Lo spettro del capitale
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Lo spettro del capitale

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Lo spettro del capitale

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Durante gli ultimi vent'anni il capitalismo ha conosciuto un cambiamento epocale: da un'economia prevalentemente materiale, veicolata dalla legge della domanda e dell'offerta e dalla produzione di merci fisiche, si è passati a un'economia dell'immateriale e alla produzione di un bene intangibile e non "mercificabile": la conoscenza. In questo passaggio si sta verificando però un pericoloso attrito: il capitalismo tende infatti ad assorbire nelle proprie logiche di privatizzazione e mercificazione il processo produttivo della conoscenza, che per sua stessa natura è un bene comune e collettivo, soffocandone così lo sviluppo. Sergio Bellucci e Marcello Cini studiano questo fenomeno da molto tempo; ne "Lo spettro del capitale" la loro analisi si concretizza in una denuncia e allo stesso tempo in una proposta. La denuncia è rivolta alla politica, soprattutto alla sinistra, incapace oggi di cogliere i segni di quanto sta avvenendo, e per questo di interpretare e farsi carico dei bisogni dei lavoratori. La proposta è quella di promuovere a sistema una nuova logica produttiva, che oggi sta già emergendo autonomamente dal corpo sociale, basata sugli stessi principi su cui si fonda la diffusione della conoscenza: condivisione, cooperazione e democraticità.

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Informazioni

Parte II.

Dal supercapitalismo a una società delle relazioni

Capitolo 7

Il supercapitalismo

Il capitalismo del XXI secolo, per il mantenimento dei rapporti di produzione, mina le stesse basi del suo sviluppo e pone l’umanità intera di fronte all’impasse dei suoi meccanismi e alla prospettiva di una povertà crescente, non solo più nell’impossibilità di soddisfacimento dei bisogni, ma nella sua stessa capacità di sopravvivenza. La battaglia sulla proprietà dei diritti nelle sue varie forme (copyright, brevetti ecc.) è l’emblema di tale spirale negativa nella quale il capitalismo nella sua fase attuale sta gettando l’umanità.
Se la produzione di valore trasla dal tempo di lavoro all’intelligenza collettiva (umana e non) distribuita nel pianeta, porre barriere alla possibilità di mobilità delle idee (qualunque barriera, ma in principal modo quella di una trasmissione della conoscenza “omologata” a un principio unico – quella della coppia domanda-offerta del mercato – e di una distribuzione delle conoscenze per censo – con la marginalizzazione di una parte cospicua dell’intelligenza vivente) diviene un principio antieconomico, anche se “conservatore” dei rapporti di potere esistenti nel pianeta. Proprio quei rapporti di potere che sono produttori di sfruttamento indiscriminato delle risorse, del lavoro, della conoscenza e che consentono a una parte dell’umanità di controllare le società contemporanee.
Il capitalismo che emerge dalle ceneri di quello prevalentemente industriale, quindi, non ha chiuso la storia ed è attraversato da contraddizioni profonde, anzi ancora più “generali”e “invadenti”. La vecchia contrapposizione tra lavoro morto e lavoro vivo viene ridefinita in termini di conoscenza, proponendo una nuova contrapposizione tra conoscenza sussunta nelle macchine e conoscenza viva. Sulla qualità della conoscenza che si sussume sempre più nella macchina uno di noi ha pubblicato nel 2005 un saggio1 cercando di delineare le condizioni tecnologiche di questa nuova capacità dello sviluppo tecnoscientifico e rintracciando nella logica del digitale la struttura tecnicoculturale in grado di ridisegnare le società contemporanee e definire il passaggio di paradigma. La macchina digitalizzata realizzata finora sussume “conoscenza”, ma nel momento in cui la conoscenza viene sussunta viene uccisa la sua parte dinamica, la sua “vitalità”, attraverso un’ipostatizzazione derivante dalla sua formalizzazione.
