La logica aperta della mente
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La logica aperta della mente

  1. 303 pagine
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La logica aperta della mente

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L'attuale fase delle neuroscienze ripropone la domanda di una visione unitaria della mente all'interno della quale poter collocare i molti tasselli di un puzzle che appare sempre più complicato. Quali sono le relazioni tra mente e cervello, e tra mente e mondo fisico? Che tipo di informazione entra in gioco nei processi cognitivi? È possibile una teoria matematica della coscienza? Ognuno dei modelli finora proposti, quelli logico-simbolici dell'intelligenza artificiale, le reti neurali e i sistemi dinamici, cattura solo una piccola parte del problema. Questa irriducibilità è ben nota a chi si occupa di processi emergenti nei sistemi complessi, in cui le relazioni tra sistema e ambiente si modificano continuamente e producono nuove regole e comportamenti. Una teoria generale dei processi cognitivi deve essere dunque intesa come una scala di complessità in grado di abbracciare sia il computer sia gli aspetti biologici della cognizione all'interno di una visione unitaria che colga l'aspetto essenziale: che la logica della mente è aperta, non si limita a elaborare risposte a problemi predefiniti ma progetta di continuo nuovi "giochi".

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788875782108
Capitolo 1
Un’idea della mente
What’s mind? No matter! What’s matter? No mind! Nonna di Bertrand Russell1
Il diamante della conoscenza.
Una riflessione sui processi di produzione scientifica
Se proviamo a immaginare ogni area della ricerca scientifica come un territorio in continua espansione attraverso un accrescimento frattale dei confini delle proprie conoscenze, è facile comprendere che i problemi più fecondi nascono spesso dal crossing interdisciplinare tra fronti d’onda che provengono da scienze diverse.
In queste aree di intersezione comincia a svilupparsi un continuo scambio di concetti, metodi e strumenti che progressivamente prende l’aspetto di una nuova disciplina, non banalmente riconducibile alla somma delle conoscenze e dei problemi che storicamente l’hanno generata, ma che mostra caratteristiche peculiari, nuove dinamiche concettuali e originali campi d’applicazione.
Un esempio classico è la biologia molecolare, che ha richiesto un paio di generazioni perché la figura “tradizionale” del fisico e quella del biologo si fondessero in un nuovo profilo scientifico. A volte accade che l’incontro tra due discipline si riveli interessante, in modo piuttosto imprevedibile, per una terza; è il caso della collaborazione tra matematici e teorici della biologia che ha prodotto idee fondamentali per gli economisti e per gli studiosi della vita artificiale (Artificial Life).
È in questi territori di frontiera che nasce l’esigenza di una nuova epistemologia della complessità, per rimettere in discussione non soltanto le modalità di scambio e di creazione degli strumenti concettuali necessari per definire un nuovo problema, ma anche i rapporti e l’assetto interno delle discipline, troppo spesso imprigionate in schemi storici istituzionalizzati, riflesso di barriere e insofferenze intellettuali che tendono a fossilizzare l’attività scientifica entro le solide paratie dei paradigmi dominanti.
Tra le sfide interdisciplinari quella offerta dal problema della conoscenza è sicuramente la più complessa e ambiziosa, perché chiama in gioco l’intera tradizione filosofica e le acquisizioni più recenti della ricerca. Il nostro scopo è quello di offrire uno scenario nuovo per vecchie – e talora vecchissime! – questioni, cercando di evitare le trappole in cui sembrano essersi arenati altri approcci e provando a guardare la questione dei rapporti tra la mente e il mondo evitando alcuni pregiudizi che con il tempo si sono cristallizzati in posizioni e cesure che hanno limitato il modo stesso di porre il problema e sono così radicate da apparire ormai quasi naturali.
