Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio
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Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio

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Cos'è il "sacro"? Appartiene esclusivamente alla sfera religiosa? È qualcosa che solo i credenti possono provare, oppure raccoglie in sé una serie di valori universali cui oggi - nell'epoca della "morte di Dio" - sembra difficile appellarsi? C'è un legame tra la biologia umana e la capacità di commuoversi di fronte a un'opera d'arte? Queste domande sembrano rimandare a campi del sapere lontani fra loro, se non del tutto inconciliabili, come la politica e la biologia, l'estetica e la teoria del linguaggio, la teologia e le scienze cognitive. Cimatti invece fa dialogare queste diverse tradizioni scientifiche e filosofiche, offrendoci così una tesi inedita: se è vero che al senso del sacro non è possibile rinunciare, in quanto geneticamente inscritto nella biologia dell'"animale uomo", è altrettanto vero che il sacro è un concetto storico, un prodotto della cultura umana, un'esperienza che l'uomo compie quotidianamente e che erroneamente è stata fatta coincidere con il sentimento religioso. Grazie a un approccio trasversale che accosta antropologia, logica, religione, scienza e filosofia, mistica e linguistica, Felice Cimatti affronta uno dei grandi dibattiti culturali che hanno impegnato sociologi, linguisti e filosofi, e ne dimostra - in un'epoca caratterizzata da un'apparentemente insanabile crisi di valori - l'attualità e l'urgenza.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788875782450

Capitolo 1

Per un sacro non religioso

Mistica: l’oscura autopercezione del mondo che è al di fuori dell’Io, dell’Es. Sigmund Freud, Risultati, idee, problemi

