Antonio Giolitti e la ricerca del socialismo possibile.
Dal 1956 alla crisi del centro-sinistra moroteo e del Psu
di Andrea Ricciardi
1. Tra storia e memoria
Il mio contributo si articola lungo due dimensioni: la memoria e la ricostruzione storica. Da una parte, attraverso una testimonianza intendo restituire l’immagine (per come l’ho vissuta) di una persona certamente particolare, che ho avuto la fortuna di frequentare per circa dodici anni nella parte finale della sua lunga esistenza. Dall’altra, mi preme mettere in evidenza alcuni momenti della sua vicenda politica, che Giolitti raccontò nella bellissima autobiografia pubblicata all’inizio degli anni Novanta e che merita approfondimenti, anche con l’ausilio delle carte del suo archivio privato, da lui stesso conservato con cura e, dopo la sua scomparsa, donato dalla famiglia alla Fondazione Basso. Il fondo è ora a disposizione di tutti gli studiosi e, insieme alle carte di altri dirigenti politici e di intellettuali che lo hanno frequentato in stagioni diverse del Novecento, consente di elaborare ricostruzioni e riflessioni basate sulle cosiddette fonti primarie, evitando – come ammoniva Vittorio Foa – di confondere la storia con i ricordi, che pure rappresentano un’altra fonte imprescindibile per chiunque voglia indagare il passato.
Ho conosciuto Antonio Giolitti nel 1998. Avevo iniziato da poco a lavorare alla mia tesi di laurea, che verteva sul primo centro-sinistra e, in particolare, sulle posizioni espresse tra il 1956 e il 1964 da tre ex dirigenti del Partito d’Azione – Foa, La Malfa e Lombardi – di fronte allo “storico” incontro tra Psi e Dc, destinato a mutare il quadro politico italiano in corrispondenza dei grandi rivolgimenti internazionali seguiti al XX Congresso del Pcus e alla denuncia, da parte di Chruščëv, del culto della personalità riservato a Stalin. In virtù del suo stretto rapporto con Lombardi, del ruolo che aveva esercitato nel I governo Moro, delle riflessioni sul socialismo per le quali, dopo l’invasione dell’Ungheria, aveva rotto con il Pci entrando nel Psi, Giolitti si presentava ai miei occhi come una figura chiave, indispensabile per approfondire quella complessa stagione, nel contempo drammatica e foriera di grandi speranze. Avevo letto con attenzione (e passione) Lettere a Marta ma ritenevo che, soprattutto sulla fase 1962-1964, soltanto parlando direttamente con lui si potesse ricavare qualche altra informazione utile a comprendere, da un lato, la sostanza delle sue posizioni di allora e, dall’altro, la strategia incarnata soprattutto da Lombardi, ma anche da Foa e da La Malfa.
Giolitti si dimostrò subito molto gentile e disponibile. Dopo un primo incontro, al quale mi presentai con una lista di temi che intendevo sottoporre alla sua attenzione (e che gli consegnai in anticipo per consentirgli di pensare con calma), organizzammo tre appuntamenti che, previa sua autorizzazione, registrai. Sapevo che poi avrei avuto bisogno di riflettere a fondo sulle cose che mi avrebbe detto. Fu così che, dai tre lunghi colloqui, nacque una pubblicazione che, con mia grande soddisfazione, Giolitti stesso definì «un approfondimento» di parti della sua autobiografia. Ciò che mi interessava non era soltanto capire come si erano svolti determinati fatti e quali erano state le variabili (e le persone) che più avevano influito sugli eventi, ma anche perché la storia non aveva seguito un altro corso.
Mi pareva allora, e oggi non ho modificato la mia opinione, che il punto di arrivo dell’apertura a sinistra (cioè l’ingresso dei socialisti nel governo) si fosse presto tradotto in una cocente sconfitta per Lombardi e per Giolitti, invisi alla Dc dorotea e a Saragat, indeboliti dalla scissione del Psiup di Foa e in crescente disaccordo, dopo un periodo di notevole sintonia, con La Malfa. Non so dire se quella sconfitta abbia coinciso con il fallimento, come molti protagonisti e studiosi hanno pensato e scritto, dell’unico vero disegno di riforme che si è proposto di modificare alla radice gli equilibri socio-economici dell’Italia repubblicana. Oggi, rispetto a un recente passato, da più parti si ritiene che il riformismo socialista, al pari di Turati troppo a lungo vituperato, nella IV legislatura abbia prodotto molto più di quanto in passato si fosse portati ad ammettere. Tuttavia a me sembra che, per provare a comprendere cosa realmente avvenne durante il centro-sinistra “organico” moroteo, non sia opportuno limitarsi a stilare un bilancio di lungo periodo e, soprattutto in rapporto a un presente indubbiamente cupo, a rimarcare il valore di riforme – come lo Statuto dei Lavoratori, l’attuazione delle Regioni e il divorzio – rivelatesi sì epocali, ma approvate dopo la caduta del III governo Moro e anche sull’onda dei rivolgimenti socio-culturali di fine decennio.