Il dibattito filosofico, a partire soprattutto dall’epoca moderna, ha messo l’accento sulle differenze tra mente e materia, facendo oscillare il problema della conoscenza tra un’anima platonica, che ha preso le forme del razionalismo e dell’idealismo, e un’anima aristotelica, che si è incarnata nelle diverse accezioni, più o meno radicali, dell’empirismo. Nel gruppo platonico rientrano le teorie che hanno dato alla mente un ruolo essenziale nell’ordinare il mondo tramite l’uso di idee, concetti e categorie, sfiorando le soglie estreme del soggettivismo. Le teorie di ispirazione aristotelica hanno invece esaminato l’impronta che i dati sen soriali di un mondo “oggettivo” esercitano nel dare forma alla co no scenza, arrivando nelle posizioni più radicali a sciogliere la mente dentro la materia. La nostra prospettiva sarà quella del costruttivismo, che considera il rapporto tra osservatore e osservato inscindibilmente bi po lare e complesso, generatore di conoscenza, e prende in conside razione i rischi epistemici di ogni tentativo che provi a risolvere questo rapporto in modo univoco, mettendo tra parentesi l’osservatore (oggettivismo) o l’osservato (approccio monodisciplinare).
Con lo sviluppo della scienza moderna il problema della conoscenza si è in larga misura concentrato sui temi della struttura della spiegazione scientifica, chiarendo molti punti cruciali ma rimanendo fondamentalmente un dibattito esterno ai procedimenti scientifici. Questo ha assicurato all’epistemologia una funzione critica autenticamente sopra le parti e “metascientifica”, ma a prezzo di perdere la possibilità di descrivere la stessa produzione di conoscenza scientifica come scienza, una prospettiva che qui indicheremo come epistemologia formale. Una disciplina di questo tipo è necessaria per ancorare il problema della conoscenza alle nuove prospettive sulla mente, che derivano ad esempio dall’impetuoso sviluppo delle neuroscienze, e alle esigenze teoriche che provengono da direzioni nuove della fisica dell’emergenza.
Un pregiudizio comune all’epistemologia tradizionale e alle neuroscienze – soprattutto dopo il fallimento delle ambizioni dell’intelligenza artificiale –, consiste nel considerare superfluo il formalismo matematico per lo studio della conoscenza. Nel caso dell’epistemologia infatti il ruolo della matematica è stato limitato all’uso della logica per formalizzare le relazioni tra costrutti teorici, mentre la posizione più diffusa nelle neuroscienze è che l’utilità dei modelli matematici è limitata allo studio dei rapporti quantitativi tra specifiche grandezze neurofisiologiche, e che ogni teoria generale dei processi cognitivi è resa inutile dallo sviluppo delle procedure sperimentali che permettono di “vedere il cervello”. In entrambi i casi il “sasso nella scarpa” è la complessità in gioco. Per i filosofi l’analisi della conoscenza comprende troppi livelli perché possa essere catturata da una teoria formale, mentre per i neuroscienziati è la complessità stessa del cervello che rende poco utile il livello d’astrazione tipico della matematica nello studio della cognizione. In sintesi, la possibilità di una teoria matematica generale della mente suona limitata per gli epistemologi e troppo astratta per i biologi.
Cercheremo qui di convincere il lettore che un’epistemologia formale è non soltanto possibile ma soprattutto utile. Gli stumenti che utilizzeremo sono quelli della nuova fisica dell’emergenza e lo scenario a cui approderemo, quello della teoria dell’apertura logica, si mostrerà proprio un approccio ai tipici livelli di complessità del problema della conoscenza.
Le speranze e le promesse delle scienze cognitive possono essere discusse partendo da uno schema dei rapporti di interazione tra un gruppo di discipline, apparso nel primo numero della rivista “Cognitive Science” (1978):
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Ognuna delle discipline ai vertici di questo “diamante” ha contribuito in modo decisivo a formare una nuova visione della cognizione, pro iettando nello sviluppo delle ricerche sulla mente il proprio baga glio di conoscenze storiche, i modelli e gli stili di ricerca, ma con essi anche tendenze egemoniche e rischi epistemologici. Questo gioco di tensioni tra polarità disciplinari può essere considerato un elemento caratteristico di ogni ricerca, e si ripropone anche all’interno di ogni singola scienza con il dibattito tra impostazioni teoriche diverse. Pensiamo ad esempio alle diverse teorie del tutto che si contendono la cosiddetta “visione ultima” della fisica teorica.
Cominciamo la nostra ricognizione esaminando l’esagono della figura 1, e mettiamo in evidenza il gioco di influenze reciproche tra le varie discipline. In questo modo avremo la possibilità di individuare le caratteristiche essenziali della scienza della cognizione, i suoi paradigmi nascosti, i punti deboli e i ri-assestamenti tellurici nel dialogo tra i vari stili di ricerca che hanno assicurato il patto concettuale tra le scienze in interazione e la necessità di approcci teorici radicalmente nuovi.
