Cecilia Paolini
All’origine delle prime biografie. La letteratura artistica seicentesca
La fortuna critica di Pietro Paolo Rubens iniziò ben prima della sua morte, avvenuta il 30 maggio 1640: le grandi committenze che ottenne per le corti più prestigiose di tutta Europa, la fama come diplomatico per conto del principato fiammingo e della corona spagnola, ma anche il raffinato gusto e la profonda cultura come collezionista e appassionato di antichità, furono le motivazioni principali che indussero a un precoce interesse nei confronti della vita e della sua opera pittorica.
Una prima, concisa bozza di biografia, soprattutto legata al soggiorno italiano, fu scritta nei primi anni venti del XVII secolo da Giulio Mancini, negli stessi anni in cui Vincenzo Giustiniani, tra i collezionisti più colti e raffinati della Roma di quel tempo, scriveva le sue considerazioni critiche sul maestro fiammingo al giurista ed erudito belga Dirk van Ameyden.
È importante porre l’attenzione sul fatto che le prime testimonianze critico-biografiche riguardanti Rubens sono italiane: Giulio Mancini e Vincenzo Giustiniani, nel terzo decennio, e Giovanni Baglione, nella prima edizione delle sue Vite del 1642, costituiscono il primo nucleo di documentazione letteraria sul maestro d’Anversa: chiaramente le loro fonti furono soprattutto le opere che Rubens lasciò in Italia, e in particolare a Roma, ma, almeno per quanto riguarda Baglione, sicuramente si deve ipotizzare la presenza di una qualche altra via di ricezione delle informazioni, poiché vengono menzionate notizie sulla vita grandiosa del pittore fiammingo e sulle sue onorificenze di carattere nobiliare e cavalleresco, dati che nelle Fiandre vennero divulgati soltanto con la pubblicazione della raccolta Images de divers hommes d’esprit sublime di Jan Meyssens nel 1649. Difficile è stabilire un percorso univoco e certo attraverso il quale arrivarono in Italia informazioni sulla vita di Rubens dopo il suo ritorno ad Anversa, ma senza dubbio tale flusso di notizie coinvolse il vivace ambiente romano della prima metà del XVII secolo, nel quale la comunità fiamminga era ben presente e molto dinamica: è noto che Rubens fu in contatto con Jacob de Haze, anch’egli proveniente da Anversa, attivo a Roma nei primi trent’anni del Seicento e accademico di San Luca; de Haze era probabilmente tra coloro che fornivano oggetti di antiquariato al pittore della corte fiamminga, poiché nel 1612 Rubens gli cedette il credito maturato con la Congregazione dell’Oratorio (ultima parte del pagamento per la decorazione dell’altare maggiore della Vallicella) per rifondare il costo di alcune “bagattelle” comprate in Italia per suo conto. Tra gli allievi e seguaci di de Haze va ricordato Théodoor van Loon, pittore che risiedette a Roma tra il 1602 e il 1608 (quindi in coincidenza con il soggiorno italiano di Rubens) e di nuovo tra il 1628 e il 1629: grande amico di Erycius Puteanus, come Rubens stesso, negli anni lontano da Roma lavorò con Wenzel Cobergher, architetto degli arciduchi di Fiandra, e ottenne più di una commissione dalla corte fiamminga, di cui Rubens era il principale artista. Negli anni in cui van Loon tornò nella città del papa, Rubens si trovava tra Madrid e Londra, dove fu nominato cavaliere da ambedue i re. È plausibile, dunque, che van Loon, rimanendo in contatto con l’ambiente intellettuale della corte di Bruxelles, abbia ricevuto notizie dell’illustre conterraneo e le abbia divulgate nell’ambiente romano. Non bisogna dimenticare, infine, François Duquesnoy, trasferito a Roma nel 1618 e figlio di uno degli scultori dei principi Alberto VII e Isabella di Spagna, anch’egli in contatto con Rubens. In breve, se non è possibile dimostrare con sicurezza una connessione certa tra Baglione e le informazioni sulla vita di Rubens, è altresì facilmente spiegabile la circolazione, nell’ambiente romano, di notizie riguardanti i successi artistici, le fortune economiche e le onorificenze nobiliari ottenute dal pittore fiammingo.
Tra le cause di una così precoce attenzione critica sono indubbiamente da individuare le testimonianze visive che il pittore d’Anversa riuscì a collocare nelle chiese più celebri di tutta Europa già nei primi anni della propria carriera: durante il viaggio in Italia, le grandi pale d’altare per Mantova, Roma e Genova ebbero risonanza anche in patria, così come ricorda Baldinucci: «erasi già il nome suo sparso non pure per l’Italia tutta, ma era eziandio trapassato in Fiandra…». Tale celebrità portò a una rapida carriera tanto che, pochi mesi dopo il suo ritorno, venne nominato artista di corte degli arciduchi fiamminghi, evento già intuito da Vincenzo I Gonzaga, patrono di Rubens per gli otto anni di soggiorno italiano, quando suo cugino, il principe Alberto VII, governatore dei Paesi Bassi meridionali, aveva reclamato il giovane artista a casa, formalmente per occuparsi della madre gravemente ammalata. L’esuberante ambizione artistica di Rubens venne registrata dalla letteratura critica come fatto eccezionale e straordinario, talmente risaputo da non necessitare di lunghi chiarimenti, né di elenchi completi delle committenze poiché sarebbero stati infiniti, come lo stesso Baldinucci spiega: «Ma sarebbe cosa da non aver mai fine la narrazione di tutte l’opere, che inventò, e coi suoi pennelli condusse quest’artefice; basti solo il dire, che non si trovò in Fiandra chiesa cospicua, o nobile palazzo ne’ suoi tempi, che non si gloriasse d’avere tavole, o altre pitture di sua mano, senza quei moltissimi, che egli ebbe a fare quasi per tutti i principi d’Europa, le quali sole sarebbero bastanti per dargli fama d’uomo grande nelle arti…»; la medesima considerazione è espressa anche da de Piles: «Je ne m’arresteray point à vous faire le détail de ses Ouvrages, le nombre en est presqu’infini, comme on le peut voir par la quantité prodigieuse d’Estampes gravées d’aprés luy». È altresì rilevante valutare che anche per committenze destinate a esposizioni private, come in caso di ritratti, Rubens ebbe l’abilità pittorica e la scaltrezza imprenditoriale di lavorare per i più nobili collezionisti di tutta Europa. In tal senso, ricorda Soprani che «… le altre nobili doti, che lo fregiavano, legarono talmente gli animi de’ primarj Cavalieri di questa città, che mal forniti credevano i loro palazzi senza qualche tavola di costui». La celebrità di Rubens, dunque, si diffuse grazie alle committenze per le grandi pale d’altare che riuscì a ottenere, già durante gli anni italiani, ma anche una volta tornato in patria, e alla nobiltà dei collezionisti con cui entrò in contatto, per i quali eseguì ritratti, per altro tutti di grandi dimensioni; a tal proposito, la letteratura critica ricorda le effigi per l’aristocrazia genovese, in particolare i ritratti equestri, e, dopo il ritorno nelle Fiandre, le raffigura...