Accanto a ciò avviene una nuova forma di “addestramento” del lavoratore che si propone la stessa finalità del taylorismo attraverso l’assunzione della “logica di flusso” dei software come la nuova dimensione della razionalità contemporanea. Chi è esterno o incapace di assumere lo schema “mentale” della nuova razionalità rappresenta un residuo.
Sia la sussunzione dell’intelligenza nelle macchine (il saper fare formalizzato in flusso informatico) sia l’addestramento a “ragionare” delle persone, in funzione delle necessità del funzionamento del flusso informatico, producono una dinamica che assume la caratteristica di una controtendenza. Proprio questa necessità di convergenza “mentale” imposta dai rapporti di produzione, infatti, limita le stesse necessità/potenzialità del ciclo produttivo capitalistico e della sua spasmodica ricerca di valorizzazione del capitale e, al contempo, riduce la capacità produttiva concreta delle stesse macchine che vengono distribuite in maniera massiccia sul pianeta.
Queste macchine possono essere e sono utilizzate per la produzione di conoscenza, cultura e di “semplice”espressione del pensiero, ma vengono limitate in maniera sempre più evidente, nella loro capacità produttiva che mettono a disposizione delle persone, dalle condizioni e dai limiti delle regole della proprietà intellettuale. Da un lato, in altre parole, si distribuisce capacità di produzione di scambio informativo e, dall’altro, lo si vincola a “rapporti di produzione” che limitano enormemente le potenzialità reali, attraverso leggi e regolamenti vissuti dalle persone, sempre più, come ingiusti e anacronistici.
Un salto che spinge verso due elementi che erano in contraddizione nelle società industriali: la relazione con l’altro da sé e la possibilità di essere un soggetto autonomo, unico e riconoscibile.
La fase del capitalismo del general intellect necessita di una nuova forma di conflitto e, quindi, di una nuova politica per le forze della trasformazione. Le attività umane non possono più essere circoscritte e limitate dal mercato e dalla coppia domanda/offerta. Una volta, trasformarle in merce, forse, ha significato moltiplicare le capacità del fare. Oggi restare dentro i vincoli mercantili significa limitarne le possibilità di crescita. Non è più solo una questione quantitativa, ma qualitativa.
Emerge infatti in modo chiaro che lo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione che costituiscono oggi la base strumentale della produzione di merci immateriali si accompagna attraverso un nesso di causalità circolare con una concezione dell’uomo e della società profondamente diversa da quella che ha sorretto, nei 30 anni che separano la fine della Seconda guerra mondiale dall’avvento dell’era neoliberista di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, lo sviluppo del capitalismo fordista – lo Stato del welfare – nei paesi industrializzati dell’Occidente. Il modello sociale odierno, frutto della sconfitta del modello di welfare precedente, è fondato da un lato sulla teorizzazione del dominio dei forti sui deboli, sulla diffidenza di ognuno verso gli altri e sulla divisione della società tra vincenti e perdenti, con la conseguente competizione sfrenata tra gli individui per entrare a far parte dei primi calpestando i secondi. Dall’altro è fondato sull’idolatria del PIL come unica misura del benessere e della ricchezza, sull’ossessiva coazione al consumo di beni sempre più sofisticati e inquinanti, con la marginalizzazione, fino all’eliminazione fisica, della massa dei non consumatori e sull’illusione della sostituibilità delle relazioni emotive e affettive fra esseri umani con l’acquisto di merci che ne dovrebbero adempiere le stesse funzioni. È una concezione, infine, fondata sulla determinazione dei potenti a imporre questi “valori” con qualunque mezzo, incluse le armi più letali, a tutto il genere umano.