Il problema generale dei rapporti tra scienze diverse è intrecciato con la questione del riduzionismo, la ricerca di un livello esplicativo “ultimo” a cui ricondurre l’intero corpus delle conoscenze. La tentazione riduzionista ha avuto molte espressioni nella storia della scienza, dall’idea dei “costituenti elementari” a quella, più sofisticata, di una sintassi unica all’interno della quale poter esprimere il contenuto di ogni singola scienza. In entrambi i casi l’idea è quella di poter ottenere una descrizione finale della natura sotto forma di una catena di teorie, tutte connesse strutturalmente una con l’altra e dove ogni livello descrittivo è ricavabile da un altro attraverso una serie di procedure formali e opportune leggi ponte. È evidente che una teoria del tutto così intesa risolve ogni “complessità” interpretandola come “complicazione”. Ad esempio le leggi del moto di Newton descrivono gli aspetti di ogni dinamica che può cadere sotto i nostri occhi; nondimeno la caduta di una foglia può essere resa quasi impredicibile per le condizioni in cui si manifesta, come l’azione del vento. Vedremo che il ruolo della complessità non è riconducibile a mere considerazioni di contingenza, e riguarda piuttosto gli aspetti strutturali del rapporto tra l’osservatore e il mondo. Ogni disciplina scientifica può essere considerata un livello descrittivo, un “punto di vista” su un certo ambito di fenomeni, e dunque il rapporto tra due aree di ricerca non è mai centrato soltanto sui “fatti del mondo”, ma sulle strategie cognitive che guidano gli scienziati quando affrontano un problema. Ogni problema richiede uno specifico approccio epistemologico, proprio come certe specie animali abitano nicchie ecologiche e non sopravvivono al di fuori. Comprendiamo così che le forme di riduzionismo più forti si accompagnano sempre a un’ipotesi “oggettivista” ingenua. È vero che il mondo è lì fuori – altrimenti la conoscenza non sarebbe neppure possibile –, ed è vero, in larga misura, che il linguaggio della natura è matematico, ma siamo noi a parlare questo linguaggio, costruendo modelli mirati alla comprensione dei fenomeni. Bisogna essere pronti ad abbandonare con il riduzionismo l’idea ingenua di un livello descrittivo ultimo e onnisciente che suppone di poter individuare una sorta di “codice macchina” nella trama del mondo. Nondimeno, il problema del rapporto tra discipline si ripropone puntualmente all’incrocio interdisciplinare di nuovi problemi e prende la forma di un gioco di tensioni egemoniche che del riduzionismo sono la premessa.
Non bisogna dimenticare che la Natura è una, e ogni scienza rappresenta un livello descrittivo, un punto di vista su un certo ambito di fenomeni. Nasce allora il problema che ha accompagnato il pensiero scientifico in tutto il suo sviluppo, e che si ripresenta puntualmente all’incrocio interdisciplinare di nuovi problemi: quando e come un livello descrittivo può essere ricondotto ad un altro, in un’ideale catena di teorie contenute una dentro l’altra come matrioske?
La mediazione della filosofia e la questione del riduzionismo
La filosofia può essere giustamente considerata il vertice superiore del diamante per via del suo bagaglio storico e per il rapporto di dipendenza concettuale che, direttamente o indirettamente, le altre discipline hanno ereditato dalla storia delle idee, spesso in modo non esplicito. Senza voler passare in rassegna i numerosissimi “ismi” che hanno caratterizzato la concezione della sfera mentale tra i filosofi, è utile osservare che il dibattito filosofico moderno – dal Seicento fino ad oggi – è stato ampiamente centrato sull’interpretazione delle teorie scientifiche in rapporto alla loro “capacità” potenziale di accogliere la mente o di escluderla. La filosofia ha avuto ed ha il ruolo di mediatore critico tra le conoscenze scientifiche sulla res extensa e le esigenze di una scienza della res cogitans di cartesiana memoria.