Sentimenti logici

Il sacro appare. Il punto di partenza per una qualsiasi analisi che voglia almeno provare a essere antropologicamente adeguata è questa fondamentale constatazione: il sacro è qualcosa di sensorialmente evidente (per questo è apparente, ossia percepibile), cioè si vede, si sente, si annusa, si tocca, si gusta. Il sacro ha a che fare con l’esperienza dei sensi, cioè il sacro è corporeo. Ma che cosa appare? Non appare una realtà trascendente, perché il trascendente – per definizione – non appare (e se invece apparisse allora non sarebbe trascendente; vedi Capitolo 2). Un’analisi antropologica del sacro, in particolare un’analisi bio-logica del sacro, si svolge tutta al livello della vita mondana, della vita terra terra, dell’esistenza nel tempo e nello spazio, nella storia. Il sacro appare, quindi. In questo libro proveremo ad analizzare dapprima le condizioni che permettono a questo fenomeno di manifestarsi – condizioni che individueremo nella natura linguistica della mente umana, nel fatto, cioè, che il tipico pensiero umano è un «pensiero verbale»1 – e poi le conseguenze estetiche, ed etiche, di questo apparire.
Che vogliamo dire, però, quando sosteniamo la tesi che il sacro non ha relazione con il trascendente? Che cosa appare, nel sacro, se non il trascendente? Se il trascendente è ciò che in qualche modo si colloca oltre la nostra comune realtà umana, quella in cui viviamo e sentiamo e pensiamo e moriamo, allora, come mostreremo nel Capitolo 2, una realtà trascendente non c’è. E non perché Dio non esista (la nostra, cioè, non è la presa di posizione di un ateo2). Perché la non esistenza del trascendente non è un fatto empirico, bensì logico-linguistico, nel senso che il problema non è che nessuno ha mai potuto accertare l’esistenza fisica di Dio, che nessuno lo abbia mai incontrato, ma che la nozione stessa di uno spazio diverso e distinto da quello mondano – è questo il trascendente – non ci interessa. Credere che esista qualcosa del genere riguarda soltanto chi lo crede, e in questo libro ci interessa solo il nucleo bio-logico dell’animale umano, e in quel nucleo – è una delle tesi di questo libro – quella credenza non trova posto. L’intero problema della trascendenza diventa, in questo contesto, un problema di tipo logico, non fattuale; la questione del trascendente diventa, in questa prospettiva, quella dei limiti logici del linguaggio umano. Al contrario, il mondo della vita è questo mondo qui, di un altro mondo non è dato parlare, in nessun senso, sia scientifico che poetico. Può darsi, qualcuno obietterà, ma se non lo possiamo dire o pensare lo possiamo invece sentire interiormente; quello di Dio, si è soliti dire, non è un problema razionale. Il punto è che l’esperienza del sacro non è un fenomeno di questo tipo: non è un sentire interiore, non è uno stato soggettivo o privato. Ma, allo stesso tempo, non è nemmeno un’esperienza cognitiva, non è un pensiero o una credenza. Cominciamo la nostra analisi, intanto, da una celebre descrizione dell’esperienza del sacro:
Quando diciamo che Dio è l’oggetto dell’esperienza religiosa vissuta, dobbiamo tenere presente che Dio è spesso una nozione assai poco precisa; molte volte questa nozione non si identifica affatto con quel che abitualmente intendiamo per Dio. L’esperienza religiosa vissuta si riferisce a qualche cosa: in molti casi è impossibile dire più di questo, e, perché l’uomo possa attribuire a questo qualche cosa un qualsiasi predicato, è necessario che venga costretto a rappresentarselo come qualcosa di diverso. Sull’oggetto della religione quindi si potrà dire anzitutto questo: è qualche cosa di diverso, che sorprende. [...] Finora non si parla affatto di soprannaturale o di trascendente, anzi si può parlare di Dio soltanto in modo improprio; abbiamo soltanto un’esperienza vissuta, collegata al diverso che stupisce. Lungi dal prospettare la minima teoria e neppure la più elementare generalizzazione, ci contentiamo della constatazione empirica: quest’oggetto esce dall’ordinario.3
L’oggetto della «esperienza religiosa vissuta» non necessariamente ha a che fare con Dio. È il primo punto, e fondamentale: l’esperienza del sacro, di questa ci stiamo occupando, non coincide affatto con quella che ha per oggetto quell’entità – qualsiasi cosa sia, quest’entità – a cui ci si riferisce, ad esempio in italiano, con la parola Dio. Il sacro è distinto dal religioso, se intendiamo – in prima approssimazione – per religione quanto ha a che fare con pratiche istituzionalizzate e storicamente determinate4. C’è di più, ci dice Van der Leeuw, il sacro appare in una molteplicità di campi dell’esperienza umana. In questo senso, come vedremo, il sacro si configura con un tipo di esperienza che, propriamente, solo in casi eccezionali se non marginali è connesso alla religione. In questo senso il sacro è un fenomeno che riguarda tutti gli animali della specie Homo sapiens, che siano credenti, atei, agnostici o che non si siano mai posti il problema di Dio. Quella del sacro è una esperienza affatto mondana e umana; propriamente non è nemmeno una esperienza laica, ché il laico presuppone comunque l’orizzonte del religioso. In questo libro ci occuperemo del sacro come di un fenomeno affatto immanente, implicito nella nostra natura, come il respirare o il parlare una lingua che abbiamo appreso da chi si è preso cura di noi durante la nostra infanzia; in questo senso il sacro è un dato bio-logico.
Il sacro, inoltre, è quell’oggetto o fenomeno che «esce dall’ordinario», che è «diverso», che «sorprende». C’è sacro quando si manifesta un’interruzione nel tessuto consueto (normale) dell’esperienza, quando qualcosa per qualche ragione risalta rispetto all’ordinario corso delle cose. Questo vuol dire che il sacro registra l’apparizione di qualcosa di eccezionale, di miracoloso? Non sta rientrando in gioco, in questo modo, quel trascendente che vogliamo escludere dall’ambito del sacro? E, ancora, in questo modo non si torna a insistere sul carattere irrazionale5, affatto soggettivo, del sentimento del sacro? In effetti, se vogliamo mantenere il carattere non fortuito e non soggettivo di quest’esperienza (io la provo, tu no; tu la senti, io no), cioè il suo valore bio-logicamente universale, che quindi riguarda tanto il credente che il non credente, si tratta intanto di cogliere il valore specifico di questo sentimento. Secondo un’altra celebre definizione l’esperienza del sacro «come tale si riscontra soltanto nel campo religioso, mentre in altri campi, come per esempio nell’etica, amplia il proprio ambito, ma mai si afferma indipendentemente dalla religione»6. Secondo Rudolf Otto, quindi, il sacro coglierebbe un campo delimitato dell’esperienza umana. Ma siccome, com’è noto, a non tutti è dato provare questa esperienza, in questo modo fin dall’inizio