Dunque gli anni Sessanta, almeno fino alla cesura del 1968 (esplosione della contestazione giovanile, esaurimento del centro-sinistra di Moro, elezioni politiche e netta sconfitta del Partito socialista unificato, “disimpegno” socialista e governo ponte di Leone, prima del nuovo centro-sinistra di Rumor), furono un’occasione mancata per la politica o rappresentarono una fase in cui si favorì concretamente la crescita e l’estensione dei diritti civili, politici e, soprattutto, sociali? Avevano ragione coloro che chiedevano di più e criticavano, anche aspramente, il quadro politico, oppure erano più lungimiranti coloro che lavoravano per stabilizzare il centro-sinistra e, con esso, una democrazia fragile come quella italiana, fragilità apparsa evidente con la strategia della tensione? Non credo che fare la storia di quegli anni significhi scegliere tra una di queste due opzioni, in base all’andamento dei successivi decenni e agli esiti di fine secolo, forse troppo “appiattiti” sulla caduta del Muro di Berlino. Ritengo che provare a ricostruire gli anni Sessanta voglia dire restituire tutta la loro problematicità, significhi tentare di interpretarli in base al complesso delle variabili che ne determinò il corso, senza ergersi a giudici della storia. Sarebbe troppo facile, e Antonio Giolitti lo sapeva bene. Proprio la sua autobiografia, nella quale pubblicò alcuni di quei preziosi documenti che aveva conservato nel corso dei lunghi anni di militanza politica, a partire dalla Resistenza (lettere, appunti, frammenti di diario, carte del Ministero del Bilancio), ci dice come egli avesse compreso a pieno la vastità dei problemi con cui si era dovuto confrontare e, nella parte finale della vita, non puntasse a “chiudere il cerchio” ma, al contrario, continuasse a porsi domande più che a emettere inappellabili sentenze.
Dopo la pubblicazione dell’intervista su «Il Ponte», concepita e realizzata parallelamente ad altre con Ruffolo, Foa e Pino Ferraris, non ho perso i contatti con Giolitti, anzi i nostri rapporti sono divenuti via via più stretti e affettuosi. Gli telefonavo spesso, andavo a trovarlo e, talvolta, ci incontravamo a casa di Vittorio Foa e Sesa Tatò. Quando ci sentivamo o ci vedevamo, avvertivo in lui non solo una grande curiosità verso l’approfondimento del passato, ma anche la volontà di capire il presente, un presente che gli piaceva poco ma che, comunque, cercava di comprendere al fine di immaginare un futuro che non avrebbe vissuto. Quando si lamentava dei suoi acciacchi, senza mai perdere lo stile e la raffinatezza che sempre lo contraddistinsero, mi diceva che erano «il prezzo da pagare per chi si ostinava a vivere a quell’età»…
Negli ultimi anni, una cosa su tutte mi ha impressionato del suo atteggiamento verso la vita: pure nei momenti più tragici, egli ha saputo mantenere una dolcezza, una sobrietà e una misura straordinarie. L’ho visto molto addolorato e deluso ma, nonostante il peso di ciò che aveva vissuto (e stava vivendo), egli non lasciava spazio alla rabbia. Oltre agli stimoli culturali, Antonio Giolitti mi ha trasmesso qualcosa di ancor più importante: l’idea che la vita debba essere accettata, anche con il suo carico di immenso dolore, senza smettere di interessarsi agli altri e, nello stesso tempo, salvaguardando la propria dignità. Da ragazzo non lo immaginavo ma, come lo stesso Antonio mi diceva, un po’ stupito dalla differenza delle nostre età, ho costruito con lui un rapporto di sincera amicizia. Mi ha dato tanto e mi aiuta ancora, gli ho voluto molto bene proprio perché, al di là della sua vicenda politica e degli incarichi di governo, in Italia e in Europa, era una persona dotata di un grande spessore umano. Lo dico senza retorica, credo anzi che questo aspetto vada rimarcato per apprezzare a pieno le qualità dell’intellettuale, del politico e del ministro, anche di fronte alle non poche sconfitte subite.
