1. La dissoluzione delle grandi bande armate
Negli uffici cagliaritani si capì ben presto che l’assenza di segretezza era alla base del fallimento delle più imponenti spedizioni militari contro i malviventi. L’aveva sperimentato l’inflessibile generale d’artiglieria Saint Remy, il viceré sabaudo che per primo dovette confrontarsi con il nord del regno pullulante di delitti, collegati alle ostinate fazioni di gentiluomini e maggiorenti eternamente in armi.3 Erano trascorsi soltanto alcuni mesi dal suo insediamento quando gli giunse notizia dell’uccisione di tre ufficiali di giustizia in tre differenti villaggi, di tentativi di effrazione delle carceri, di scontri tra partiti avversi a Pattada, Ozieri, Chiaramonti e Osilo. Particolarmente inquietante era la situazione ad Aggius: nelle sue vicinanze don Geronimo Pes e i quattro uomini della scorta erano stati assassinati mentre vi si recavano per la riscossione del donativo. Nei confronti di quella villa di uomini renitenti a ogni tributo, covo di audaci contrabbandieri e terreno di gara e scontro tra gli Addes e gli Specigo, Saint Remy tentò una spedizione esemplare ma, al suo arrivo da Sassari, il contingente militare al comando del conte di Moretta la trovò pressoché deserta, abitata quasi esclusivamente da donne e bambini.4 Avvistati un po’ ovunque, quanti temevano la giustizia si erano dileguati al sopraggiungere delle armi del re.
Negli anni Trenta, non ebbero maggior successo gli spettacolari assalti dei dragoni ordinati dal marchese Rivarolo, il viceré immortalato dalla storiografia sarda per l’intransigenza e la spietatezza marziali usate nei confronti della delinquenza rurale.5 Le sue spavalde dragonnades misero a soqquadro le comunità, l’acquartieramento militare si configurò come una pesante e umiliante corvée per i villaggi, ma le catture colpirono per lo più figure marginali. Avvertiti con tempestività, i potenti capifazione e i loro seguaci trovavano riparo in inviolabili luoghi sacri o si eclissavano nelle campagne per prendere poi, se necessario, il mare per la Corsica.
Ben più efficace di quelli improvvidi attacchi fu la lunga missione affidata, tra l’inverno e la primavera del 1736, al giudice della Reale Udienza don Francesco Cadello, un magistrato sardo di grande prestigio ed esperienza che, meglio di altri, padroneggiava i problemi di ordine pubblico in quelle contrade.6 Conferendogli poteri di alter nos, Rivarolo ne aveva fatto il nunzio del suo futuro viaggio. Come residenza gli fu destinata Ozieri, punto di raccordo per interventi non tanto imponenti quanto brevi e mirati nel Monteacuto e in Anglona, nel Marghine e in Gallura. A rendere temibile il magistrato fu la possibilità di mobilitare i militari di presidio ad Alghero, a Tempio e a Nulvi e, soprattutto, i poteri eccezionali che gli furono conferiti: avrebbe giudicato qualunque delitto con procedimento breve e sommario; i tempi della difesa si sarebbero ridotti a «pochi giorni, et eziandio poche ore, secondo le circostanze»; alcune pene, specie l’odiata e infamante fustigazione, potevano essere applicate «senza formalità di processo», e la pubblica impiccagione avrebbe seguito, senza indugio, la cattura dei malviventi già condannati a morte. Il banditismo, come sosteneva Mario Sbriccoli, non era «sentito e trattato» come un «crimine tra gli altri», era invece sempre «fatto oggetto di una risposta militare» e di un rigore repressivo che implicava la sospensione delle garanzie fondamentali, della possibilità di difesa e di appello.7
Nella missione, a sveltire arresti e carcerazioni, processi ed esecuzioni contribuì anche una sapiente distribuzione di salvacondotti tra delinquenti, nonché il ricorso alla “composizione” dei delitti meno gravi, pratica spesso deprecata dai funzionari regi nella giustizia feudale e assunta quasi a stigma della sua corruzione.8 Fu così che all’asprezza dei procedimenti “economici” e straordinari, Francesco Cadello seppe unire il compromesso e la mediazione. Solo così riuscì ad aprire brecce in quel tessuto di solidarietà e complicità locale che garantiva ai banditi la sopravvivenza nelle comunità rurali. Fu merito suo se la moltitudine di uomini al bando si ridusse notevolmente e se, dal viaggio nel regno dell’anno successivo, Rivarolo poté rientrare a Cagliari con cento trenta prigionieri, una massa di villici raccolta tra delinquenti comuni, discoli e diffamati che uscirono dalle carceri per essere irreggimentati nell’esercito del re.9
