La nuova lotta di classe
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Élite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia

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Élite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia

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I movimenti populisti e di piazza che, in tutto l'Occidente, stanno mettendo a soqquadro i tradizionali assetti politici, sono visti da molti commentatori come una insurrezione finalizzata al rovesciamento della democrazia liberale. Secondo Michael Lind, quello che sta accadendo è molto più complesso: davanti ai nostri occhi, infatti, si sta combattendo una nuova lotta di classe. Se gli investimenti educativi e la divisione del lavoro cognitivo hanno garantito per decenni prosperità e sicurezza alle economie occidentali, le loro conseguenze sul lungo termine, secondo l'autore di questo libro, sono state l'emergere di una "superclasse" burocratica ad alto grado di specializzazione e istruzione che, contrariamente a quello che i meccanismi della selezione per merito lascerebbero supporre, tende a rinnovarsi e a scontrarsi con una classe di lavoratori sempre più numerosa, che vive ai margini o al di fuori dei grandi centri, e si sente esclusa da qualsiasi ambito socialmente rilevante. Temi come il lavoro, l'ambiente, la crisi migratoria e altri ancora diventano così il campo di battaglia di una guerra che rischia di avere, per la nostra società, un esito ugualmente distruttivo: il trionfo di una tecnocrazia poco interessata al bene comune e la trasformazione della società in un sistema di caste ad alto livello tecnologico oppure il rovesciamento delle élite e la loro sostituzione con un sistema incapace di elaborare riforme costruttive. La soluzione, secondo Lind, è l'individuazione di un nuovo compromesso sociale, un nuovo patto che, in nome del pluralismo democratico, promuova la partecipazione di tutti i cittadini di qualsiasi estrazione, etnia o credo in tutte le decisioni di ambito economico, politico e culturale.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788861056657

