Lorenzo Kamel
La Dichiarazione Balfour e l’evoluzione del problema mediorientale
Può sembrare azzardata la decisione di introdurre un contributo dedicato alla Dichiarazione Balfour partendo da coloro ai quali essa non era indirizzata. Tuttavia un tale modo di procedere è riconducibile alla volontà di superare interpretazioni dicotomiche: se per un verso l’idea di appoggiare la creazione di una National Home ebraica su una parte di quella stessa Erets Yiśra’el citata nel Tanàkh era sottesa da un radicato «diritto storico», dall’altra era minata da alcuni palesi pregiudizi solipsistici. Più nello specifico, la scelta delle più influenti autorità britanniche di ignorare o sottovalutare i timori, le ambizioni e l’identità stessa della maggioranza araba palestinese – sovente inclusa nella vaga definizione di «non-Jewish communities» nei dispacci dell’epoca – fu alla base di gran parte delle problematiche registrate nella regione nei decenni a seguire. Essa contribuì tra l’altro a creare conflittuali percezioni riguardo alla natura e al significato dell’opposizione araba al sionismo: aspetti non secondari per un’adeguata comprensione dei successivi attriti verificatesi tra sionisti e britannici. È dunque un tema che merita uno spazio esplicativo di rilievo. La scelta di porre gli arabo-palestinesi al «centro» della Dichiarazione Balfour ha in questo senso il pregio di sollecitare il lettore a rapportarsi a uno dei più celebri documenti della storia moderna partendo dalla subalterna prospettiva degli «esclusi».
I «non ebrei» di Palestina
Nel febbraio 1919 Arthur Balfour scrisse a Lloyd George ponendo l’attenzione sul «weak point of our position» in Palestina: «We – notò – deliberately and rightly decline to accept the principle of self-determination». Il riferimento era alla volontà di rigettare le aspirazioni espresse dagli arabi di Palestina. A suo giudizio essi andavano considerati una minoranza rispetto agli ebrei: «In any Palestine Plebiscite – questo il suo pensiero – the Jews of the world must be consulted». Tale punto di vista presupponeva tre aspetti: a) che la maggioranza degli ebrei sparsi nel mondo si identificasse con l’ideologia sionista; b) che gli ebrei fossero stati espulsi con la forza dalle «loro terre ancestrali»; c) che un ebreo vissuto in un’altra parte del mondo potesse, per il fatto di essere tale, accampare eguali o superiori diritti rispetto a un arabo-palestinese nato e cresciuto in Palestina.
La prima constatazione può, nella migliore delle ipotesi, essere considerata possibile. La seconda è stata rigettata da diversi autorevoli storici e intellettuali, compreso il decano degli scrittori israeliani, Abraham Yehoshua. La terza venne indirettamente posta in dubbio da Albert Hourani nei seguenti termini:
Il problema in Palestina non è tra due fazioni poste sullo stesso livello, entrambe alla ricerca di qualcosa di più di quanto meritino, non disponibili a vedere la prospettiva della controparte e incapaci di accordarsi con l’interlocutore senza i premurosi servigi di una terza parte. Il problema sussiste tra una popolazione indigena che reclama l’ordinario e inalienabile diritto democratico di decidere per se stessa questioni d’interesse generale come l’immigrazione, e [dall’altra parte] una minoranza d’immigrati che sta cercando di divenire una maggioranza e di fondare uno Stato, e che sta facendo affidamento sull’aiuto di Potenze esterne per tenere a freno gli abitanti indigeni fino a quando essa non sia in grado di mettere in pratica i suoi fini.
Balfour, come confermò Weizmann, aveva una conoscenza marginale degli elementi fondanti del movimento sionista. Ciò era ancora più vero per quanto concerneva la realtà palestinese e la sua maggioranza locale. Gran parte dei preconcetti che mostrò su questi temi fu da collegare proprio all’influenza di Weizmann. Il futuro primo presidente dello Stato d’Israele si batté per realizzare le legittime aspirazioni di milioni di ebrei e per spiegare i nobili intenti del sionismo volti a creare le condizioni affinché «les juifs et les arabes vivaient en paix mutuelle». Allo stesso tempo, tuttavia, fu impegnato a promuovere una decisa campagna denigratoria in chiave anti arabo-palestinese. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di persuadere l’establishment britannico che la «so-called Arab question in Palestine» non fosse considerata «as a serious factor by all those who know the local situation fully». Esistono numerosi documenti a conferma di questo genere di percezione. Di seguito un dispaccio inviato da Weizmann a Balfour in data 4 maggio 1918:
The Arabs who are superficially clever and quick witted, worship one thing, and one thing only – power and success. […] The British Authorities […] knowing as they do the treacherous nature of the Arab, they have to watch carefully and constantly that nothing should happen which might give the Arabs the slightest grievance or ground of complaint. […] The present state of affairs would necessarily tend towards the creation of an Arab Palestine, if there were an Arab people in Palestine. It will not in fact produce that result because the fellah is at least four centuries behind the times, and the effendi (who, by the way, is the real gainer from the present system) is dishonest, uneducated, greedy, and as unpatriotic as he is inefficient.
Parole come quelle appena citate non lasciarono indifferente Balfour, tanto più che l’allora ministro degli Esteri, come Shaftesbury oltre mezzo secolo prima di lui, non aveva mai visto la terra della quale parlava, né incontrato le persone alle quali sovente si riferiva. Visitò per la prima volta l...