Tuttavia, molti ricercati, soprattutto nobili e maggiorenti locali che potevano contare su una rete di solleciti informatori e influenti protettori, non caddero nelle mani del giudice Cadello. Sentendosi braccati, si dispersero in piccoli drappelli che, al primo allentarsi dei controlli, si sarebbero rifatti vivi. Allo scadere del mandato vicereale di Rivarolo, i fuoriusciti in Corsica rientrarono nel regno e con rinnovata spavalderia presero a circolare dentro e fuori gli abitati. Con una sfrontata squadra armata, Juan Fais di Chiaramonti poté «scorrere le campagne, taglieggiare i comuni, assalire le truppe» e perfino tentare di dissuadere, con «parole sonore, […] i suoi popolani dalle solite contribuzioni» regie e feudali.10
I risultati ottenuti da don Francesco Cadello, a prima vista clamorosi, erano stati riassorbiti in breve tempo. Quella missione diventata memorabile negli uffici cagliaritani non aveva segnato alcuna discontinuità nella lotta al banditismo. Procedimenti sommari e pene esemplari erano in linea con la risposta militare adottata da Rivarolo e s’inserivano nella politica contro la delinquenza tipica delle società di antico regime: uso dell’esercito e inasprimento dei «mezzi punitivi», ma scarso interesse alla prevenzione, all’«arginamento del crimine e alla sua compressione».11 Si tendeva più a punire i reati che a impedirli, la «politica penale» prevaleva su quella «criminale» ma la stessa repressione, spettacolare ed esemplare, esibita in missioni speciali e in atroci esecuzioni, era priva di strategia e di continuità, affidata a interventi episodici e mai risolutivi.
L’emergenza criminale divenne di nuovo allarmante negli anni Quaranta, durante la guerra di Successione austriaca. Potenti capi fazione al bando, da Leonardo Marceddu di Pozzomaggiore a Juan Fais di Chiaramonti e a Pedro Mela di Sassari, dai Delitala di Nulvi agli Specigo e agli Addes di Aggius, raccolte intorno a sé cuadrillas di diverse decine di uomini, controllavano le campagne del nord del regno e, per evitare di cadere nelle mani della giustizia, erano disposti a far fronte comune.12
Nel settembre del 1745 le bande giunsero a un tiro di schioppo da Aggius e minacciarono di «faire retirer la troupe et de mettre le pays a contribution»,13 se il governo non si fosse piegato «a leur accorder la grace». In quell’occasione, paventando un attacco diretto al suo quartiere, il comandante dei dragoni in Tempio, De la Tour, tentò di reclutare i paesani della villa ma a fatica ne raccolse una decina: per non incorrere nell’ira di quei «coquins», i più avevano abbandonato «femmes et enfans» e si erano dileguati nella campagna circostante.14
L’uso della forza militare s’impose al viceré Santa Giulia ma ancora una volta non si poté contare sull’effetto sorpresa. Acquartierati nei presidi cittadini, per qualunque attacco i distaccamenti militari dovevano uscire da Sassari e Alghero, da Castelsardo e Tempio, suscitando inquietudine e allarme in un mondo rurale attento a ogni loro spostamento. Talvolta, dagli stessi uffici regi la destinazione dei soldati trapelava prima della loro uscita dai presidi. Gli “avvisi” correvano veloci dalle città ai villaggi, per bocca di parenti e conoscenti dei banditi, laici ed ecclesiastici, e infine gli avvistamenti predisposti dai malviventi li confermavano e li facevano rimbalzare da una contrada all’altra.
Peraltro, se un tempo, alla minima avvisaglia di una spedizione punitiva, uomini al bando e rezelosos della giustizia si erano limitati ad abbandonare rapidamente l’abitato sui loro cavalli per rendersi irreperibili in luoghi sacri o in una campagna impervia, a loro familiare e piena d’insidie solo per inesperte truppe regie, negli anni Quaranta le nutrite compagnie di “facinorosi” si fecero più audaci e ardirono rispondere al fuoco dell’esercito. Uomini appartenenti a fazioni rivali come i Delitala e i Tedde, che a lungo si erano combattuti nei villaggi ed erano stati condannati in contumacia, non esitarono a servirsi di mediatori per negoziare una conciliazione, a firmare “pa...