Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società
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Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società

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Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società

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Qualità individuale, virtù pubblica, fondamento dei legami e delle relazioni: il concetto di responsabilità è tanto pervasivo quanto apparentemente intuitivo, ma in realtà a uno sguardo più attento rivela grandi sorprese e questioni aperte. Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori, proseguendo l'analisi condotta in "Siamo davvero liberi?", incrociano i risultati delle neuroscienze e della psicologia sperimentale, le indagini filosofiche e gli aspetti giuridici. Se il mondo e il cervello sono deterministici, può esistere la responsabilità? Fino a che punto è possibile attribuirsi le conseguenze di un'azione? Quando, in sede penale, possiamo essere imputabili di un reato? Cosa significa, in definitiva, una vita vissuta responsabilmente? Domande fondamentali non solo sul piano intellettuale, ma anche per le loro ricadute sulla nostra esistenza e sulla società.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788875784195

Parte V

Diritto e responsabilità

Capitolo 11

Responsabilità sotto attacco e saggezza del diritto

di Andrea Lavazza

Due tipi di questioni tra diritto e responsabilità

Un uomo comincia a molestare la figliastra senza che prima abbia mai palesato condotte sessualmente devianti: viene arrestato, ma si finisce con l’attribuire la sua condotta a un tumore cerebrale. Un irreprensibile medico, superati i 60 anni, manifesta improvvisamente un comportamento pedofilo verso le piccole allieve che visita all’asilo: il giudice rifiuta di accogliere la tesi difensiva di una malattia che l’avrebbe condizionato. C’è, però, anche chi rivendica apertamente il diritto a relazioni affettive e fisiche tra adulti e minori consenzienti, senza che intervengano sanzioni legali, in nome della libertà e dell’arricchimento reciproco dei soggetti coinvolti.
Sono situazioni legate alla pedofilia, che possono essere utilizzate come filo rosso in un percorso tra le categorie della responsabilità (morale), per come vengono modificandosi alla luce delle scienze neurocognitive contemporanee, e le categorie ben più consolidate e stabili del diritto penale. Per un verso, il diritto sembra l’ambito privilegiato della responsabilità, quello nel quale meglio trovano applicazione, in modo formalizzato, il concetto di rispondere delle proprie azioni e di portare il peso delle loro conseguenze, fornendo ragioni e motivi che possono valere come giustificazioni, scusanti e attenuanti, così come quello di avere precisi obblighi derivanti sia dall’essere una persona sottoposta alle norme vigenti nello spazio giuridico sia dall’essere l’occupante di un ruolo particolare nella società (genitore, medico, pubblico ufficiale)1. Per un altro verso, tuttavia, la responsabilità per come è indagata da un gruppo di discipline tra loro confinanti (che oltre alla filosofia in varie sue branche oggi comprende anche la genetica e le neuroscienze cognitive) ha uno spettro di significati e di interpretazioni che il diritto codificato non può accettare nei suoi confini.
La tensione nasce proprio dalla diversità degli approcci, tanto che si comincia a parlare di neurodiritto per esprimere sia le possibili ricadute sull’amministrazione della giustizia sia addirittura una rifondazione dei codici in base alle nuove conoscenze circa il funzionamento dell’essere umano (Zeki e Goodenough, 2004; Picozza et al., 2011; Lavazza e Sammicheli, 2012; Nadelhoffer, 2013). E la responsabilità è uno dei punti di maggiore torsione, in quanto si aprono rilevanti questioni intorno all’idea stessa di essere responsabili di ciò che si è, di ciò che si è fatto e di ciò che si è omesso.
