Semplice, buttato via, moderno
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Semplice, buttato via, moderno

Il "teatro per la vita" di Gianrico Tedeschi

  1. 241 pagine
  2. Italian
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Semplice, buttato via, moderno

Il "teatro per la vita" di Gianrico Tedeschi

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Questa è la storia di come nasce un attore, dall'infanzia vissuta nella cornice delle retoriche fasciste e nutrita dalla vitalità della cultura teatrale milanese, fino agli anni della guerra e della prigionia nei lager nazisti, dove recitare per gli internati italiani era questione di vita o di morte.Dalla lunga, affettuosa intervista condotta dalla figlia, affiora il profilo di Gianrico Tedeschi (Milano, 1920), un grande protagonista e testimone del teatro italiano del dopoguerra. La biografia individuale, inevitabilmente, è anche un affresco storico-antropologico di un'epoca che ha visto affermarsi tutti i principali interpreti, drammaturghi e registi che hanno contribuito a ridefinire in senso moderno la struttura del teatro italiano.La difficoltosa nascita del Piccolo di Milano, le opportunità offerte dal­l'Accademia Silvio D'Amico di Roma, le sinergie fra lotta partigiana e sostegno alla cultura e alla ricostruzione del Paese, la scuola dei grandi maestri, da Costa a Strehler, da Visconti a Ronconi, sono tutti segmenti di un racconto in cui destino personale, carriera artistica e contesto intersoggettivo sono profondamente intrecciati e traggono linfa e significato l'uno dall'altro.

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Parte prima. Testimone della storia