Man mano che le conoscenze sulla materia si sono accumulate ed integrate in una visione sempre più articolata e complessa, le richieste dei filosofi si sono fatte sempre più sottili ed esigenti, influenzate forse da un “assioma nascosto”, quello dell’irriducibilità della mente alla materia, che nelle sue forme più recenti ha preso la forma dell’hard problem della coscienza. Questa irriducibilità può essere considerata l’espressione di un pregiudizio antico, ma al termine non va data una connotazione necessariamente negativa. Non bisogna mai dimenticare che la scienza è un’impresa umana ed è guidata anche dalle convinzioni non-scientifiche degli scienziati. Del resto, è stato proprio questo pregiudizio che spesso ha stimolato posizioni critiche e feconde nei confronti di linee d’attacco al problema della mente fin troppo seducenti e facili. Un esempio recente ma storicamente ormai ben definito, sul quale torneremo in seguito, è la “critica alla ragione artificiale” (Dreyfus) fatta al paradigma della mente-macchina.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, l’idea di una visione “meccanica” della mente è molto più antica delle raffinate teorizzazioni dell’intelligenza artificiale e risale ai primordi della scienza moderna. Il meccanicismo newtoniano, con la sua descrizione del mondo fatta di punti materiali e forze, non esprime di per sé una filosofia della mente. Se si vuole farlo è necessario fornirne una lettura in grado di rifiutare o accogliere il mentale. Ma a questo punto sono praticabili due vie di approccio: da una parte possiamo leggere la mente come un macchina deterministica, in perfetto accordo con un universo di interazioni meccaniche regolate dalle leggi di Newton, dall’altra si può sostenere in modo ugualmente legittimo che la mente non trova posto in una visione puramente meccanica dell’universo.
Sulla prima posizione va collocato Thomas Hobbes, l’autore del Leviatano, che è infatti considerato uno dei precursori dell’intelligenza artificiale, con le leggi evolutive dei sistemi newtoniani al posto dei moderni programmi che “girano” sui computer. Non è un caso del resto che il teorizzatore di una visione politica basata sulle forze cieche che plasmano le dinamiche sociali si trovi perfettamente a suo agio nel collocare la mente all’interno di questo gioco deterministico di azioni e reazioni. Descartes invece ha una posizione più complessa e decisamente scomoda. Per connettere il fisico al mentale, senza rinunciare alle “qualità” ben distinte delle due sfere, è costretto ad ipotizzare un organo di connessione tra i due, che il filosofo francese individuò nel conarium, la ghiandola pineale, in modo inevitabilmente piuttosto oscuro.
La posizione di Descartes è resa problematica dall’introduzione di una nuova ipotesi imbarazzante sia per la mente che per la materia, ma anche l’approccio di Hobbes nasconde dietro la sua apparente semplicità difficoltà enormi. Se la mente infatti è soltanto un insieme di particelle materiali allora ad essa può essere applicata la famosa ipotesi del demone di Laplace (1776):
Lo stato attuale del sistema della Natura consegue evidentemente da quello che era all’istante precedente, e se noi immaginiamo una Intelligenza che ad un istante dato comprendesse tutte le relazioni tra le entità di questo Universo, essa potrebbe conoscere le rispettive posizioni, i moti e le disposizioni generali di tutte quelle entità in qualunque istante del passato e del futuro.
L’uso delle maiuscole per l’intelligenza ipotizzata da Laplace, che com’è noto aveva una scarsissima disponibilità ad adottare qualunque ipotesi metafisica, è l’espressione di quello che oggi chiameremmo “esperimento mentale”. Non è possibile, in pratica, tener conto di tutte le relazioni in gioco, ma in linea di principio ogni pezzo dell’universo, mente compresa, potrebbe essere spiegato utilizzando un pugno di leggi essenziali sulle forze meccaniche e deterministiche che modellano il mondo. Ogni irriducibilità della mente alla materia, ogni imprevedibilità è dunque soltanto l’espressione di una difficoltà pratica e non richiede per Laplace, e i suoi eredi contemporanei, alcuna ipotesi aggiuntiva. Tutto il dibattito tra il Seicento e il Settecento è un continuo oscillare tra accettazione e rifiuto del materialismo, con un certo numero di posizioni intermedie.
