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Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l'Italia

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Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l'Italia

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La ricerca scientifica non è un lusso culturale, ma la più concreta opzione per dare un futuro al Paese e alle nuove generazioni, e per far tornare una parte del fiume di giovani che abbiamo formato in Italia e che possono lavorare solo all'estero. Genera occupazione qualificata, sviluppo imprenditoriale, innovazione di prodotto, ma serve anche alla sicurezza nazionale, alla tutela del territorio e dei beni culturali. Intorno si fanno strada l'antiscienza e la nostalgia di un passato durissimo che in gran parte ignoriamo. Paghiamo il mancato rinnovamento vendendo le nostre aziende storiche. Eravamo i proprietari di piccoli ristoranti, poi ne siamo diventati i cuochi e ora semplici camerieri. Il metodo scientifico è il modo per risalire la china, per modernizzare il Paese, per compiere scelte non ideologiche in tutti i campi. Per premiare il merito e non il clan, per liberare energie e guidare il nostro futuro.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788875787608
Categoria
Sociologia

Capitolo 1

Un’opera strutturale

Monumenti

La coda dei visitatori intirizziti e rassegnati formava un interminabile serpente che sin dalle prime luci dell’alba si snodava sui marciapiedi, si attorcigliava sulle rampe d’accesso, intralciava l’uscita di negozi e condomini fino a inabissarsi nelle scale d’uscita della metropolitana. Dove la fila terminasse nessuno lo sapeva. Era così da mesi, ossia da quando a Las Vegas aveva aperto al pubblico il Pantheon: grazie a speciali piattaforme montate su ascensori i visitatori potevano raggiungere la volta della cupola, osservare la caduta della pioggia dall’oculo, il foro centrale, e interloquire con gli ologrammi degli antichi romani intenti nelle attività quotidiane dell’epoca, dal mercato alle abluzioni termali, dai banchetti agli esercizi nelle palestre dei gladiatori. La struttura era lussureggiante, nonostante gli oltre duemila anni di vita e otto mesi dopo il trasloco dalla (ex) Città Eterna alla Capitale dei sogni e del gioco nel Nevada.
Il Pantheon era stato scomposto in migliaia di pezzi numerati, mediante l’uso di droni su cui erano montati laser per il taglio dei rosoni, di ventose per catturare i singoli pezzi e di erogatori di vernici invisibili per incollare le polveri di pomici del taglio e numerare i pezzi e orientarli. La Basilica romana era diventata un mosaico di tessere in meno di una settimana. Uno sciame di droni aveva fatto la spola tra il rione Pigna di Roma e i container montati su camion pronti per imbarcarsi sugli aerei cargo alla volta di Las Vegas. Un ronzio discreto e ossessivo aveva accompagnato il lavoro dei droni-operai che trasportavano i “cassoni” della volta della cupola quasi fossero gigantesche api intente a trasportare nettare all’alveare. Stessa sorte era toccata prima al Colosseo (ora trasferito e ricomposto a Istanbul, la vecchia Costantinopoli capitale dell’impero romano d’Oriente), poi a piazza Navona (ora divenuta un cinodromo a Mosca); mentre l’Egitto aveva già preteso la restituzione di tutti gli obelischi e i reperti che adornavano le piazze romane e il Museo Egizio di Torino; e infine i diversi acquedotti romani, ricomposti in un unico scheletro, ora costeggiano un tratto della Grande Muraglia in Cina, fungendo da struttura di servizio (porta cavi, condutture, servizi).
Molti avevano temuto possibili proteste della popolazione italiana o romana, aspettandosi l’ostilità di comitati di cittadini, operatori turistici e archeologi a cui venivano sottratti i simboli della Roma imperiale. Invece nulla, non una parola, non un gesto. Tutta l’operazione era filata liscia come l’olio, in una città sonnolenta e distratta, rassegnata e indolente. Difficile spiegare come un simile saccheggio sia potuto accadere quasi con la complicità della popolazione che ha evitato gli spazi ingombri per i lavori, subito i relativi disagi alla circolazione e poi rapidamente rimarginato le ferite sul territorio lasciato ignudo, occupandolo con edicole di ambulanti, giocolieri di strada o parcheggi abusivi. La capitale d’Italia rinasceva con un’urbanistica estemporanea, che cercava nuovi usi del territorio liberatosi da tutto quel pesante carico di architettura, storia e cultura, quasi l’avesse oppressa e soggiogata per oltre due millenni.