Un modo per cominciare a inquadrare un ambito dall’estensione e dalle implicazioni talmente vaste che qui sarà possibile affrontare soltanto alcuni suoi aspetti è quello di tracciare una distinzione tra questioni interne e questioni esterne al sistema della responsabilità (cfr. Waller, 2011). In altre parole, anche per il diritto in quanto adotta una concezione dell’essere responsabile davanti alla legge sorgono quesiti interpretativi e fattuali che non minacciano però gli assunti di fondo. Per esempio, ci si può chiedere: chi è capace di intendere e volere? (la domanda centrale, come vedremo); qual è la maggiore età da considerare per irrogare sanzioni penali? (che è cambiata nel tempo, secondo considerazioni sociali e scientifiche); quali circostanze o condizioni legittimamente esentano o riducono la responsabilità penale? (domanda che coinvolge elementi concettuali, di dottrina e fattuali); quali criteri si devono adottare nello stabilire l’infermità mentale? (una scelta che va a lambire le fondamenta del diritto, perché è suscettibile di restringere o allargare in modo considerevole le maglie dell’imputabilità); la dipendenza dalla droga distrugge la responsabilità? (una valutazione doppia, perché implica di decidere sia sulla scelta di assumere una sostanza psicoattiva sia di giudicare il controllo che si aveva sulle azioni compiute sotto l’effetto della droga).
Tutto ciò, tuttavia, sta dentro il sistema della responsabilità che il diritto ha codificato, può semmai costituire le eccezioni a una sistematizzazione complessa e raffinata, che evolve nel tempo anche in funzione di nuove sensibilità sociali e di nuove acquisizioni mediche e scientifiche. La questione esterna, invece, interroga radicalmente l’intero impianto giuridico, chiedendo se è mai moralmente giustificato ritenere qualcuno responsabile di alcunché. Si tratta di un’interrogazione radicale sulla sostenibilità del sistema complessivo a un esame basato su criteri posti al di fuori di esso.
Tali criteri si richiamano ad argomenti concettuali e dati empirici che, in primo luogo, conducono a varie forme di determinismo, le quali, in congiunzione con l’argomento che la libertà è incompatibile con il determinismo, fanno venire meno la possibilità di essere responsabili di un corso di azione, dato che classicamente il concetto di responsabilità assunto dal diritto presuppone il libero arbitrio. Senza che un individuo agente potesse fare altrimenti, senza cioè che fosse a lui disponibile l’opzione, variamente qualificabile, di astenersi dalla condotta in questione o di intraprenderne una diversa che portasse a un esito comunque differente da quello che costituisce per la legge il fatto-reato, non ha senso attribuire la “colpa” dell’azione al soggetto, benché egli ne sia effettivamente la “causa materiale”. Infatti, quel corso d’azione (e anche l’intenzione che lo ha mosso2) era l’unico accessibile all’agente (in ogni senso di accessibile, sia metafisico sia empirico, come richiede la considerazione completa del libero arbitrio).
Tale idea è da tempo chiara ai legislatori ed è incorporata nei codici, per esempio nella forma della coercizione che esenta dall’imputazione: come nel caso dell’impiegato costretto, sotto la minaccia attuale delle armi, ad aprire al rapinatore la cassaforte della banca. Il punto è che, vero il determinismo cerebrale nella forma di reazioni automatiche al di fuori del controllo cosciente, tutte le situazioni di reato potrebbero rientrare in quelle che attualmente fanno venire meno la responsabilità penale dell’imputato (Greene e Cohen, 2004).
Come è stato riassunto (sebbene in modo assai semplificatorio e non immune da obiezioni, se non con notevoli specificazioni) (Cashmore, 2010),
siamo forze meccaniche della natura [che] hanno fatto evolvere il fenomeno della coscienza, che ci dà l’illusione della responsabilità. […] è tempo che il diritto faccia i conti con questa realtà […]. La realtà è che non solo non abbiamo più libertà di una mosca o di un batterio, in effetti non abbiamo più libertà di una zuccheriera.
