Opinioni (democratiche?)
di Antonio Pascale
Si potrebbe partire da uno schema semplice, il seguente: noi abbiamo delle opinioni, quest’ultime vengono lette dai politici di riferimento e poi trasformate in leggi. Da questa equazione si ricava che: opinioni approfondite producono politici seri che s’impegneranno nell’elaborazione di buone leggi, mentre a opinioni superficiali corrisponderanno politici superficiali.
È uno schema molto elementare. Ha un vizio, però: quello di non tener conto di parecchie variabili. Ma almeno, ed è il pregio, focalizza la nostra attenzione non sui politici e nemmeno sulle leggi, bensì, appunto, sulle nostre opinioni. La matrice della democrazia.
Ora, chi sono quelle persone che badano alla qualità delle nostre opinioni? Gli intellettuali naturalmente. In senso lato. S’intendono come intellettuali non solo le persone comunemente intese come intellettuali – gli scrittori, i poeti – ma quelle impegnate nella grande avventura (e nel piacere che ne deriva) della conoscenza, che come si sa, spesso è scabrosa. Non oscena, ma scabrosa; dall’etimo “scavare, guardare, cercare sotto la superficie”. Un tecnico (un agronomo, un chimico, un ingegnere, un botanico, un fisico ecc.) può essere un intellettuale, e lo è quando si spinge, scabrosamente, sotto la superficie. Lo è ancora di più quando dimostra che i suoi ragionamenti sono frutto di un metodo rigoroso. Se si possono o non si possono condividere le opinioni altrui, di almeno una cosa dobbiamo, infatti, essere sicuri: di condividere il metodo attraverso il quale interpretiamo il mondo.
Gli intellettuali dunque sono quelle persone che privilegiano o cercano di condividere un metodo di ricerca. A quale scopo? Affinché sia possibile elaborare un’idea di misura.
L’obiezione più comune a questo punto è: tanta fatica per la misura? Un affare tecnico, roba da ragionieri o da capi cantiere, livella e squadro. Insomma, non sono questioni che dovrebbero riguardare una mente creativa e illuminata: scabrosa.
Purtroppo per me, questa idea di misura – fonte di progresso e conoscenza, dunque appannaggio degli intellettuali – è stata già elaborata da Platone nel Protagora. Fine V secolo. Arrivo, quindi, veramente in ritardo. Questo dialogo racconta lo scontro (tra l’altro molto divertente e appassionante) tra un giovane Socrate e il sofista Protagora (siamo nel 433 a.C. e Socrate, a 36 anni, è quasi uno sconosciuto). È possibile affrontare la tyche con la techne? La tyche, ciò che semplicemente accade, l’elemento dell’esistenza che gli umani non controllano, la si può tenere a bada con la techne, il mestiere, l’arte o la scienza? La parola techne viene tradotta in altri svariati modi, ed esempi di technai sono l’edificazione di una casa, la confezione delle scarpe, la tessitura, l’equitazione, il suono del flauto, la danza, la recitazione, la medicina, la matematica e la meteorologia.
Secondo Socrate un progresso «veramente decisivo nella vita sociale potrà essere realizzato solo quando sarà sviluppata una nuova techne che assimili la deliberazione pratica al contare, al pesare e al misurare» dice Martha C. Nusbaum in La fragilità del bene.
Merita una segnalazione, en passant, un punto del dialogo: Socrate incantato dall’arte oratoria di Protagora (e quindi incapace di intendere) gli propone sì di discutere, ma con frasi brevi e concise; insomma, avverte il suo contendente che per un buon ragionamento è necessario sviluppare un pensiero rigoroso che liberi la mente da quel sovrappiù retorico. Dalle allucinazioni sonore. Bisogna scavare scabrosamente, andare all’essenziale.
Il pensiero di Socrate sulla misura (analizzato da Platone) nasceva da un nuovo contesto culturale dal quale non si può prescindere. Più precisamente, Socrate non credeva, così come la tragedia si spingeva a dimostrare, che gli dèi potessero dettare due deliberazioni (due obblighi) in contrasto fra loro. Perché mai, infatti, Agamennone doveva veleggiare per Troia perché i diritti dell’ospitalità erano stati violati, e contemporaneamente essere costretto a uccidere sua figlia Ifigenia per propiziare il viaggio? Due obbligazioni in contrasto tra loro impedivano la misura, sottomettendo gli umani all’imponderabile. Gli dèi non possono far questo; o perlomeno, se lo fanno noi umani abbiamo il diritto di ribellarci.