Uno scenario da incubo? Un’ipotesi irrealistica? Chissà. Va ricordato che la Finlandia, al culmine delle tensioni tra l’Unione Europea e la Grecia, lasciò balenare l’idea di chiedere il Partenone come garanzia ipotecaria del prestito concesso ad Atene. Di certo l’idea di spogliarci dei tesori della nostra storia e della nostra cultura ripugna alla stragrande maggioranza degli italiani e forse (ripeto forse) saremmo addirittura pronti a difendere questo patrimonio e l’identità nazionale con la forza, pur di non vederceli sottratti. Eppure, noi, i nostri nuovi monumenti li abbiamo già svenduti senza battere ciglio.
Probabilmente, molti dei monumenti d’epoca romana che da secoli attraggono fiumi di visitatori in origine non furono pensati come attrazioni estetiche o turistiche. Gli archi di un acquedotto, soprattutto quando devono attraversare una gola e mantenere la quota, sono opere splendide da ammirare, altrettanto si può dire di varie catacombe. Forse lo stesso Colosseo era solo uno stadio e, per quanto imponente, difficilmente pensiamo a un nostro stadio di calcio come a un’opera destinata a vivere nei millenni e ad essere visitata da numerosissime persone che (come noi ora) non praticano più lo sport e non assistono più agli spettacoli. Così come noi non accorriamo a vedere gladiatori che affrontano bestie feroci o che si ammazzano tra loro, allo stesso modo i nostri discendenti non giocheranno più a calcio. Ma ogni epoca ha investito enormi quantità di risorse pubbliche per realizzare opere necessarie a quel momento storico, poi divenute simboli di quei tempi. Basti pensare alla rete delle strade romane, o degli acquedotti appunto, infrastrutture allora necessarie, utili, strategiche, per le quali ora affrontiamo lunghi viaggi per ammirarne la bellezza e immergerci nella nostra storia che trasuda da questi monumenti.
Ma oggi su cosa investono gli Stati? Quale grande opera destinata a durare nel tempo attrae e consuma grandi quantità di fondi pubblici (e privati)? Difficile in questo momento pensare a opere monumentali che lascino un segno indelebile. Eppure anche i governi dei paesi occidentali hanno costruito un’opera imponente che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Quest’opera si chiama ricerca scientifica.
La ricerca scientifica ha vissuto brevi periodi d’interesse da parte dei governi in corrispondenza delle grandi guerre, dove un salto tecnologico serviva a vincere drammatiche sfide da cui dipendeva la sopravvivenza dei popoli e dei governi. Basti ricordare, a ridosso del primo conflitto mondiale, i grandi sviluppi della chimica degli esplosivi e dell’aviazione, o quelli della fisica dell’atomo per merito della scuola italiana di Enrico Fermi di via Panisperna o dell’informatica per merito di Alan Turing in corrispondenza del secondo conflitto mondiale. Per confronto basti osservare come i 5 miliardi di euro spesi per allestire l’acceleratore di particelle di Ginevra (Large Hadron Collider, LHC) siano serviti per ora “solo” a poter validare la teoria del bosone di Higgs e a far aumentare la conoscenza. Da decenni ormai i governi di tanti paesi hanno scelto di investire in ricerca scientifica, formazione, infrastrutture e programmi di finanziamento internazionali.
Nasce così una vasta ed eterogenea generazione di scienziati che, ricollegandosi alla metafora del Pantheon, rappresentano i mattoni dei grandi monumenti.
La particolarità di questa nuova Grande Opera è che non solo l’Italia sta svendendo il suo immenso patrimonio fatto di sapere, saper fare, cultura e tradizioni, espellendo le migliori teste pensanti, accuratamente selezionate e formate dalle scuole italiane, ma che gli stessi mattoni, ossia gli scienziati, stanno giocando un ruolo attivo nella sua demolizione. In piccola parte assumendo comportamenti deteriori nella gestione delle progressioni di carriera e delle attività sperimentali, ma soprattutto dimostrando un’apparente inconsapevolezza dell’enorme ruolo che hanno, e che dovrebbero avere, oltre che dell’investimento che l’intera società sta facendo su di loro.
Il metodo scientifico è un comportamento volto a conoscere la realtà che, in un’epoca di declino delle visioni di scenari a lungo termine, ha una potenzialità e una responsabilità ideali che talvolta sfuggono agli stessi attori e li rende incapaci di capire che se da un lato la ricerca scientifica in Italia è letteralmente insultata e calpestata, dall’altra l’opportunità, oserei dire la “fortuna”, data a singoli scienziati di poter lavorare e coltivare la libertà di pensiero e di ricerca, li carica di un’enorme responsabilità, di cui si dovrebbero ricordare costantemente, pretendendo di poter agire molto di più e molto più incisivamente di quello che fanno, soprattutto per offrire un’opportunità al nostro futuro, ossia alle nuove generazioni.

