ultima parte quale sia la capacità del linguaggio politico architettonico di rendersi autonomo rispetto al contesto ambientale “d’énonciation”. In altre parole porsi la domanda: gli edifici, presi in una configurazione monumentale che dà loro un senso politico gli uni rispetto agli altri, sono in grado di generare un linguaggio politico specifico che non solo illustrerebbe visivamente quello che i testi esprimono, ma che li controbilancerebbe, anzi li contraddirebbe, e il caso milanese che qui c’interessa, esprimerebbe il linguaggio politico dell’obbedienza e del protoassolutismo signorile che le parole tacciono?

1. «Quello che costruire vuole dire». La politicizzazione del messaggio architettonico

1.1 L’efficacia persuasiva dell’arte di costruire: la retorica albertiana del “buon governo”

Sappiamo oggi, soprattutto in seguito agli studi condotti da Christine Smith, che la valorizzazione dell’architettura nel sistema di corte degli Stati territoriali tra il 1430 e il 1470 deve molto di più alla cultura dell’eloquenza esaltata dagli umanisti che al rapporto con l’Antichità.22 Nel caso milanese, le numerose citazioni della grammatica delle forme dell’Antichità romana che si trovano nell’architettura di Giovanni Antonio Amadeo, ad esempio, sono destinate a rinforzare la sua efficacia persuasiva e ciò, nel contesto generale della cultura antiquaria sviluppata dagli umanisti.23 Da questo punto di vista, l’architettura subisce la medesima mutazione della pittura; in breve, il passaggio da un’arte della memoria ad un’arte della persuasione.24
Affermare che l’arte medievale è fondamentalmente mnemonica non significa necessariamente confinarla ad una cultura d’insistente ripetizione o di recit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Indice
  6. Introduzione
  7. Il lessico della soggezione e il lessico della sovranità
  8. Il linguaggio delle comunità urbane
  9. Il linguaggio delle comunità rurali
  10. Fazioni, relazioni esterne, ceti: i linguaggi non territorializzati
  11. Opere citate