Era necessario quindi valutare le obbligazioni, fare delle differenze, all’occasione non ubbidire agli dèi. Non per niente Socrate fu condannato con l’accusa di aver introdotto falsi dèi ad Atene. Solo così risultava possibile strutturare un sistema metrico di riferimento che ci proteggesse dall’imponderabile. Fonti successive a Protagora definiranno meglio i parametri di queste unità di misura che formavano la techne: a) universalità: da un insieme di nozioni empiriche nasce un giudizio universale che abbraccia tutte le cose simili tra loro; b) trasmissibilità: siccome la techne è universale può essere insegnata; c) precisione: là dove prima vigeva l’indeterminatezza e la confusione ora regna l’akribeia: il carpentiere costruisce correttamente misurando in modo preciso, misurare lo aiuta a rendere la sua arte più efficace; d) interesse per la spiegazione: la techne porta con sé l’interesse per la spiegazione, chiede e risponde a dei perché riguardanti i suoi procedimenti.
In seguito si accuserà Socrate di avere villaneggiato e deriso la tragedia, e indubbiamente quello spirito è in parte andato perduto (sono comunque sempre disponibili alcuni brillanti tentativi). Ma Socrate non c’entra. Il problema è culturale, lo spirito dei tempi stava cambiando: con Socrate si evidenzia meglio il crollo della mente bicamerale.
Julian Jaynes è l’autore de Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. Forse mancano ancora prove definitive e forse non si avranno mai, però la sua teoria ha un valido supporto empirico. Ci fu un tempo in cui la natura umana era scissa in due parti: una parte direttiva chiamata dio (che spingeva a prendere le decisioni o deliberava) e una parte (a questa) soggetta chiamata uomo. Nessuna delle due parti era cosciente. Jaynes ricava gran parte della sua teoria dallo studio dell’Iliade. Gli eroi del poema non hanno volontà, sono incoscienti e non possiedono la nozione di libero arbitrio. Nei momenti di conflitto o di dolore è sempre un dio a impadronirsi della narrazione e spingere l’eroe all’azione.
Prendiamo l’episodio più struggente dell’Iliade, la morte di Ettore, XXII canto. Atena, fidata protettrice di Ettore, dopo aver detto ad Achille di uccidere Ettore, si presenta a quest’ultimo sotto le spoglie del suo amato fratello Deifobo. Ettore si fida della presenza di suo fratello e sfida Achille. Ma quando chiede a Deifobo un’altra lancia, si volge e non vede nulla. Ettore si rende conto che Atena l’ha ingannato (e abbandonato). È dunque giunta la sua ora. È colto dal panico ma decide di combattere (conosco poche cose commoventi come questa incoerenza, scriverà Guido Pa-duano, traduttore dell’Iliade).
Allora Ettore capì nel suo cuore e così disse:
Ahimè certo gli dèi mi chiamano a morte:
credevo mi fosse vicino l’eroe Deifobo,
ma è dentro le mura e mi ha ingannato Pallade Atena
[….] ma non voglio morire senza lotta né senza onore,
bensì facendo qualcosa di grande, che anche i posteri ricorderanno.
«La guerra di Troia fu diretta da allucinazioni. E i guerrieri che venivano comandati in tal modo non erano affatto simili a noi. Erano nobili automi che non sapevano quello che facevano» ha scritto Julian Jaynes. Allo stesso modo alcuni androidi di Philip K. Dick, così impauriti dal tempo che scorre, incoerenti e commoventi, rimandano a quella mente bicamerale.
È la tragedia, bellezza, la mente bicamerale. Ovvero eroi o persone comuni, costretti da eventi o deliberazioni (che li prescindevano) ad affrontare un conflitto, agire e morire. Eroi senza io, con poca, scarsa o parziale coscienza di sé.