Lavoratori della conoscenza

Da circa tre secoli la comunità scientifica mondiale cresce e raddoppia ogni dieci o quindici anni. Una progressione impressionante se si considera che buona parte degli oneri è a carico degli Stati nazionali. L’ISTAT tiene conto della categoria degli addetti alla ricerca e sviluppo in Italia dal 1963, sommando ricercatori tecnici e altro personale di supporto. Complessivamente, nel 1963 questi erano circa 50.000 tra università, enti pubblici di ricerca e personale di ricerca nell’industria privata, nel 1978 sono diventati circa 100.000, nel 2000 150.000, nel 2007 200.000 e nel 2013 246.000, ultimo dato disponibile. In pratica sono aumentati di cinque volte in cinquant’anni.
L’investimento relativo è cresciuto molto di più, passando dai circa 100 milioni dell’equivalente in euro del 1963 a un primo raddoppio nel 1968. Poi 400 milioni nel 1973, 800 nel 1977, un miliardo e mezzo nel 1980, 3 miliardi nel 1983, 6 nel 1987, 12 nel 2000 (con un’inflazione bassa e dati i costi d’ingresso nella moneta unica) per arrivare a 21 miliardi di euro di spesa nel 2013. Una spesa salita di 210 volte in cinquant’anni.
Quello che si nota meno è che, contemporaneamente, all’interno del personale avviene una transizione che fa aumentare il personale ricercatore e diminuire quello tecnico o di supporto. Se prendiamo i dati del maggior ente di ricerca italiano, il CNR, che è stato a lungo anche un’agenzia per finanziare la ricerca scientifica, possiamo notare bene questa transizione.
Dagli annuari del CNR dei primi anni sessanta risulta che vi lavorino poche decine di persone, tutte elencate per nome e cognome in un libretto di qualche pagina. Solo nel 1987 l’elenco del personale diventa significativo e strutturato in maniera da poter fare raffronti affidabili. In quell’anno il personale CNR sfiora le 7000 unità, per superare le 8000 dal 1997 al 2017, includendo anche il personale con contratti a tempo determinato.
Quello che cambia è la composizione interna di questo personale, e lo si capisce grazie a chiari raffronti che si ottengono paragonando il 1990 con il 2015. Il personale CNR a tempo indeterminato è composto da 6875 unità nel 1990 e diventa di 6911 nel 2015. In questi venticinque anni, quindi, andranno persi 305 posti di amministrativi e 991 di tecnici, per un totale di 1296 unità in meno compensate, solo parzialmente, da 550 contratti a tempo determinato in queste categorie. Nello stesso periodo i ricercatori sono passati da 2885 a 4217, con un aumento di 1332 unità, a cui se ne aggiungono altri 911 a tempo determinato. Spariscono, quindi, le segretarie, gli addetti alla pulizia delle provette e alle fotocopie, e i tecnici di limitata professionalità, mentre aumentano i ricercatori che oltre al loro lavoro a questo punto devono svolgere anche quello delle figure che, una volta andate in pensione, non verranno sostituite.
Si stima che nel mondo gli scienziati e addetti alla ricerca siano circa dieci milioni, con incrementi ancora consistenti anno dopo anno, tanto che – forse ancora per poco tempo – si potrà dire che il 90% di tutti gli scienziati che sono mai esistiti oggi è vivente. Timothy Ferris, in The Science of Liberty2, lega l’esplosione della ricerca scientifica allo sviluppo della democrazia intesa anche come diritto al suffragio universale. Un modo per capire come mai è da poco che costruiamo questa immensa opera monumentale.