In secondo luogo, anche non considerando la questione del determinismo, ciò che insidia fortemente gli assunti di base del diritto è l’idea che il mentalismo forte presupposto dai codici sia in realtà un frutto di intuizioni superficiali e un costrutto della cosiddetta psicologia ingenua. In altre parole, il familiare concetto di soggetto agente unitario, razionale e consapevole, mosso in gran parte da motivazioni esplicitamente ponderate, non risponderebbe, forse quasi per nulla, al nostro funzionamento cognitivo per come emerge dallo studio scientifico della mente (Marraffa e Paternoster, 2013).
Da una parte, esperimenti di psicologia empirica mostrano la sensibilità agli stimoli ambientali e l’effetto di automatismi innati o appresi sul nostro comportamento a un livello che sfugge sia al controllo durante l’azione sia alla consapevolezza in un momento successivo. In questo senso, sarebbero le nostre narrazioni a garantire la continuità e la “forza” del soggetto, mentre una scienza della mente ormai superata avrebbe cristallizzato e reso “sostanziali” quei concetti che le narrazioni hanno contribuito a costruire nell’interazione tra individui. Dall’altra parte, lo studio delle basi cerebrali indica che la modularità che compartimenta a livello subpersonale i meccanismi emotivi e cognitivi fornisce una spiegazione diversa, e per molti versi incompatibile, rispetto a quella mentalistica, la quale riporta i moventi del comportamento a credenze, desideri e intenzioni. Quest’ultima concezione psicologica è proprio quella che soggiace al diritto e lo guida nelle sue attribuzioni di responsabilità. La sua messa in discussione, pertanto, costituisce una sfida all’impianto complessivo dei sistemi giuridici.
In terzo luogo, altri argomenti, proposti in congiunzione e/o in modo indipendente rispetto ai primi, affermano l’impossibilità di giustificare dal punto di vista metaetico la concezione retributivista della pena, secondo la quale chi viola una norma merita una sanzione per ciò che di male ha compiuto. Va precisato che non è qui in discussione se qualcuno che ha infranto una norma compiendo un reato e/o una violazione morale possa qualche volta non meritare la pena/sanzione poiché, per esempio, era in preda a un attacco di epilessia. Saremmo ancora nel dominio delle questioni interne al diritto. Chi contesta il retributivismo nega che sia lecito infliggere del male a qualcuno (questa è la natura della pena, sia una multa o un periodo di detenzione) per qualcosa che l’agente in questione ha compiuto, posto appunto che non esiste modo di attribuirgli una responsabilità morale del fatto.
Prevale in questo contesto un’istanza morale e umanitaria, che fa prevalere il rifiuto della punizione per sé, considerata un retaggio della vendetta propriamente intesa, a favore delle concezioni consequenzialistica e riparativa della giustizia, le quali non escludono completamente le sanzioni, ma le propongono e le giustificano su altre basi. Precisamente, per i consequenzialisti l’obiettivo sono la deterrenza del crimine, la protezione sociale e la riabilitazione del reo, mentre i sostenitori del secondo approccio puntano a ristabilire l’armonia della comunità con la compensazione del danno da parte del colpevole.
Basta qui solo brevemente ricordare, come si evidenzierà meglio in seguito, che i libertari (chi afferma cioè che gli esseri umani godono in genere del libero arbitrio, pur con rilevanti eccezioni) e i compatibilisti (chi afferma che, seppur vero il determinismo in qualche sua forma, continuiamo a disporre di un tipo di libertà e di un tipo di responsabilità per la maggior parte dei casi non in conflitto con i presupposti generali della legge positiva) non sollevano la questione esterna sul diritto, sebbene possano avere diverse risposte alle questioni interne. Non si può infine dimenticare che l’enfasi sul ruolo della sorte nelle vicende umane può condurre sia a introdurre nuovi questioni interne al diritto sia – nell’assunzione forte che la fortuna, compresa quella costitutiva che riguarda il carattere delle persone, svolga una parte preponderante in tutte le vicende umane – a sollevare la questione esterna sulla giustificabilità morale di molti istituti del diritto penale.

