IV. Giudizi, violenze, chiusure
Guido Dall’Olio
«Iudex vivorum et mortuorum». La giustizia di Dio a misura d’uomo
1. «Ti farò citare dinanzi ai tribunali di Cristo»
Una novella delle Piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola narra di due fratelli, Ermacora e Andolfo, che vivevano «in fraterna», cioè coabitavano, con i beni indivisi. La convivenza proseguì tranquillamente anche dopo che il fratello minore, Andolfo, ebbe preso moglie e messo al mondo diversi figli. Una volta che questi ultimi furono giunti alla maggiore età Andolfo, «mosso da fanciullesco e non ben regolato appetito», decise di reclamare la sua parte del patrimonio e di separarsi dal fratello. Ermacora cercò di convincerlo dell’irragionevolezza di quel proposito, ma invano. Per farlo desistere – da buon protagonista di una novella cinquecentesca – ricorse allora all’astuzia: avrebbe acconsentito – disse – solo a patto che Andolfo procedesse a una divisione dei beni perfettamente equa. Ogni soluzione che il fratello minore proponeva, tuttavia, venne respinta da Ermacora, che alla fine, di fronte a uno stupefatto Andolfo, spiegò pacatamente che nei beni da dividere dovevano essere inclusi la cognata e i nipoti, della cui amorevole compagnia egli aveva beneficiato fino ad allora e che gli sarebbero stati sottratti da una separazione. Se il fratello non avesse acconsentito a una siffatta suddivisione, Ermacora avrebbe agito risolutamente: «Io giuro», disse, «di convenirti dinanzi la mondana giustizia, e addimandar ragione, e non possendo ottenerla dal mondo, io ti farò citare dinanzi al tribunal di Cristo, a cui ogni cosa è manifesta e palese». Solo a quel punto, Andolfo si rese conto di quanto la sua richiesta avesse ferito i sentimenti – nonché l’orgoglio – di Ermacora e decise alla fine di rinunciare.318 Il discorso del fratello maggiore aveva dunque «converso e addolcito l’indurato cuore» di Andolfo. A questo ravvedimento doveva però aver contribuito in maniera decisiva anche il richiamo al tribunale di Cristo – che, come vedremo tra breve, aveva un valore ben più concreto di quanto si sarebbe propensi ad immaginare.
Il ricorso – o la minaccia di ricorso – al supremo giudice rispecchia pienamente l’idea di Dio come garante non solo dell’ordine cosmico, ma anche della giustizia sulla terra, che nella cultura religiosa giudaico-cristiana ha una delle sue radici principali nell’Antico Testamento. Senza esagerare, possiamo dire che la stragrande maggioranza dei testi biblici è un continuo richiamo alla giustizia divina, che si trattasse del concetto di “fedeltà al patto” – e quindi dell’alleanza di Dio col popolo eletto contro i suoi nemici – oppure della giustizia come rettitudine e obbedienza alle leggi di Dio da parte dei singoli individui.319 Dio veniva quindi chiamato come giudice in causa nel corso di controversie che possono essere considerate come vere e proprie liti in senso giuridico (rîb).320 Più spesso, specialmente nei Salmi, la giustizia divina – a volte interpretabile come vendetta – veniva invocata dal giusto perseguitato dagli empi, rappresentati come uomini malvagi e potenti.321 Il cristianesimo ereditò in buona parte le concezioni del giudaismo, accentuando tuttavia l’aspetto salvifico della giustizia divina e avvicinandola al significato di “giustificazione”, oltre e forse più che di “giudizio”. L’idea di Dio come giudice supremo rimase comunque ben radicata. In gran parte essa venne proiettata nel futuro sempre più indeterminato del secondo avvento e del giorno del giudizio, come recitava il credo niceno-costantinopolitano; ma Dio giudicava anche nel presente, sulla terra, come mostrano moltissime narrazioni di prodigi in cui i peccatori venivano puniti istantaneamente, dagli Atti degli Apostoli in avanti.322
Il giudizio di Dio – espressione concreta della sua giustizia – poteva infine venire non soltanto invocato, ma anche propiziato, affinché intervenisse a difendere gli innocenti e a castigare i colpevoli o comunque a dirimere controversie terrene. Si tratta di pratiche per lo più risalenti all’alto e pieno medioevo, in cui la distinzione tra diritto e religione, per noi così familiare, urta contro una realtà in cui esse non appartenevano ancora del tutto a sfere separate; vi intervenivano sia elementi linguistici (formule liturgiche o giuridiche), sia gesti e rituali. Le maledizioni liturgiche (clamores) e alcune formule arcaiche di scomunica studiate da Lester K. Little e da Christian Jaser sono un esempio significativo delle invocazioni in cui prevaleva l’aspetto religioso – benché le intersezioni con il diritto fossero consistenti.323 Le ordalie e le pratiche affini possono invece essere considerate come il lato giuridico dell’invocazione del giudizio di Dio. Esse infatti, a differenza dei clamores, venivano praticate dai popoli germanici per risolvere controversie fin da prima della loro cristianizzazione. Dopo l’avvento del cristianesimo, esse vennero adattate alla nuova religione: con la recita di formule, preghiere e rituali celebrati da chierici, si chiedeva a Dio di rendere visibile il proprio giudizio attraverso l’azione degli elementi naturali (acqua, fuoco, pane e così via), infine si procedeva all’ordalia vera e propria. Benché a rigor di logica non si trattasse tanto di un giudizio, quanto della produzione di una prova, era pur sempre la giustizia divina che, con la sua onniscienza, superava i limiti dei giudici umani. Alla fine comunque il giudizio di Dio veniva incorporato nel diritto terreno, a differenza di quanto accadeva nei clamores e in parziale analogia con la scomunica.324
Il terzo modo in cui Dio veniva fatto intervenire come giudice nelle contese umane consisteva in una citazione diretta che una persona che aveva subìto un’ingiustizia rivolgeva o faceva pervenire all’offensore; quest’ultimo veniva chiamato dinanzi al tribunale di Dio, che avrebbe pronunciato la sentenza. Fonti narrative medievali, a partire almeno dal VI secolo, riferiscono episodi di questo genere.325 Com’è facile immaginare, la comparizione davanti al tribunale di Dio comportava la morte della persona che veniva citata; molto spesso, del resto, la citazione era pronunciata da un morente nei confronti del suo persecutore, oppure, più specificamente, da un condannato a morte nei confronti del giudice che l’aveva condannato a torto. In questi casi la citazione assumeva il significato di un appello e quindi comportava una forma di contestazione, attraverso il richiamo all’unica autorità posta al di sopra di chi deteneva il potere di esercitare la giustizia sulla terra. I racconti di questi episodi sottolineavano anche l’efficacia quasi miracolosa delle citazioni: spesso, infatti, i narratori riportavano la notizia della morte improvvisa della persona a cui erano dirette e, nei casi abbastanza frequenti in cui la citazione aveva un termine, il decesso si verificava pun...