Non siamo soli

Non c’è bisogno di ripeterlo, ma lo scenario del sostegno economico, tecnologico, strutturale e di infrastrutture dato alla ricerca italiana, se paragonato a quello internazionale, è semplicemente desolante. La Gran Bretagna investe nella ricerca due volte più di noi, la Francia due volte e mezzo, la Germania oltre tre volte in più. Il Giappone, che ha solo il doppio della nostra popolazione, investe circa otto volte più di noi e persino la Cina investiva più dell’Italia in ricerca e sviluppo già tredici anni fa, quando gli stipendi cinesi erano dieci volte inferiori ai nostri. Noi investiamo nella ricerca poco più dell’1,1%, talvolta l’1,2% del PIL, ossia meno della metà della media dei grandi paesi europei, escludendo naturalmente gli esempi più virtuosi come i paesi scandinavi o la Svizzera, con cui il confronto è semplicemente imbarazzante. Il nostro budget per la ricerca è quasi tre volte inferiore agli obiettivi che come Europa ci eravamo dati a Lisbona nel 2000, ovvero di diventare la società della conoscenza con un investimento medio europeo attorno al 3%.
Una delle tesi che si esporranno in questo libro è che il vero investimento italiano nella ricerca è ancora più basso, molto più basso. E questo perché i fondi vengono dati con modalità che prescindono dalla qualità delle ricerche e dai sistemi di valutazione che la scienza si è data.
Ora, investire meno della metà non vuol dire fare la metà degli esperimenti e ottenere la metà dei risultati, perché la parte più consistente (in genere il 90% o anche di più) dell’intero budget di ricerca serve per pagare gli stipendi (questi sì che sono meno della metà di quelli dei ricercatori francesi). Se il 90% dei finanziamenti serve a pagare lo stipendio, come si consente al ricercatore di lavorare? L’effetto sulla capacità di svolgere ricerca in queste condizioni si riduce di dieci volte, non solo della metà. Temo che ora diventi drammaticamente più comprensibile quel modo di dire che indica i costi “a uomo fermo”. In sintesi, essere pagati per non poter lavorare, a meno che non se ne abbia una voglia incontenibile, cosa assai frequente tra i ricercatori. Continuando a usare questa metafora, è come disporre di droni, ma senza carburante.
Inoltre, se sommiamo la spesa per la ricerca a quella per la formazione superiore, i numeri sono da brivido, con l’Italia che compete solo con Grecia e Portogallo al fondo della classifica dei paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Abbiamo un numero di ricercatori che è due volte e mezzo inferiore al numero medio di ricercatori che lavorano accomunando i dati di Francia, Gran Bretagna e Germania. Il totale dei nostri ricercatori è quasi dieci volte meno di quelli che lavorano in Giappone, ossia cinque volte in meno normalizzando per numero di abitanti.
Considerando il numero di ricercatori in rapporto al totale degli occupati, siamo molto dietro a Grecia e Portogallo, e competiamo solo con Cipro e la Lettonia.
Nonostante tutto, abbiamo però un buon numero e un’ottima qualità di pubblicazioni, vale a dire che il materiale umano sarebbe valido, se lo lasciassero lavorare e fare ricerca. La polemica riportata sulle pagine del “Corriere della Sera” dal 6 all’8 febbraio 2017 tra un giornalista e la senatrice e farmacologa Elena Cattaneo è stata involontariamente utile a descrivere lo stato di marginalità in cui versa la ricerca italiana. Il giornalista ha pensato di aver trovato ben 4,5 miliardi di euro non spesi presso numerose istituzioni di ricerca nazionale (dicendo, quindi, che queste hanno così tanti fondi da nasconderli sotto al materasso) e la ricercatrice gli ha spiegato come quelli trovati sono in gran parte fondi accumulati per la liquidazione pensionistica dei dipendenti (TFR) e che fondi residui non ce ne sono, anzi ne mancano di base per la ricerca.
La polemica è andata avanti molto a lungo e alcune lettere scambiate con il “Corriere” sono consultabili sul sito del laboratorio della professoressa Cattaneo3.
Le note dolenti arrivano con la capacità di produrre brevetti, soprattutto quelli che vale la pena (e la spesa) di estendere almeno a tre continenti. In questa classifica precipitiamo verso il basso, dimostrando che non sempre buone pubblicazioni si convertono in applicazioni innovative, quindi in brevetti, quindi in licenze d’uso, quindi in acquisto di tali licenze e possibilità di reinvestire i proventi in nuova ricerca e nuova occupazione qualificata.
Tuttavia, investiamo poco anche in istruzione universitaria, sebbene sia davvero molto dispendiosa se considerata per singolo studente (circa 200.000 euro a testa). Ma siccome non spendiamo grandi somme per consentire agli studenti di fare apprendistato, seguire corsi pratici in laboratorio o altre forme di docenza, le alte spese forse sono solo dovute al prolungamento degli studi fuori corso. Un percorso di studio dove i docenti sono quasi solo italiani e per di più molto anziani.
Inoltre, nel 2017 i nodi cominciano a venire al pettine. La distribuzione dell’età dei docenti non è equilibrata e omogenea, con un numero comparabile di docenti di età compresa tra i quaranta e i sessant’anni.
In Italia, nei sei anni che vanno dal 2016 al 2022, andranno in pensione molti più docenti del solito. In questo arco di tempo, mediamente per ogni singolo anno, c’è il 30% di docenti in più rispetto a quelli che raggiungeranno i settant’anni nei dieci anni successivi o che hanno raggiunto tale età nei dieci anni precedenti.
Questa onda anomala di assunzioni metterà in crisi il sistema universitario che non potrà sostituire tutti i docenti pensionati. E implica anche che l’età media dei docenti italiani sia decisamente troppo elevata. Tutto ciò non farà che aggravare ancora la situazione italiana, per cui nel 2015 in Italia ogni 1000 occupati contavamo 4,73 ricercatori, quando la media europea è di 7,4 (dati OCSE).
Non possono non venire alla mente le parole, riportate da Francesco Cassata in L’Italia intelligente4, di colui che forse è stato il miglior manager della ricerca che l’Italia abbia mai avuto, oltre che vincitore della prima cattedra di genetica bandita dopo la seconda guerra mondiale: Adriano Buzzati Traverso, che nel 1969 definì l’università italiana un «fossile denutrito». Quarantanove anni dopo, la condizione della ricerca scientifica italiana sembra addirittura peggiorata.