Finché i due emisferi si unirono, e la mente bicamerale – e la poetica tragedia ad essa legata – cominciò a vacillare. In questo contesto arriva il teatro antitragico di Platone: nei dialoghi, il personaggio di Socrate (simpatico, sornione, svogliato, erotomane) inserisce nella narrazione la ricerca della techne, l’insieme delle varie arti, popolari e di quotidiano uso, la cui trattazione approfondita ci donerà la misura, la sola che potrà salvarci dall’imponderabile e dalle allucinazioni che da questo derivano.
Così alla sospensione tragica, a quello scarto tra deliberazione e accettazione, tra stupore e azione, si sostituisce il fascino della ricerca, il piacere della conoscenza di sé, degli altri, di sé tra gli altri.
Sarebbe poi interessante cercare di capire se e dove, di tanto in tanto, ancora oggi, faccia capolino la mente bicamerale e tutto il suo cöté tragico. La poetica della sospensione la ritroviamo forse nei versi di Majakovskij, nel suo tragico amore per il futuro, nel poema Di questo (1922-1923), nel quale si rivolge allo scienziato del futuro affinché lo resusciti. Il futuro per Majakovskij era tutto: nuova umanità, integrazione di tutti gli ambiti di vita che l’oppressione secolare e l’ipocrisia borghese avevano separato. Ma il futuro divorava il presente e il presente diventava sempre più angusto. L’ultimo anno della sua vita sarebbe stato un anno di delusione, di fallimenti, di amori infelici (Berardinelli, Cento poeti): «Se muoio non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi: il defunto non li poteva sopportare […] La barca dell’amore si è spezzata contro la vita di tutti i giorni […] Voi che restate siate felici».
La poetica della sospensione la ritroviamo nei versi di Pasternak, negli ultimi film di Tarkovskij, dove il vento e la pioggia immobilizzano il personaggio, nei lungometraggi manga di Mamoru Oshii, nell’incoscienza e nell’irrequietezza sentimentale dei personaggi di Fitzgerald, e di sicuro nell’opera del medico Cechov, che dimostra come sia possibile una razionale (e sentimentale) ricerca della verità, ma come quest’ultima, se trovata, sia così pesante da essere insostenibile: perché Iddio concedi la bellezza e questi occhi malinconici a uomini deboli, inetti, e perché essi ci piacciono tanto?
Nonostante gli inesauribili tentativi di elaborare una poetica tragica ora non possiamo più prescindere dall’idea di misura. Eppure, ora, nulla ci impedisce di pensare che misura e tragedia siano parenti stretti, praticamente gemelli.
Evoluzione del tragico (e della misura)
Un intellettuale in senso lato è una persona che governa con più praticità e facilità alcuni strumenti di misura. Si potrebbe terminare qui. Invece c’è bisogno di un’avvertenza. Il mondo cambia in fretta, si evolve con dinamismo. Le variabili in gioco sono molteplici. Troppe. A ben vedere a ridonarci la sensazione dell’imponderabile non è stato uno scrittore tragico, un filosofo o un critico d’arte ma un esperto di lombrichi e piccioni: Charles Darwin. L’evoluzione spiega molte cose, forse tutto. Ma c’è un aspetto della teoria (il più scabroso) poco analizzato: il darwinismo ci dimostra che siamo un prodotto del caso, il frutto d’intrecci imponderabili. E sospesi. Non c’è un dio che governa gli elementi (almeno per la teoria e per me), un principio primo, un punto di partenza certo, un risultato finale da raggiungere. L’amara tragica verità: potremmo non essere qui, su questa Terra, e nessuna teoria potrà mai convincerci che ne siamo i beneficiari finali. Siamo quello che siamo per un complesso gioco d’interazioni tra molteplici elementi. La natura, la nostra, è nient’altro che un prodotto culturale, il risultato di un continuo gioco di azione e reazione tra due entità, noi e l’ambiente. Quello che viene fuori è un prodotto labile, estemporaneo e soggetto a modifiche e integrazioni. Ne consegue che ogni misura conserva elementi tragici. È in fondo il disagio della civiltà o della cultura.
Allo stesso tempo la consapevolezza della complessità ci spinge a elaborare nuovi e raffinati strumenti di misura. Misuriamo, è vero, ma ci sarà sempre un momento, a misura effettuata, che vedrà rispuntare, come in un’allucinazione da mente bicamerale, una voce che perturba l’equili...