Questione di metodo
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Questione di metodo

Scritti su storici e storiografia

  1. 385 pagine
  2. Italian
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Questione di metodo

Scritti su storici e storiografia

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All'interno di quella generazione di studiosi che, nel suo insieme, ha rappresentato la maggiore storiografia religiosa italiana del secondo Novecento, Giovanni Miccoli si è distinto sia sul piano dell'elaborazione teorica, sia per la sua figura di storico e di intellettuale. L'ampia riproposta delle pagine più significative dedicate dallo studioso triestino al metodo, ai propri maestri (tra i quali Delio Cantimori e Arsenio Frugoni) e ad altri storici a lui coevi (Marino Berengo, Pierre Vidal-Naquet, Pino Alberigo e Corrado Vivanti) acquista il valore di un'autobiografia intellettuale: non solo dello stesso Miccoli, quanto piuttosto di tutta una generazione. Un'autobiografia collettiva che si richiama alle grandi tradizioni precedenti (o per distaccarsene, come nel caso dell'idealismo crociano e dei suoi epigoni; o per assumerne in parte l'eredità, come in quello della scuola storica positiva), ai propri maestri, alle scelte che progressivamente hanno costituito la cifra di ciascuno studioso, disperdendo nelle rispettive strade e imprese la comune originaria appartenenza generazionale.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833135069
Argomento
Historia
Introduzione