si metterebbe in discussione il carattere non soggettivo di questo sentimento, proprio quel carattere, invece, che nella nostra ipotesi è oggettivo e universale. E difatti, secondo Otto, l’esperienza del sacro «è complessa e racchiude in sé un elemento di assoluta peculiarità, si sottrae alla sfera del razionale [...] ed è un arreton, un ineffabile in quanto è assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale (come anche il bello in un altro campo)»7. Si concentrano qui diversi elementi che, se il sacro ha i caratteri che Otto gli attribuisce, sembrano inconciliabili con una prospettiva bio-logica; (1) il sacro, proprio per l’importanza che una simile esperienza può rappresentare nella vita di un essere umano, non può essere uno stato soggettivo e fortuito, che qualcuno prova e qualcun altro no. Nei termini di Otto, invece, quella del sacro è una esperienza contingente, come a qualcuno può capitare di mangiare una frittata di cipolle e a un altro no. L’eccezionalità del sacro non sembra in alcun modo conciliarsi con la sua soggettività arbitraria; (2) il sacro è qualcosa non solo di soggettivo, ma anche di privato, di affatto personale, «assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale». Ora è tutto da dimostrare che possa esistere – al di là dei soliti e triti luoghi comuni sulle esperienze uniche (un ossimoro, a tutti gli effetti) – qualcosa come una esperienza ineffabile, cioè una esperienza che non si possa rendere in parole, assolutamente indicibile. Poniamo che provi una certa esperienza del sacro, con le caratteristiche che gli attribuisce Otto. Il problema maggiore, in realtà, non è che io non posso raccontare a te quel che io ho provato, piuttosto: come posso sapere io che ho provato una certa sensazione? Il punto è proprio questo, come faccio a sapere di aver provato questa sensazione, ad esempio di aver vissuto un’esperienza del sacro, e non invece quest’altra sensazione, completamente diversa? Per sapere che quella che ho provato è questa sensazione occorre distinguerla dalle altre sensazioni che non ho provato, ma che avrei potuto provare. Questa operazione, che comporta una distinzione fra diverse sensazioni, una delle quelli riconosco come esperienza del sacro, contrariamente a quanto sostiene Otto è una operazione pienamente concettuale; se non disponessi del concetto delle diverse sensazioni infatti non potrei nemmeno accertare di averne provata una in particolare. Ma se è concettuale è anche linguistica, cioè, se so fare una distinzione so anche dire – a me o ad altri – che sono in grado di fare questa distinzione. Al contrario, nel caso non fossi in grado di dire, se non agli altri almeno a me, di che esperienza si tratta, in che senso posso sostenere di sapere che si tratta di una sensazione anziché di un’altra? E se non sono in grado di effettuare questa distinzione, posso ancora sostenere di sapere che quella che ho provato è una esperienza del sacro piuttosto che un’altra esperienza? (3) In questi termini è anche criticabile l’idea secondo la quale «il contenuto positivo» dell’esperienza del sacro «è vissuto unicamente nel sentimento»8. Si pone qui un problema connesso a quello della presunta ineffabilità del sacro. Un sentimento, ancora una volta, è qualcosa che io provo, tu no, che oggi provo, da domani forse mai più. E, ancora, il sentimento, finché e soltanto è un sentimento, è «irrazionale, vale a dire, non spiegabile per il concetto»9, ma allora come lo riconosco in me? La «beatitudine» del sacro «rimane, irrimediabilmente, nell’inviolabile oscurità dell’esperienza puramente sentimentale senza concetto»10. E tuttavia come farò a identificarlo come questo sentimento che, appunto, riconosco, cioè di cui faccio esperienza una seconda volta? Se il sacro è un sentimento, non è un sentimento privato. Ma un sentimento non privato, cioè pubblico, che cos’è?
La questione ha a che fare con il valore di questa esperienza, che è una esperienza (non quindi un’operazione intellettuale), questo va ribadito, ma una esperienza dalle caratteristiche affatto peculiari. Il problema è che troppo spesso ricadiamo nell’alternativa secca, in cui anche Otto cade, fra razionale e irrazionale, fra sentimento e concetto, fra privato e sociale. Seguiamo ancora per un tratto la descrizione di Otto, perché ci serva, in negativo, per delineare i contorni di una definizione alternativa dell’esperienza del sacro. Otto insiste nel nesso fra l’esperienza del sacro e il trascendente. In questo senso, che però può valere solo per il credente, anche questa è una esperienza oggettiva, perché corrisponde a qualcosa di reale: «L’oggetto effettivamente “misterioso” è al di là della nostra apprensione e della nostra capacità di comprensione, non solamente perché la nostra conoscenza ha di fronte a esso determinati limiti che non è consentito valicare, ma perché qui noi ci imbattiamo in qualcosa di “essenzialmente altro” che per genere come per essenza è incommensurabile alla nostra essenza e al cui cospetto noi indietreggiamo in atto di irrigidita meraviglia»11. Questa descrizione coglie lo stato d’animo del credente, almeno nel credente di un credo che ammetta l’esistenza del trascendente, ma non coglie il carattere immanente e modesto dell’esperienza del sacro. C’è infatti nella descrizione di Otto un tratto di eroismo che contrasta, ancora una volta, con la normalità biologica del sacro. Qualsiasi caratteristica specie-specifica di un essere vivente è del tutto non eroica e non richiede un particolare sforzo di volontà. Le caratteristiche bio-logiche di ogni specie animale non richiedono un impegno che ecceda quello minimo richiesto dalla normalità metabolica dell’animale. Il sacro rientra nella fisiologia umana, non richiede alcuno speciale sacrificio. Il sacro, appunto, appare, è qui con me nella mia vita di tutti i giorni, mentre il trascendente non appare affatto, per definizione.
Il sacro, allora, è una esperienza. Prima di sviluppare questo punto, concentriamoci ancora sulla non privatezza dell’esperienza del sacro, ché, invece, pare essere considerata una sua ovvia caratteristica e fuori discussione. Ribadiamo qual è la posta in gioco, l’eventuale carattere universale (bio-logico) dell’esperienza del sacro. Un modo analogo per porsi questa domanda è se l’esperienza del sacro è individuale e privata oppure no, anche se ancora non sappiamo che cosa possa essere un’esperienza non individuale. Un’altra celebre, e molto meno pomposa, in verità, definizione dell’esperienza religiosa la ritroviamo in Willia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. Capitolo 1 - Per un sacro non religioso
  4. Capitolo 2 - Una questione logica: la trascendenza1
  5. Capitolo 3 - Dal profano al sacro, e ritorno
  6. Capitolo 4 - Ancora il sacro, dopo la morte di Dio
  7. Bibliografia