Uno. Venite ad me omnes

Due figlie, una storia
È già maggio.
Il tempo corre vertiginosamente verso l’estate e, proprio quando c’è bisogno di riposo, cominciano gli impegni più faticosi, le tesi, gli esami. Sono contenta che papà venga a stare un mese a casa mia, mi costringerà a rallentare, a fermarmi. Stare insieme come non siamo mai stati, guardarci negli occhi come non abbiamo mai fatto, magari dare un senso a tutto il nostro passato, che è filato via alla velocità della luce.
Papà, sono più di sessant’anni che ti conosco e sento di non conoscerti abbastanza, non come dovrebbe una figlia, con i ricordi vividi dell’infanzia e della vita familiare. Invece, con te, i ricordi sono sempre stati intrecciati al tuo lavoro, al teatro.
Da bambina avevo la sensazione precisa di entrare in contatto con te solo quando eri sul palcoscenico, e facevi ridere e piangere centinaia di persone, oltre a me. In sala, io mi sentivo speciale, perché tu eri il mio papà – e questo era un segreto che il pubblico plaudente, intorno a me, non conosceva. Ma mi sentivo anche più piccola di quello che ero: sarei mai stata all’altezza della situazione? Come deve essere la figlia di un uomo tanto applaudito e amato? Non lo sapevo. Avevo paura di saperlo.
Quando scendevi dal palco ritornavi silenzioso, concentrato, di poche parole. Come se le tue energie fossero limitate e non volessi sciuparle. O come se le avessi già esaurite lassù, sul palcoscenico.
Mia sorella Sveva, figlia tua e di Marianella, provava emozioni simili. Anche a lei è successo di guardare al palcoscenico come all’unico luogo in cui tu sei veramente te stesso, l’unico luogo in cui è possibile entrare davvero in relazione con te.
Sveva racconta:
Estate 1987, avevo quasi 10 anni. Uno di quei brevi periodi che ho passato da sola con papà. Non mi ricordo bene se mamma fosse impegnata in altro, o se fosse una di quelle volte in cui decideva che dovevamo passare dei momenti insieme da padre e figlia, il famoso quality time, in cui lei riprendeva fiato e lui finalmente doveva occupare un angolino del suo cervello per pensare a cosa dovesse mangiare la creatura a colazione, ad esempio, o se aveva fatto i compiti. Mi ricordo quei periodi come buffi e teneri, un uomo imbranato, silenzioso, a tratti inutilmente severo, che si trovava a dover portare la ragazzina al mare visto che, effettivamente, era estate e ci trovavamo a Taormina, e in cui la figlia gli allacciava le scarpe perché con i suoi problemi alla schiena non arrivava a farlo, e seguiva silenziosa e attenta le prove in quel teatro incantato, facendo amicizia con attori come Luciano Virgilio o Paola Gassman, e giocando a scopa nei camerini coi tecnici.
Io studiavo musica, e mi ero portata dietro i miei flauti barocchi, soprano contralto e tenore, per esercitarmi, e un primo pomeriggio in albergo mi ero messa a suonare a orecchio la musica dello spettacolo, il tema principale, con il contralto, dei tre il flauto col suono più caldo. Papà stava studiando nell’altra stanza, si interrompe e viene da me, ascoltando in silenzio. Poi mi chiede se mi sarebbe piaciuto suonarla anche in scena, e io: perché no? Il giorno dopo mi porta da Orazio Costa Giovangigli, un candido e severo eremita del teatro italiano, luminoso, dallo sguardo bonario, e anche lui mi ascolta in silenzio. Poi mi chiede se volevo suonare nello spettacolo, mi dice che mi avrebbero fatto un costume apposta, che sarei stata un paggetto (avevo i capelli corti all’epoca), e io chiedo: ma avrò anche una paga? – Ma certamente, risponde. Allora vado dall’amministratore, e ci accordiamo per 8.000 lire a replica, una bella sommetta, ci avrei potuto comprare svariati calippo al limone e parecchi pacchetti di figurine. Così, il costumista mi fa cucire un costume da paggio tutto per me, color panna e bordeaux, con un cappellino, e mi trovano un paio di scarpe di velluto bordeaux che mi stavano un incanto. Nei vari traslochi una scarpa è andata perduta, ma il resto del costume lo conservo ancora. E il giorno del debutto, durante la scena finale della festa, come se niente fosse, entro in scena, mi metto accanto a Porzia, e inizio a suonare. Eravamo a Taormina, un teatro antico all’aperto che può portare fino a 4.000 spettatori, e che si affaccia sul mare; c’erano le casse che mandavano le musiche dello spettacolo, e il suono non amplificato del mio flautino barocco poteva spingersi al massimo fino alla ribalta, non sarebbe arrivato neanche alla prima fila; ma io ero lì e suonavo in scena, collega di mio padre, fiera, sicura e inconsapevole, e per la prima volta sentivo che la parola “casa” aveva un senso su quelle tavole, e intuivo che con mio padre non c’era bisogno di nessun linguaggio perché ci si capiva nel silenzio; ma se proprio si doveva parlare, se proprio si doveva esistere, il luogo migliore per farlo era proprio lì.
Semplice, buttato via, moderno
Non recitavi mai la stessa parte due volte, nemmeno nello stesso spettacolo. Ero pronta, ogni sera, a cogliere le sottili varianti, le sfumature, le differenze con la sera precedente. O i giochi, gli scherzi che vi fate in scena, fra colleghi: una battuta cambiata, un gesto imprevisto, un’improvvisazione… un “soggetto”.
Il “soggetto” dà il titolo a questo libro su di te, perché il “soggetto” è la chiave della tua recitazione, del tuo essere in scena, del tuo trasformare il teatro. Il teatro non è più lo stesso dopo i tuoi “soggetti”, quelli che nel corso del tempo hai inserito nei tuoi copioni, nelle tue parti in commedia.
Quello che ho scelto per questo libro è un “soggetto” speciale, che ti lega a un regista che hai molto amato, molto ammirato: Giorgio Strehler. Mentre recitavi Arlecchino servitore di due padroni, sotto la sua regia, mentre facevi le prove affinando la tua parte di Pantalone, ti venne fuori così, con naturalezza, un “soggetto” che a Strehler piacque al punto da inserirlo stabilmente nel testo e di suggerirne l’interpretazione a chi, anni dopo, ti ha sostituito in quella parte.
Eri Pantalone, il capocomico, e davi istruzioni ai tuoi attori. Stavi spiegando come andava recitato quel canovaccio. Come volevi che risultasse la commedia. Davi un’indicazione di regia. La battuta va detta così, dovete recitare così: semplice, buttato via, moderno!
Non era verosimile che un guitto del Settecento suggerisse uno stile privo di enfasi, senza “recitazione”, senza impostazione, così come farebbe un attore “moderno”, in modo “semplice”, anzi, “buttato via”…
Un’intuizione fantastica, una strizzatina d’occhio allo spettatore, un entrare e uscire dal testo che all’epoca era impensabile, una meta-comunicazione improbabile nel mondo goldoniano.
Una chicca d’autore, una firma.
E Strehler la volle per sempre, anche se a teatro nulla è per sempre.
Ma questa frase sintetizza anche te, la tua recitazione, il tuo essere nella realtà, il mondo delle tue relazioni. Questa è la sensazione che mi hai sempre trasmesso, il tuo modo di abbracciare la vita, il tuo modo di reagire agli eventi. Semplice: privo di orpelli, essenziale, sobrio. Buttato via: senza retorica, senza enfasi, senza ideologia. Moderno: diretto, autoriflessivo, tagliente.
Roma, maggio 2013: via Marsala, stazione Termini
Ed è così che raccogli le tue cose, sul treno che è arrivato puntuale da Milano alle 19:00 a Roma, stazione Termini: lo zaino grande e lo zainetto da cui sei inseparabile, il borsone pieno di ricambi e medicine che Marianella ti ha preparato. Vestito come ti vesti da quando ti conosco, coi pantaloni di fustagno, l’eskimo di velluto a coste, la camicia azzurro militare di quelle che vendev...

Indice dei contenuti

  1. Risvolto
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Indice
  6. Prologo
  7. Parte prima. Testimone della storia
  8. Parte seconda. Interprete della modernità
  9. Intervista a Franca Valeri
  10. Luciano Zani, Postfazione. Due anni su novantotto
  11. Appendice
  12. Inserto fotografico