Un metodo per conoscere

L’Italia sarebbe ancora la patria del metodo scientifico, il metodo di conoscenza della realtà definito da Galileo Galilei. Di certo, oltre al grande astronomo pisano, anche altri lo hanno descritto, ma qui ci interessano i contenuti. Inoltre, sul termine realtà si potrebbero far nascere interminabili disquisizioni, ma parliamo ovviamente di ciò che percepiscono i nostri organi e quindi di una realtà che non vuol dire verità e si limita anzi ad essere tutto ciò che possiamo permetterci con i nostri sensi e soprattutto usando il cervello.
La questione centrale, tuttavia, è il metodo come strumento per fare diverse operazioni. La prima è studiare la realtà in modo controllabile e riproducibile. Non si cerca di capire se qualcosa è un bene o un male, ma solo se è meglio o peggio, è di più o di meno in rapporto a un’altra cosa che si discosta il meno possibile dalla prima. Quindi, non si misurano distanze assolute, ma distanze relative e il relativo necessita di un punto di paragone scelto accuratamente. Quando ci dicono che un certo spettacolo televisivo è stato un successo clamoroso perché ha avuto uno share straordinario e molto più alto della stessa trasmissione andata in onda dieci anni prima, non ci hanno detto un granché. Perché di certo numerosi telespettatori stavano seguendo quella trasmissione, ma non viene spiegato se il loro numero era in assoluto più alto o più basso di dieci anni prima, né quante erano le utenze televisive nei due anni di riferimento, né quale era la popolazione raggiunta e neppure se i due eventi erano paragonabili per fascia oraria e competizione con altre trasmissioni attraenti su canali diversi e decine di altri parametri simili.
Banalmente, potrebbe succedere che una larga fetta della popolazione abbia smesso di usare la trasmissione via etere e usi il web: pertanto, un elevato share indica solo che sono diminuiti in maniera significativa gli abbonati giovani che guardano la televisione e lo share è aumentato solo tra i restanti. Inoltre, la popolazione più anziana e meno tecnologicamente avanzata ha a disposizione solo il televisore. Questa quota di utenti gradisce raccogliere informazioni da luoghi tradizionali, perciò si sintonizza sulla storica trasmissione e lo share quindi è aumentato surrettiziamente perché ci sono meno abbonati, tra i quali inoltre, solo i più anziani seguono la trasmissione nello stesso identico numero che la seguiva dieci anni p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ringraziamenti
  3. Premessa
  4. Capitolo 1. Un’opera strutturale
  5. Capitolo 2. Innovazioni o improvvisazioni?
  6. Capitolo 3. Minotauro
  7. Capitolo 4. Da trasportati a conducenti
  8. Note