Una rivoluzione copernicana, vera antesignana della moderna scienza cognitiva, fu l’idea di Kant di assegnare alle categorie mentali il ruolo di “strutture organizzative” delle nostre percezioni, operando così una sintesi tra empirismo e razionalismo “puri” e dando alla mente un ruolo centrale nella descrizione del mondo. Anche così Kant non sfugge del tutto al problema mente-materia, ma ne ridefinisce i confini concettuali. Se materia, spazio e tempo sono il nostro modo di percepire il mondo tramite i “canali” delle categorie mentali, è pur vero che per evitare l’idealismo – e dunque il rischio di una rinuncia alla possibilità di una descrizione scientifica della mente –, è necessario ammettere l’esistenza di un mondo esterno di cui la mente dà una rappresentazione fenomenica perché nel mondo è radicata. Non dimentichiamo che tra il Settecento e gli inizi dell’Ottocento questo radicamento comincia ad essere indagato sperimentalmente, e grazie ai geniali lavori di Albrecht von Haller e soprattutto di Franz Joseph Gall, si iniziano a ipotizzare correlazioni tra facoltà cognitive e aree del cervello. Infine, dal punto di vista evolutivo, la critica che si può muovere al sistema di Kant è che non spiega come si sia formato il sistema della categorie. Si ripropone dunque, seppur in modo più articolato, il problema dei rapporti tra le cose che sono nella testa e quelle che sono nel mondo.
Anche oggi, pur non essendo più la fisica né materialista o strettamente determinista e meccanica nel senso di Newton, ritroviamo nel dibattito contemporaneo un’eco delle posizioni brevemente esaminate. Ad esempio Roger Penrose e Stuart Hameroff ritengono che i problemi più radicali posti da una teoria della mente richiedano l’introduzione di principi fisici nuovi correlati alle questioni di frontiera della gravità quantistica, mentre Stephen Hawking si dichiara “riduzionista spudorato” e sostiene che le attuali conoscenze sulla materia siano perfettamente in grado, in linea di principio, di fornire una base esplicativa per i processi mentali.
Arriviamo così a quella che potremmo definire la domanda ineludibile del dibattito sulla mente, e cioè: qual è la relazione tra mente e materia? È possibile individuare, in modo piuttosto brutale e sintetico, tre posizioni essenziali:
m1. La mente non esiste come entità concettualmente distinta ed in particolare non necessita di alcun livello descrittivo distinto da quello della materia;
m2. Ogni livello descrittivo degli stati mentali ha una funzione meramente pratica ma è sempre riconducibile alle leggi ordinarie note della materia;
m3. La mente è correlata agli stati materiali ma richiede un livello descrittivo autonomo e non riducibile alle leggi materiali.
Queste posizioni rispecchiano quelle che il biologo Francisco Ayala ha individuato come le tre forme di riduzionismo:
Riduzionismo ontologico o costitutivo, che riguarda la sostanza del mondo ai livelli più elementari. Secondo il riduzionismo ontologico è possibile individuare dei “mattoni del mondo” sui quali è idealmente collocata ogni “spiegazione ultima”. Questa è la tipica posizione che ha spesso accompagnato la ricerca sulle cosiddette “particelle elementari”.
Riduzionismo epistemico, che sostiene la necessità di ricondurre i concetti e le leggi di un livello ad un altro identificato come “fondamentale”. Il riduzionismo epistemico mette in pratica ciò che è suggerito da quello costitutivo: se esiste un livello fondamentale allora ogni spiegazione deve far riferimento a quel livello. È questo il caso dei rapporti stilizzati tra fisica e chimica. Dico “stilizzati” non soltanto per non urtare la suscettibilità dei chimici con una frase fin troppo abusata (“la chimica non è altro che l’equazione di Schrödinger più le condizioni al contorno”), ma perché effettivamente a nessuno potrebbe venire in mente di descrivere una reazione chimica in termini di quark e leptoni. Il riduzionismo epistemico “sensato” non esclude l’utilità di un livello descrittivo intermedio, ma nega la sua autonomia concettuale e lo giustifica soltanto come una forma pratica di “usabilità”.
Riduzionismo metodologico, che s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prefazione
  3. Capitolo 1 Un’idea della mente
  4. Capitolo 2 La costruzione matematica del mondo
  5. Capitolo 3 La mente, la macchina e la matematica. Una prospettiva storica
  6. Capitolo 4 I teoremi di Gödel, la macchina di Turing e la mente
  7. Capitolo 5 Trasparenza semantica, microcognizione e informazione
  8. Capitolo 6 Computazione naturale nei sistemi fisici e biologici
  9. Capitolo 7 Emergenza e apertura logica
  10. Capitolo 8 Quantum brain
  11. Capitolo 9 La musica della mente
  12. Epilogo
  13. Percorsi di lettura