La storia di questo passaggio epocale tra le due fasi del capitalismo è ricostruita in dettaglio da Robert Reich2, già ministro del lavoro sotto la presidenza Clinton. Anche se le conclusioni del libro sono da respingere, vale la pena di riassumere in estrema sintesi la ricostruzione di questa storia per dedurne indicazioni, come vedremo, radicalmente diverse da quelle che ne trae Reich:
Tra il 1945 e il 1975 più o meno, l’America giunse a un compromesso significativo tra capitalismo e democrazia. Vi si combinavano un sistema economico enormemente produttivo e un sistema politico sensibile alle domande della gente e ammirato da molti. In quegli anni la forbice fra ricchi e poveri toccò un minimo storico. Furono creati un numero senza precedenti di posti di lavoro ben remunerati e che non verrà mai più eguagliato negli anni a venire e una maggiore sicurezza economica per un più grande numero di cittadini. […] L’economia era basata sulla produzione di massa. La produzione di massa era remunerativa poiché vi era un’estesa classe media che si poteva permettere di comprare i prodotti di massa. E poteva permetterselo perché i profitti della produzione di massa erano spartiti fra le grandi corporation e i loro fornitori rivenditori e dipendenti. Il potere contrattuale di queste tre categorie era favorito e difeso dal governo. Quasi un terzo della forza lavoro era iscritta a un sindacato. I benefici della crescita economica erano ridistribuiti in lungo e in largo per il paese per mezzo di regolazioni governative (su ferrovie, telefonia, servizi ed energia) e di sussidi (prezzi di sostegno, autostrade e prestiti federali). In tal modo la democrazia compensò il potere della produzione su larga scala e distribuì ampiamente i suoi benefici.
Anche se non era proprio “l’età dell’oro” – le donne e le minoranze lottavano ancora per l’uguaglianza politica, la povertà nel paese era nascosta nelle zone rurali e nei ghetti neri, la politica estera si piegava spesso alle necessità delle grandi imprese di avere accesso nei paesi del Terzo mondo a risorse a basso costo e le libertà civili vennero minacciate dalla caccia alle streghe del senatore McCarthy –, il capitalismo democratico sembrava funzionare particolarmente bene ed essere destinato solo a migliorare.
Poi, verso la fine degli anni Settanta, accadde qualcosa che cambiò tutto. L’America e il mondo intrapresero la strada verso il supercapitalismo. La struttura dell’economia americana è radicalmente cambiata. Le istituzioni che intraprendevano negoziazioni formali e informali per ripartire la ricchezza, stabilizzare il mercato del lavoro e le comunità locali e dotare il gioco di regole giuste si sono eclissate. Le corporation ora non hanno altra scelta che perseguire il profitto. In questo senso, il trionfo del capitalismo e il declino della democrazia sono intimamente collegati.
In questa fase ogni diritto dei cittadini a fruire di un servizio o a godere di garanzie e protezioni è sostituito dall’accesso al mercato dei soli consumatori in grado di acquistarli. L’uguaglianza, almeno in linea di principio, dei cittadini è sostituita dalla loro stratificazione sociale in base alle risorse economiche di cui dispongono. Questa trasformazione si è estesa successivamente agli altri paesi europei e oggi, da noi, nella sua forma più becera, con il berlusconismo.
Come si è potuto verificare? A questa domanda Reich risponde negando che si possa (come fanno in molti, ognuno esponendo una tesi diversa) individuare una sola causa di questo sconvolgimento epocale:
Senza dubbio la deregulation e la globalizzazione hanno giocato un ruolo, ma questo ci induce a chiederci con ancora maggiore enfasi perché queste abbiano preso piede proprio negli anni Settanta e non prima. Inoltre, nessuna di queste teorie analizza il sistema nella sua totalità e spiega in maniera esauriente la trasformazione del capitalismo. La spiegazione reale di questo fenomeno ha a che vedere con la maniera in cui le nuove tecnologie hanno permesso ai consumatori e agli investitori di fare affari sempre migliori, ma allo stesso tempo hanno eliminato la relativa uguaglianza e stabilità del sistema e altri importanti valori sociali.