Il percorso di uno studioso di storia*

C’è un rischio inevitabile nel ripercorrere il proprio itinerario di studio: il rischio cioè che le cose che a me sono sembrate importanti in tale cammino, agli altri non lo sembrino affatto. Può darsi tuttavia che la presentazione di questo percorso possa avere comunque un minimo di interesse, da una parte per rilevare le enormi differenze che, rispetto alle mie condizioni di partenza, esistono attualmente per coloro che intendono avviarsi alla ricerca, per la condizione dei tanti giovani che sono qui, e dall’altra per porre una questione e insieme una domanda: se cioè nel tipo di formazione e di svolgimento di quel percorso vi è qualcosa che si può ancora tenere presente e recuperare.
La formazione e i maestri
Sono nato a Trieste nel 1933; ho frequentato le scuole elementari fino alla prima media in periodo fascista e poi sotto l’occupazione tedesca, il resto delle scuole medie e superiori durante l’amministrazione del governo militare alleato. Non mi fermo su questo. Ciò che mi resta di quel ricordo in particolare è la compilazione annuale del “quaderno fascista”: iniziava con una preghiera, il Padre nostro, che si concludeva con «Dio stramaledica gli inglesi» e conteneva altre varie amenità del genere. Ho saputo solo molto più tardi che il maestro che avevo avuto era stato socialista, e in quanto tale picchiato dai fascisti negli anni Venti; di tutto ciò non restava ovviamente traccia ai miei occhi. Mi colpiva solo questo fatto, che mentre tutti gli altri maestri in occasione delle grandi feste del regime indossavano la sgargiante divisa grigioverde dei seniori della GIL, lui veniva solo con la camicia nera perché, evidentemente, non aveva avuto mai nessuna promozione, conseguenza delle sue scelte politiche del passato e del pestaggio degli anni prima. Penso sia stata la guerra e, soprattutto, l’occupazione tedesca con l’oppressiva presenza che anche un ragazzino di poco più di dieci anni poteva avvertire, a suscitare le mie prime curiosità alla storia: l’ascolto di Radio Londra, il seguire il percorso degli eserciti contrapposti sia in Russia sia soprattutto sul fronte occidentale, dopo lo sbarco in Francia; ma certamente per quanto riguarda un maggior coinvolgimento nel contesto, diciamo, storico-politico, se questo non può suonare troppo pomposo per un ragazzo di 12-14 anni, è stato il dopoguerra a Trieste a giocare un ruolo decisivo. Un dopoguerra estremamente teso, di scontro violentissimo, di manifestazioni contrapposte (le rivendicazioni jugoslave e la difesa dell’italianità della città da parte della maggioranza), con uno scatenamento di nazionalismi di cui io, di famiglia italiana, ero – sia ben chiaro – pienamente partecipe. C’erano rappresentazioni teatrali che ricordavano certe memorie del Risorgimento: l’Ernani con il teatro che – come si leggeva nelle cronache dell’Ottocento – veniva giù all’aria «Si ridesti il Leon di Castiglia».
Quel coinvolgimento, quello scontro violento, anche di piazza e, in qualche caso, sanguinoso, per me ha rappresentato una lenta, progressiva, forte vaccinazione nei confronti di tutti i nazionalismi, peste e disgrazia di quella che è la mia città. La scuola che ho frequentato, al liceo, era una scuola dai caratteri antichi, molti dei miei professori si erano formati e avevano cominciato il loro insegnamento sotto l’Impero asburgico; era quindi una scuola basata sulla lettura di molti testi e di pochissima critica letteraria. Venivo da una famiglia profondamente cattolica, ma cattolica di consuetudine. La frequentazione, negli anni del ginnasio e del liceo, di un padre gesuita mi suggerì la critica di molti di tali aspetti. Dopo alcune incertezze, alla fine del liceo scelsi di iscrivermi a Lettere concorrendo per un posto alla Normale di Pisa: pensavo di poter condurre uno studio più rigoroso, ma volevo anche cambiare aria. Può darsi che nei triestini sia prevalente un legame un po’ viscerale con la città, ma c’è sempre stata anche molta voglia di scappare. Per motivi legati alla mia formazione cattolica, a Pisa avrei voluto studiare i Padri della Chiesa, ma in pratica il quadro degli insegnamenti e dei docenti presenti non me lo rese possibile e, quindi, scelsi la storia medievale come ambito più affine. Vigeva un dogma, per chi si accingesse a studiare storia alla Normale: non si dà ricerca storica senza un problema forte che la animi, riflesso, in qualche modo, dei propri problemi personali ma anche delle situazioni, delle realtà, delle condizioni del proprio tempo. La domanda che immancabilmente gli studenti più anziani – ma certe volte anche i docenti – rivolgevano ai giovani colleghi era: «Qual è il tuo problema?». Era una domanda terribilmente impegnativa, che certamente risentiva di echi crociani (anche se il suo storicismo e il nesso filosofia/storia era stato in sostanza in gran parte abbandonato), ma risentiva anche della grande tradizione della scuola storica dell’Ottocento, per la quale lo studio della storia era componente essenziale della formazione civile e doveva esso stesso esercitare un ruolo civile.1