capitolo 1

La nuova lotta di classe
Alla Guerra Fredda subentrò la lotta di classe. Nello stesso periodo, in molti Paesi occidentali scoppiò una guerra di classe transatlantica che vide le élite radicate nei settori delle grandi aziende, della finanza, del governo, dei media e dell’istruzione opporsi in maniera asimmetrica ai populisti nativi della classe operaia. Il vecchio spettro politico della sinistra e della destra cedette il passo a una nuova dicotomia politica, quella tra insider e outsider.*
Nessuna delle ideologie politiche dominanti in Occidente è in grado di spiegare la nuova lotta di classe, perché tutte quante sostengono che in Occidente non esistono più classi sociali stabili e immutabili.
Il neoliberismo tecnocratico – l’ideologia egemonica dell’élite transatlantica – sostiene che nelle società puramente meritocratiche lo status ereditario di appartenenza a una determinata classe sociale sia teoricamente scomparso, a eccezione delle barriere alla mobilità individuale verso l’alto sempre in essere a causa di razzismo e misoginia. Incapaci di riconoscere l’esistenza delle classi sociali, e tanto meno di discutere dei conflitti tra di esse, i neoliberisti hanno la tendenza ad attribuire il populismo al fanatismo o alla frustrazione da parte di soggetti disadattati, o a una rinascita del fascismo degli anni Trenta o, ancora, alle macchinazioni ostili del regime nazionalista del presidente russo Vladimir Putin.
Come il neoliberismo, il conservatorismo tradizionale suppone che in Occidente non esista più la classe degli ereditieri. Insieme a neoliberisti e libertari, i conservatori dell’establishment affermano che l’élite economica non sia una classe di semi-ereditieri, bensì un aggregato caleidoscopico e in costante evoluzione di singoli individui di talento e laboriosi. Secondo l’ideologia conservatrice libertaria, gli interessi sul breve periodo dei datori di lavoro collimano sempre con quelli dei lavoratori e della società nel suo complesso. Nel pensiero conservatore convenzionale, il capitalismo meritocratico è minacciato dall’interno da una “nuova classe” anticapitalista, formata da intellettuali progressisti come professori, giornalisti e attivisti no profit.
Dal canto suo, il marxismo prende molto sul serio le classi e la lotta di classe. Tuttavia, con la sua teoria della Storia laicizzata e provvidenziale e la sua idea che gli operai delle grandi industrie siano gli esecutori universali della rivoluzione globale, il marxismo ortodosso è stato sempre assurdo.
Esiste, in effetti, una scuola di pensiero in grado di spiegare gli sconvolgimenti in corso in Occidente e nel mondo: si tratta della teoria della rivoluzione manageriale di James Burnham, integrata dalla sociologia economica di John Kenneth Galbraith. Di recente, il pensiero di Burnham è stato al centro di un revival tra gli intellettuali del centrodestra americano.5 Purtroppo, la sociologia di Galbraith resta, insieme alla sua teoria economica, fuori moda.6
Negli anni Trenta, James Burnham fu tra i capi di spicco del movimento trotskista internazionale, prima di diventare uno zelante anticomunista e di contribuire a fondare il movimento conservatore americano del secondo dopoguerra. Burnham era stato influenzato dalla tesi di Adolf Berle e Gardiner Means contenuta in The Modern Corporation and Private Property (1932), che documentava la separazione di proprietà e controllo nelle grandi aziende moderne, e forse anche da Bureaucratization of the World (1939) di Bruno Rizzi.7 Nel suo bestseller mondiale intitolato La rivoluzione manageriale (1941), Burnham sostenne che nell’epoca del capitalismo su vasta scala e dello stato burocratico la vecchia borghesia stava per essere soppiantata da una nuova classe manageriale:
“Ciò che accade in questo periodo di transizione è un movimento del gruppo o classe sociale dei managers […] movimento inteso alla conquista del predominio sociale, del potere e del privilegio, della posizione di classe dominante […] Alla fine del periodo di transizione i managers avranno realmente raggiunto il predominio sociale, saranno la classe dominante nella società. Di più, questo movimento si estende a tutto il mondo, ed è già molto sviluppato in tutte le nazioni, benché si trovi a un diverso grado di sviluppo nelle diverse nazioni.”8
Nel suo articolo “Second Thoughts on James Burnham” (1946), George Orwell fornì un succinto sommario della tesi di Burnham:
“Il capitalismo sta scomparendo, ma non viene rimpiazzato dal socialismo. Quello che si afferma adesso è un nuovo tipo di società organizzata e centralizzata che non sarà né capitalista né democratica secondo nessuna accezione accreditata della parola. Ad amministrare questa nuova società sarà il popolo, che ne controllerà in modo efficace i mezzi di produzione: mi riferisco a dirigenti d’affari, tecnici, burocrati e soldati, raggruppati da Burnham sotto l’etichetta collettiva di ‘manager’. Queste persone faranno piazza pulita della vecchia classe capitalista, opprimeranno la classe operaia e organizzeranno la società in modo tale che tutto il potere e i privilegi economici restino nelle loro mani. I diritti della proprietà privata saranno aboliti, ma non per questo nascerà una proprietà comune. Le nuove società ‘manageriali’ non saranno formate da un patchwork di piccoli stati indipendenti, ma da grandi superstati raggruppati attorno ai principali centri industriali in Europa, Asia e America. Questi superstati combatteranno tra di loro per conquistare le regioni del pianeta sfuggite al loro controllo, ma probabilmente non riusciranno a sconfiggersi a vicenda del tutto. A livello interno, ogni società sarà gerarchica, con un’aristocrazia di talenti al vertice e una massa di semi-schiavi in basso.”9