Qualche esempio. I tre grandi del mercato delle automobili – General Motors, Chrysler e Ford – che negli anni Cinquanta e Sessanta avevano coordinato i prezzi, i salari e la produzione nel settore si trovarono a dover fare spazio a sei altre aziende americane, tre delle quali assemblavano automobili giapponesi. I tre grandi network televisivi furono affiancati da centinaia di canali specializzati in ogni genere di programma, tutti in lotta tra loro per attirare gli spettatori. La manciata di compagnie aeree che per anni avevano servito da sole le rotte principali a prezzi stabiliti dovette fare i conti con dozzine di nuove compagnie che offrivano rotte e prezzi in continuo cambiamento in una lotta furibonda.
L’industria dello spettacolo, dominata da pochi grandi studios hollywoodiani, si trasformò in un campo di battaglia. La monopolista AT&T si trovò a competere con cellulari, internet via cavo e servizi di VoIP che offrivano chiamate praticamente gratis. Il cartello delle case farmaceutiche Big Pharma si trovò a dover competere sul mercato con aziende biotech che offrivano medicinali di avanguardia. Le catene dovettero vedersela con gli ipermercati e gli ipermercati con i rivenditori on-line.
«Tutto questo – spiega ancora Reich – ha mandato in frantumi il vecchio sistema della produzione di massa e aumentato enormemente la concorrenza. Le istituzioni centrali del capitalismo democratico sono scomparse. Il supercapitalismo ha rimpiazzato il capitalismo democratico». E conclude: «Il potere è passato nelle mani dei consumatori e degli investitori».
Ma Guido Rossi, nella sua prefazione all’edizione italiana del libro di Reich, non è d’accordo con questa conclusione perché assolve il sistema e si limita a invitare ciascuno di noi a scegliere tra lo status di cittadino di uno stato democratico e quello di consumatore e/o investitore in un mercato capitalistico. Scrive Rossi, e noi siamo d’accordo con lui:
A me pare, in definitiva, che il deficit grave di democrazia che con grande lucidità Reich ha descritto debba invece essere affrontato mettendo sotto accusa l’intero sistema, perché la colpa sempre più grave di quel deficit non siamo noi, anzi ciascuno di noi, nel suo schizofrenico sdoppiamento fra consumatore vincente e cittadino perdente. Non credo che siamo noi che abbiamo bisogno di uno psicanalista per diventare meno consumatori e più cittadini, ma sono le società per azioni, le banche e i mercati finanziari che abbisognano di un legislatore, magari sovranazionale, severo ma né improvvisato, né prodigo di troppe inutili norme. […] È purtroppo una scelta alternativa, condizionante per il resto del mondo, sapere se gli Stati Uniti vorranno continuare a pensare che il supercapitalismo è ineluttabile o che la democrazia dei diritti di varie generazioni, secondo le classificazioni di Norberto Bobbio, sia il valore prioritario da perseguire per tutti.
All’origine del supercapitalismo, accanto a Ronald Reagan e a Margaret Thatcher, troviamo un altro personaggio fondamentale: l’economista Milton Friedman. A lui Reich non dedica molto spazio. Se vogliamo saperne di più, dobbiamo ricorrere al libro di Naomi Klein3 dedicato all’analisi di quella strategia del capitalismo degli ultimi decenni del XX secolo che l’autrice chiama «capitalismo dei disastri» o «capitalismo dello shock». Il nucleo teorico di questa forma di politica economica è stato formulato da Friedman più di 30 anni fa.
Liberista convinto, Friedman è stato più volte definito l’“anti-Keynes” per il suo rifiuto verso qualsiasi intervento dello Stato nell’economia e il suo sostegno convinto a favore del libero mercato e della politica del laissez-faire. È noto che le sue visioni in materia di politica monetaria, tassazione, privatizzazione e deregulation hanno influito pesantemente sulle politiche delle amministrazioni di molti paesi del globo, tra le quali quella di Reagan negli Stati Uniti, di Brian Mulroney in Canada, di Margaret Thatcher in Gran Bretagna, di Roger Douglas in Nuova Zelanda, di Augusto Pinochet in Cile e (dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989) in molti paesi dell’Europa orientale.
