Antonino Meo
Materialità della mobilità sociale nel Trecento a Pisa*
1. Introduzione
Nell’editoriale del volume della rivista «Archeologia Medievale» del 1974, che può essere considerato senza alcun dubbio come il vero e proprio atto fondativo, nelle sue forme moderne, della disciplina omonima, i curatori individuarono come elemento principale della propria base programmatica lo studio nella “cultura materiale”, inteso, secondo il modello di riferimento polacco di impianto marxista, come l’indagine degli «aspetti delle attività finalizzate alla produzione, distribuzione e consumo dei beni» e delle «condizioni di queste attività nel loro divenire e nelle connessioni con il processo storico».
Dichiaratamente in rottura con il modo di concepire l’archeologia che aveva dominato tradizionalmente gli ambienti accademici, si apriva la possibilità a porre l’attenzione sugli aspetti stilistici, estetici e simbolici, ma a patto che fossero «imprescindibili per la storia del lavoro, delle tecniche».
Nei decenni successivi, il post-processualismo ha avuto uno scarso impatto nel dibattito teorico italiano (peraltro non molto vivace), con una conseguente sostanziale mancanza (eccetto che nel campo dell’archeologia funeraria) di studi consapevolmente ispirati alle coeve esperienze della Social Archaeology.
Negli ultimi anni, nella penisola, una certa eco (specie in campo antropologico, ma anche, talvolta, in archeologia) hanno avuto i «nuovi studi» di cultura materiale maturati nell’ambito dell’antropologia post-coloniale, di cui è stata espressione il volume collettaneo The Social Life of Things, edito a cura di Arjun Appadurai. Essi hanno portato all’affermazione di una teoria “antimaterialista” della cultura materiale, che punta a tenere unite materiale e sociale, a indagare le forme di significato delle cose, non solo attraverso gli aspetti produttivi (autori e modalità), ma anche, e soprattutto, focalizzando l’attenzione alla sfera del consumo, per comprendere la vita degli oggetti nei diversi contesti e il loro ruolo attivo nel rapporto con l’uomo. Partendo dalle teorie di Bruno Latour, agli oggetti, in sostanza, viene attribuita la capacità di assumere, nel loro rapporto con le persone, un’agency sociale, e, quindi, di influenzarne il comportamento e di inserirsi in maniera attiva nella rete di relazioni sociali.
Prima di allora, la relazione tra consumo e società era stata già oggetto di una lunga tradizione di studi che avevano messo in evidenza la capacità degli oggetti di marcare le differenze sociali.
Un punto di riferimento più o meno diretto nella letteratura archeologica, anche più recente, sono i modelli di Thorstein Veblen e Georg Simmel, elaborati alla fine del XIX secolo.
Al primo si deve il concetto di “consumo vistoso”, che pone l’evidenza sull’inserimento dei consumi nelle dinamiche dell’autorappresentazione delle classi agiate, che, rompendo gli schemi dell’economia neoclassica, mirerebbero all’affermazione del prestigio personale dirigendosi su oggetti ricercati, costosi e superflui.
Il secondo ha approfondito il rapporto tra le classi agiate e quelle inferiori, applicando il trickle-down effect alle dinamiche del rapporto tra classi elevate e ceti inferiori. Secondo il modello del sociologo e filosofo tedesco, da un lato, la moda aspira a coinvolgere tutti e, dall’altro, le classi meno agiate, rivolte verso i quadri più alti della sfera sociale, ai quali aspirano ad arrivare, cercano sempre di imitare le pratiche dei ceti superiori; tuttavia, una volta che la moda, «per contraddizione logica con la propria natura», diverrebbe patrimonio anche delle classi inferiori, perdendo la propria funzione distintiva, il meccanismo di differenziazione porterebbe a una “svalutazione” di quelle determinate pratiche e, quindi, alla creazione di nuove.
Nell’ambito dei Cultural studies, un importante contributo sul tema è stato dato da Mary Douglas e Byron Isherwood, che hanno messo in evidenza come il consumo dei beni non fosse solo necessario per «per la sussistenza e per l’esibizione competitiva» ma anche a «rendere visibili e stabili le categorie della cultura». In quest’ottica, il consumo, come il rito, servirebbe a fissare i significati, a ordinare la realtà e, in qualche modo, a comprenderla.
Ancora più avanti si è spinto Pierre Bourdieu, teorizzando la presenza di altre forme di capitale da affiancare a quello economico, tradizionalmente riconosciute, e introducendo i concetti di habitus e campo. Secondo il sociologo e antropologo francese, il consumo, in quanto esito di una scelta consapevole, non sarebbe solo derivato dalle semplici possibilità economiche dell’individuo, ma anche, e soprattutto, dal “capitale culturale” (acquisito tramite l’educazione familiare ed extra familiare). Esso sarebbe, sì, connotato socialmente, ma non verrebbe effettuato semplicisticamente in chiave strumentale, per mostrare il proprio status sociale: nella scelta agirebbero schemi mentali «incorporati, costituitisi nel corso della storia collettiva, che vengono poi acquisiti nel corso della storia individuale» (ovverosia, l’habitus). Le preferenze sarebbero allora indirizzate non all’imitazione di chi sta più in alto della scala sociale, ma a limitare chi sta più in basso, caratterizzato dal “cattivo gusto”.
Sulla base di questo impianto teorico, qui solo accennato schematicamente, l’obiettivo del presente lavoro è quello di provare a utilizzare le «cose», le fonti materiali, rappresentate sia da monumenti che da più comuni oggetti del quotidiano, in quanto elementi attivi nelle società che le produssero e usarono, per la disamina della formazione e del mantenimento dei rapporti verticali e sociali all’interno dei gruppi familiari, delle strategie di distinzione e, quindi, del posizionamento sociale dei singoli individui e/o dei gruppi.
Riprendendo, in parte, lo schema tripartito utilizzato da Alessandra Molinari nel suo fondamentale saggio introduttivo sul rapporto tra fonte archeologica e mobilità sociale, sono stati scelti tre tra i più significativi aspetti della cultura materiale urbana, per la quale disponiamo di una buona quantità di studi: l’edilizia, le sepolture (attraverso le epigrafi e i monumenti sepolcrali) e, infine, la ceramica.
Si tratta di una ricerca tutt’ora in fieri e, di certo, non esaustiva. Le fonti a disposizione, sia quelle più tradizionalmente “archeologiche” sia quelle tradizionalmente ad appannaggio di altre discipline (epigrafia, storia dell’arte, storia del costume, antropologia cultur...