2. La crisi del ’56 e l’inizio della revisione ideologica
Il 1956 segna una svolta nella vita politica di Giolitti: la denuncia del culto della personalità, fatta da Chruščëv con l’obiettivo di scaricare integralmente su Stalin i limiti del sistema sovietico, e l’invasione dell’Ungheria, che conferma l’impossibilità da parte dell’Urss di accettare ogni forma di alternativa per i paesi del blocco comunista dell’Europa orientale, scuotono la sua coscienza e lo portano ad avviare un processo di profonda, coraggiosa e impegnativa revisione ideologica.
Intervenendo all’VIII Congresso del Pci del dicembre di quel fatidico anno, alla luce dei drammatici accadimenti da poco emersi “ufficialmente” perché denunciati addirittura dal leader sovietico, Giolitti afferma che il tentativo di costruire il socialismo in Urss e nelle democrazie popolari non si è potuto basare «sulla partecipazione attiva e consapevole della classe operaia e delle altre classi lavoratrici» e che, in Europa orientale, questo processo di edificazione è stato «in alcuni casi sopraffatto dall’involuzione burocratica del potere statale». In quest’ottica, l’Unione Sovietica non può essere più considerata un «modello» da seguire ma, al contrario, rappresenta un’«esperienza da valutare criticamente». Giolitti invita Togliatti a ridiscutere il nesso tra democrazia, Costituzione e socialismo e a riconoscere la necessità di «un riesame, alla luce dei principi marxisti e dell’esperienza storica, della teoria leninista della conquista del potere». E ancora:
noi oggi possiamo e dobbiamo proclamare, senza riserve e senza doppiezze, che le libertà democratiche, anche nella loro forma istituzionale di divisione dei poteri, di garanzie formali, di rappresentanza parlamentare, non sono “borghesi” ma elemento indispensabile per costruire la società socialista nel nostro paese […]. Il centralismo democratico deve essere concepito e applicato in modo che, mentre viene assicurata la rigorosa osservanza delle direttive deliberate dalla maggioranza, sul piano dell’esecuzione, si mantiene aperto il dibattito delle opinioni e delle idee […]. Se Gomulka non avesse mantenuta ferma la sua posizione di dissenso, forse in Polonia le cose sarebbero andate come in Ungheria. Molte volte il gioco dell’avversario lo fa chi tace.
Giolitti rifiuta con decisione la tesi che l’insurrezione ungherese venga definita «controrivoluzione», assimila la propria posizione a quella della Cgil, «sconfessata» e «soffocata» dal partito, e chiarisce: «l’intervento sovietico poteva giustificarsi in funzione della politica dei blocchi ma non in base ai principi del socialismo».
L’intervento di Giolitti, che si può ricollegare ad alcune critiche precedentemente espresse da Furio Diaz e da Valerio Bertini (delegato di Firenze), soprattutto riguardo all’impossibilità di continuare a considerare l’Urss come un modello da seguire e alla necessità di accettare forme di dissenso interne al Pci senza considerarle «tradimenti», raccoglie varie critiche. Napolitano nega la volontà di soffocare il dibattito interno, dice che Giolitti ha il diritto di esplicitare le proprie convinzioni, ma aggiunge di avere egli stesso il diritto e il dovere di «combattere, e anche aspramente» le posizioni del compagno, che ha espresso opinioni «in contrasto con la linea del partito». Tra gli interventi critici nei confronti di Giolitti, vi sono quelli di Li Causi, Amendola e Ravagnan mentre Di Vittorio, nell’approvare «nel complesso» il rapporto di Togliatti, non rinuncia a ribadire la necessità di non descrivere la ribellione ungherese soltanto come una «provocazione reazionaria», affermando con chiarezza che questo atteggiamento avrebbe lasciato «insoluti i grandi problemi politici e sociali generati dagli errati metodi di direzione politica, dell’economia e dei sindacati che sono la causa profonda di quei tragici avvenimenti». Longo, parlando del nuovo statuto del partito, si incarica di respingere la proposta di Giolitti inerente alla manifestazione del dissenso da parte delle minoranze, perché volta a «salvaguardare, anche dopo che una decisione è stata presa ed è diventata esecutiva, il diritto per chi dissente da essa di continuare il dibattito pubblicamente, contro la decisione presa». Togliatti, per evidenziare la ricchezza del dibattito e la pluralità delle posizioni espresse, sottolinea che sono entrati nelle commissioni, chiamate a elaborare «i documenti fondamentali del congresso», vari co...