Le categorie del diritto sulla responsabilità

Nelle forme più antiche di codificazione giuridica, a differenza di quanto avviene oggi, aveva rilevanza soltanto la responsabilità materiale, legata al nesso di causalità fisica. Già il diritto romano si era parzialmente svincolato da questa semplicistica interpretazione della responsabilità degli esseri umani riguardo alle proprie azioni, introducendo l’elemento della voluntas nocendi, esplicitamente recepito nel Codice Giustinianeo (534 d.C.). Nella common law britannica, tuttavia, fino al tredicesimo secolo, per conferire lo status di soggetto responsabile contava unicamente il fatto compiuto, e nessun’altra considerazione, né esimente né aggravante, trovava spazio (Eigen, 2004). L’elemento soggettivo del nostro diritto – la mens rea di quello anglosassone – costituisce attualmente uno dei cardini dell’attribuzione di colpa, sebbene sia sempre bene precisare che tenere conto della componente psicologica del comportamento non significa che, in linea di principio, vengano punite le persone, bensì oggetto di giudizio e sanzione sono gli atti commessi oppure omessi in violazione delle proibizioni o delle prescrizioni dei codici. È invece il cosiddetto diritto penale della personalità (tipicamente, la scuola positiva lombrosiana) a punire direttamente l’individuo deviante, in quanto si ritiene che la sua condotta discenda in modo diretto da come egli è fatto e, dunque, chi commette un delitto va ritenuto in sé pericoloso.
Non sembri fuori luogo un richiamo a Cesare Lombroso, giacché la sua idea dell’uomo delinquente come determinato al crimine dalla sua costituzione fisica – una volta depurata delle scorie razzistiche e discriminatorie, nonché degli obiettivi errori scientifici – può essere considerata la vera antesignana del neurodiritto incompatibilistico, per il quale non ha senso (oltre ad essere ingiusto) punire qualcuno per ciò che ha compiuto, poiché non avrebbe potuto che tenere quel comportamento stante le determinazioni cui era sottoposto.
Il determinismo di cui si discute attualmente è quello genetico-cerebrale, cioè l’insieme del progetto biologico-informazionale (DNA) il quale, in interazione con l’ambiente in uno schema evolutivo darwiniano, guida lo sviluppo fisico e gli orientamenti comportamentali di ciascun membro della specie umana insieme con l’architettura e il funzionamento elettrochimico del cervello, i quali presiedono al carattere, al temperamento e alle singole scelte. Non è questa la sede per una discussione di questo vastissimo capitolo delle scienze neurocognitive. Il punto chiave è che l’aumento delle conoscenze in un ambito fino a pochi decenni fa precluso alla ricerca per limiti tecnici permette di affermare che – seppure non si voglia sostenere che non scegliamo i nostri atti nel modo in cui di solito ci figuriamo – chi commette un certo tipo di reati, per esempio quelli gravi contro la persona, con buona probabilità avrà qualche scostamento dalla media della popolazione nei suoi geni o nel suo cervello. Questo poiché i comportamenti sono guidati da geni e cervello e la maggior parte degli individui non commette gravi reati contro la persona. Ciò non significa di per sé determinismo in senso proprio ma, quando robustamente accertato, per il diritto costituirebbe comunque un elemento rilevante.
Una delle premesse del diritto è però fare rientrare nella sua competenza sanzionatoria soltanto l’azione cosciente e volontaria, per cui la mente dell’imputato deve essere presente, rimproverabile e sana, con un impianto implicitamente libertario, che non considera l’assetto fisico-cerebrale se non nei casi di frontiera. In primo luogo, dunque, nel diritto italiano ha spazio la suitas, l’esserci della mente nell’azione (Lavazza e Sammicheli, 2012, cap. 2). Viene poi l’imputabilità, cioè l’essere la mente normale, come recita l’articolo 42, comma 1, del codice penale: «Nessuno può essere punito dalla legge per un’azione o un’omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà».