In seguito all’abbandono del comunismo, la regola globale sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, tanto democratici quanto autoritari, è stata una versione di economia mista dominata da aziende burocratiche, governi burocratici e società no profit burocratiche dove lavoravano élite nazionali con un’istruzione universitaria, attive nei tre settori. Quelli che Orwell definisce “i grandi superstati” di Burnham, “raggruppati attorno ai principali centri industriali in Europa, Asia e America”, portano oggi i nomi di NATO, NAFTA, UE, Unione economica euroasiatica della Russia (UEE), insieme alla zona d’influenza informale che si sta compattando attorno alla Cina.
Pur non essendo stati aboliti, i diritti della proprietà privata sono stati esautorati e ridefiniti perfino nei Paesi cosiddetti capitalisti, tanto da risultare irriconoscibili. Si dice che i veri “proprietari” delle aziende siano i molti possessori temporanei di azioni, acquistate e rivendute con notevole frequenza da intermediari quali i fondi di investimento mutualistico. Ma anche le persone comuni – che accendono mutui da rifondere con rate mensili, e che di fatto prendono in prestito dalle banche o dalle aziende case, automobili e telefoni – sono proprietari soltanto di nome.
La teoria della rivoluzione manageriale di Burnham è simile alla sociologia economica dell’economista americano John Kenneth Galbraith. Nel loro credo politico, il conservatore Burnham e il liberale Galbraith non avrebbero potuto essere più diversi l’uno dall’altro, nonostante la comune amicizia con William F. Buckley Jr, influente direttore e giornalista conservatore. Eppure, entrambi credevano che una nuova élite dirigenziale avesse sostituito la borghesia e l’aristocrazia di un tempo. In Il nuovo stato industriale, Galbraith chiama la nuova élite “tecnostruttura”. Nelle sue memorie Una vita nel nostro tempo, Galbraith scrisse: “A James Burnham non fu mai riconosciuto pienamente il ruolo che gli spettava, in parte perché era un accanito conservatore molto ai margini delle correnti politiche importanti, e in parte perché non aveva credenziali universitarie. Nelle prime edizioni dello Stato industriale neanch’io lo misi nel giusto rilievo”.10
Se Burnham e Galbraith includevano nella nuova élite ingegneri e scienziati, i due autori non descrissero però una tecnocrazia come l’utopistico “soviet dei tecnici” auspicato dall’economista indipendente Thornstein Veblen.11 I manager più importanti sono burocrati privati e pubblici che dirigono grandi società nazionali e multinazionali, agenzie governative e organizzazioni no profit. Esercitano un’influenza spropositata in politica e nella società in virtù delle posizioni istituzionali che ricoprono in vasti apparati burocratici di potere. Alcuni sono facoltosi indipendenti, ma perlopiù sono impiegati salariati o professionisti stipendiati. La maggioranza dei miliardari di oggi è nata in questa classe burocratica medio-alta con un’istruzione universitaria, con le credenziali giuste e i cui eredi tendono a sparire in essa nel volgere di una o due generazioni. Gli aristocratici titolati premoderni che sopravvivono nell’Occidente di oggi sono anacronismi che, perlopiù, evitano il ridicolo camuffandosi da professionisti e manager molto indaffarati.
Nel mio libro The Next American Nation (1995), per descrivere questo insieme di manager e professionisti con un’istruzione universitaria ho usato il termine “superclasse”.
Quanto è grande la superclasse? Difficile quantificarlo, ma facendo affidamento sulla teoria di Mark Bovens e Anchrit Wille, secondo cui le democrazie occidentali sono “democrazie-diplomifici” – “amministrate da cittadini con i diplomi più alti” –, possiamo considerare come segno dell’appartenenza alla superclasse un livello di istruzione tra i più alti.12
Sia in Europa sia negli Stati Uniti sono appena tre su dieci gli abitanti che hanno conseguito un diploma universitario: quel terzo della popolazione rappresenta quasi in toto il personale governativo, delle imprese, dei media e del settore no profit. Un numero inferiore di cittadini ha conseguito un diploma professionale o universitario corrispondente con maggiore precisione all’appartenenza a una superclasse manageriale con un’istruzione universitaria – non più del 10 o del 15 per cento della popolazione in una tipica nazione occidentale. Si tratta di una esigua minoranza che, in ogni caso, è di molto superiore al tanto discusso “uno per cento”. Negli Stati Uniti questa superclasse con credenziali possiede più o meno la metà della ricchezza, mentre il resto appartiene ai super-ricchi e al 90 per cento della rimanente popolazione.13
Manager e professionisti sono una classe innata di ereditieri stabile e immutabile, oltre che un’élite dell’istruzione? In una società soltanto meritocratica, a ogni generazione i ranghi dei manager e dei professionisti che hanno conseguito un diploma universitario potrebbero essere riempiti per intero da soggetti che si spostano sempre più in alto. Negli Stati Uniti, tuttavia, gli studenti universitari tendono ad avere uno o più ...

Indice dei contenuti

  1. La nuova lotta di classe
  2. Indice
  3. Competenti contro deplorevoli. Una conversazione tra Lorenzo Castellani e Raffaele Alberto Ventura
  4. Introduzione
  5. Capitolo 1. La nuova lotta di classe
  6. Capitolo 2. Centri hub ed entroterra: i terreni di scontro della nuova lotta di classe
  7. Capitolo 3. Guerre mondiali e New Deal
  8. Capitolo 4. La rivoluzione neoliberista dall’alto
  9. Capitolo 5. La controrivoluzione populista dal basso
  10. Capitolo 6. Burattinai russi e nazisti: come l’élite manageriale demonizza gli elettori populisti
  11. Capitolo 7. Il paradiso senza operai: l’inadeguatezza della riforma neoliberista
  12. Capitolo 8. Il potere di equilibrio: verso un nuovo pluralismo democratico
  13. Capitolo 9. Come rendere il mondo sicuro per il pluralismo democratico
  14. Conclusioni
  15. Ringraziamenti
  16. Bibliografia