Ma è la Klein che mette in risalto il ruolo particolare che Friedman ha svolto nel processo di svuotamento, se non addirittura di distruzione, della democrazia in tutto il mondo con una strategia mirata ed efficace. In uno dei suoi saggi più influenti, Friedman osservava che:
Soltanto una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano. Questa credo sia la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile. […] Quando la crisi colpisce, è fondamentale agire in fretta, imporre un mutamento rapido e irreversibile prima che la società tormentata dalla crisi torni a rifugiarsi nella tirannia dello status quo.4
La prima applicazione di questa strategia fu in Cile, subito dopo il colpo di stato di Pinochet. La Klein spiega:
Friedman consigliò al dittatore di imporre una trasformazione fulminea dell’economia: tagli fiscali, libero scambio, privatizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale e deregulation. Trent’anni dopo la stessa terapia d’urto fu adottata in Iraq dal goveratore americano Paul Brenner: privatizzazione selvaggia, completa libertà di scambio, tassazione unica al 15%, cancellazione di ogni governo dell’economia. Nell’ottobre del 2006, un mese nel corso del quale erano stati uccisi 3709 civili iracheni, un analista finanziario scriveva nel suo rapporto trimestrale sui risultati dell’industria energetica Halliburton: «L’Iraq è stato meglio del previsto».
Ma l’efficacia e la brutalità delle ricette degli economisti della “Scuola di Chicago” risultano ancora più evidenti nei casi di catastrofi “naturali”. Mentre la maggior parte dei sopravvissuti a un disastro devastante vorrebbe salvare il salvabile, iniziare a riparare ciò che non è stato distrutto e riaffermare il suo legame con i luoghi in cui è cresciuto, i fautori del capitalismo dei disastri non hanno interesse a restaurare ciò che c’era prima. Scrive ancora la giornalista canadese:
Dopo aver fatto la corrispondente da Baghdad sono andata in Sri Lanka diversi mesi dopo il catastrofico tsunami del 2004 e lì ho assistito a un’altra versione della stessa manovra: gli investitori stranieri e i prestatori internazionali si erano uniti allo scopo di sfruttare l’atmosfera di panico per consegnare l’intero litorale a imprenditori che vi costruirono grandi villaggi turistici, impedendo a centinaia di migliaia di pescatori di ricostruire le loro case vicino al mare. […]
Quando poi l’uragano Katrina colpì New Orleans e la pletora di politici conservatori, think tank e imprenditori edili iniziarono a parlare di tabula rasa e di fantastiche opportunità, fu chiaro che il metodo privilegiato per imporre gli obiettivi delle grandi imprese adesso era quello di usare i momenti di trauma collettivo per dedicarsi a misure radicali di ingegneria sociale ed economica.
Il caso di New Orleans è paradigmatico. «Siamo finalmente riusciti – ha dichiarato pochi mesi dopo Richard Baker, un importante rappresentante repubblicano della Lousiana al Congresso – a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Non sapevamo come fare, ma Dio l’ha fatto per noi»5.
E “zio Miltie”, come veniva affettuosamente chiamato Friedman dai suoi più stretti collaboratori, trovò le sue ultime energie, prima di morire novantaquattrenne, per scrivere un editoriale sul “Wall Street Journal” nel quale suggeriva di cogliere l’occasione della rovina della maggior parte delle scuole di New Orleans per riformare radicalmente il sistema educativo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Parte I. Capitale e lavoro: dall’economia delle merci materiali all’economia della conoscenza
  3. Parte II. Dal supercapitalismo a una società delle relazioni
  4. Appendici