L’azione umana è pertanto caratterizzata dall’elemento volitivo, che, a sua volta, presuppone la coscienza e la padronanza dei propri atti, ovvero l’implicito concetto di agentività, oggi definito ingenuo dalle scienze cognitive, in quanto frutto di intuizioni comuni ma non per questo robuste e in parte già smentite dalla ricerca psicologica empirica. In caso contrario, vi è mancanza di nesso psichico, che rientra nelle cause soggettive di esclusione del reato. Tre grandi categorie di circostanze eliminano il nesso psichico: l’incoscienza indipendente dalla volontà; la forza maggiore; e il costringimento fisico. In queste situazioni, chi ha commesso il fatto-reato è dichiarato non responsabile e non punibile. Se la forza maggiore e il costringimento fisico risultano chiari (la volontà è annullata da forze esterne, naturali o umane), nel primo caso il comportamento è sganciato dalla soggettività, come accade nel delirio, nell’ipnosi o nel sonnambulismo (che non si possono prevenire). Ma non si tratta di infermità di mente, perché sono situazioni diverse da alterazioni di quella specie. Il diritto quindi, in assenza di suitas, non prevede né pena né misura di sicurezza, poiché si è di fronte a comportamenti non abituali o sporadici, che non indicano la pericolosità dell’individuo.
Sebbene nel concreto del processo penale avvenga l’inverso, logicamente prima verrebbe la colpevolezza, che riguarda la relazione causale con il fatto-reato, poi andrebbe considerata la suitas, cioè se il comportamento in questione sia umano. E per il diritto fatti umani sono unicamente quelli caratterizzati dall’intenzionalità in senso classico. L’essere sotto l’effetto di una stimolazione magnetica transcranica che ci “costringe” a dare un pugno allo sperimentatore equivale alla coercizione della mente da parte di fattori fisici interni. Come si vede, sembrano in questo modo incorporati nelle categorie giuridiche anche retaggi dualistici, che vedono la soggettività mentale “sganciata” se non “contrapposta” al funzionamento cerebrale.
È lecito allora chiedersi se il tumore che preme su alcune zone cerebrali possa equipararsi all’effetto della stimolazione magnetica transcranica e, dunque, se, ipoteticamente, il pedofilo descritto in precedenza sia addirittura privo del nesso psichico con il proprio comportamento. L’idea è che con una certa concezione deterministica dell’essere umano la suitas possa non darsi in generale (ma se manca l’elemento psicologico, sul piano della responsabilità l’uomo è assimilato ad ogni altro essere vivente e, persino, agli artefatti); oppure che la suitas possa venire revocata in specifiche occasioni, legate agli accertamenti fattuali che la scienza rende sempre più precisi e affidabili.
La colpevolezza riguarda, come detto, il rapporto tra il fatto materiale (illecito nel senso oggettivo di contrario all’ordinamento vigente) e l’atteggiamento psicologico dell’imputato, in quanto espressione della sua volontà rimproverabile. L’elemento psicologico viene distinto in doloso, colposo e preterintenzionale. Nell’istituto della colpevolezza è incorporata la presenza della libertà dell’agente. Vale a dire (Fiandaca e Musco, 1995, p. 267):
Si muove […] dal presupposto che, a differenza degli animali, i quali seguono schemi di comportamento rigidamente programmati dai meccanismi istintuali, l’uomo sia in grado, grazie ai suoi poteri di signoria (i c.d. strati superiori della personalità) di controllare gli istinti e di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione: I tanti volti della responsabilità di Andrea Lavazza
  3. Parte I I problemi della responsabilità
  4. Parte II Scienza e responsabilità
  5. Parte III Contro la responsabilità
  6. Parte IV In difesa della responsabilità
  7. Parte V Diritto e responsabilità
  8. Bibliografia
  9. Gli autori