Fatta un’eccezione è alla Normale che si realizza la gran parte dei miei incontri fondamentali con alcuni docenti che chiamerei senz’altro maestri. Erano personaggi molto diversi, ma avevano un tratto in comune: il netto privilegiamento delle fonti rispetto alla storiografia. Il loro insegnamento insisteva sul contatto costante con le fonti, sulle fonti come punto di riferimento, sulle fonti come verifica delle proprie interpretazioni. È un insegnamento cui sono rimasto fedele. Continuo infatti a pensare che su tale verifica si basa l’unica scientificità possibile dello studio della storia come ricerca di “verità”, una “verità” che per quanto parziale trova nelle fonti la propria conferma e il proprio sostegno. Delle persone con cui ho lavorato, ne ricorderei in particolare quattro. Il mio primo maestro è stato Ottorino Bertolini, anziano medievalista che veniva dalla scuola storica positiva di Pietro Fedele. Aveva una straordinaria disponibilità nel seguire gli studenti, nei quali sollecitava letture ampie, cursorie, sistematiche delle fonti e dei testi: questo insegnamento accompagnava, ma anche correggeva il discorso sul “problema”, nel senso che rimarcava il fatto che, al di là delle questioni che ci si propone di studiare e di chiarire, vi è tuttavia anche una serie di suggerimenti, di stimoli, di spunti, di aperture nuove e impreviste che vengono dalla lettura delle fonti. Anche se non sempre con l’ampiezza e l’intensità che avrei voluto mantenere e seguire, questa ispirazione ha accompagnato il mio lavoro, portandomi a leggere alcune raccolte di fonti come più tardi certe serie archivistiche, sistematicamente e in qualche modo gratuitamente, senza partire fin dall’inizio a una loro sollecitazione, evitando di selezionarle subito alla luce delle mie domande di partenza.
Il secondo personaggio che voglio ricordare è Arsenio Frugoni, che incontrai nel terzo anno: arrivò a Pisa nel 1955, con il suo Arnaldo da Brescia fresco di stampa, un libro nel quale criticava la tecnica filologico-combinatoria, prendendo cioè posizione contro le ricostruzioni della figura e della vita di Arnaldo basate sulla combinazione delle testimonianze di alcuni grandi protagonisti del XII secolo che di lui avevano scritto (da Bernardo di Clairvaux a Giovanni di Salisbury, a Ottone di Frisinga e via dicendo), testimonianze profondamente diverse, per collocazione cronologica, finalità e taglio narrativo, Frugoni sosteneva che fosse insensato volerle comporre e combinare insieme in una storia a tutto tondo, poiché ciascuna di quelle testimonianze era testimone in primo luogo di se stessa, dell’incontro o dello scontro avuto con Arnaldo, e insieme di tendenze del proprio tempo: possibile risultava perciò una presentazione di alcuni tratti soltanto della sua personalità e della sua opera, una scultura, in qualche modo, incompleta. Era la sua una sottolineatura importante perché riproponeva e stabiliva, per un caso concreto, quella netta e fondamentale distinzione che non può non essere sempre fatta tra storia e storiografia, tra res gestae e historia rerum gestarum. La storiografia non esaurisce mai la storia, resta sempre qualcosa di incompleto. Nel suo complesso l’insieme di ciò che è avvenuto sfugge per moltissimi aspetti e quindi alla ricerca storica si impone la piena consapevolezza del proprio limite che rappresenta la garanzia della correttezza dei suoi risultati.2
Il terzo personaggio che devo ricordare è Delio Cantimori. Era già considerato una sorta di mostro sacro e si cominciava a seguirne i seminari solo al terzo anno. Di lui capii in seguito molte altre cose, ma ciò che in primo luogo mi colpì era il costume dei suoi seminari. Un lavoro condotto largamente in comune, con uno straordinario rispetto da parte sua nei confronti del suo pubblico – 8-10 persone, ciascuno con temi e interessi di ricerca molto diversi – in un costante intrecciarsi di analisi sui testi, di discussioni, di confronto di interpretazioni. Ricordo i primi seminari: «Utopisti e riformatori», con letture dei vari utopisti e riformatori italiani del tardo Settecento e del primo Ottocento, il Defensor pacis di Marsilio da Padova. Poi, nel periodo in cui restai in Normale come assistente, il Dulce bellum inexpertis di Erasmo, Vom Nutzen und Nachteil der Historie di Nietzsche (con l’analisi del suo epistolario e dei suoi rapporti con Jakob Burckhardt) e così via. Successivamente capii e conobbi di lui anche altre cose. Il suo lungo percorso di studio e di ricerca era stato anche un percorso politico e ideologico: la scelta e la militanza fascista tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, il suo lento allontanarsene negli anni successivi con il suo avvicinamento al Partito comunista e la collaborazione clandestina con esso, ulteriormente rafforzatasi nel dopoguerra (la sua iscrizione al PCI è all’indomani del 18 aprile 1948). Ma la sua riflessione e il suo impegno costanti erano stati la costruzione di un modello di ricerca storica che tenesse a freno – come scrive nella prefazione a Studi di storia – il proprio furibondo cavallo ideologico; lo studio della storia doveva essere capace il più possibile non di liberarsi, perché è impossibile, ma di controllare le spinte ideologiche, politiche e propagandistiche che, allora più che mai, presiedevano e condizionavano lo studio della storia. L’uso della storia come propaganda, funzionale all’idea di conseguire così una solida formazione politica, era allora largamente presente, e molta battaglia politica si svolgeva anche attraverso l’uso e la manipolazione della storia. Da questo punto di vista l’insegnamento di Cantimori, ma anche il suo impegno all’interno del partito (dal quale si allontanò silenziosamente dopo i fatti di Ungheria), nella corrispondenza privata come nelle dichiarazioni pubbliche, si è sempre mosso nella direzione opposta, nella consapevolezza della necessità di disancorare la ricerca storica da questi troppo pesanti condizionamenti, per poterle conservare la funzione e la dignità di strumento di autentica conoscenza.
L’ultimo docente che va qui ricordato è Augusto Campana, il grande paleografo e codicologo. Del suo straordinario magistero ricordo soprattutto il criterio fondamentale che lo guidava: l’idea cioè, con la conseguente dimostrazione che ne seguiva nell’analisi dei manoscritti e di altri reperti scrittori, che ogni traccia, ogni segno, anche il più picco...

Indice dei contenuti

  1. Risvolto
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Premessa di Giuseppe Battelli
  6. Introduzione
  7. Storici: i Maestri
  8. Storici: gli studiosi coevi