I nuovi poveri: politiche per le disuguaglianze
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I nuovi poveri: politiche per le disuguaglianze

  1. 100 pagine
  2. Italian
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I nuovi poveri: politiche per le disuguaglianze

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Un'analisi lucida del senso di insicurezza e instabilità che rende sempre più sfumati i confini tra chi è dentro e chi è fuori dalla società.Le politiche sociali dell'ultimo decennio e la recente crisi finanziaria hanno portato alla povertà fasce di popolazione fino a ieri abituate a una vita dignitosa. I "nuovi poveri" appartengono a un'ampia zona grigia, fatta di insicurezza, precarietà e fragilità relazionale. Dovis e Saraceno ci conducono in un viaggio attraverso una povertà invisibile, che investe famiglie e giovani che incontriamo ogni giorno, senza riconoscerli, per le strade del nostro quartiereo per le scale del condominio. Una povertà che porta con sé nuovi pericoli, l'esclusione sociale e la rottura del diritto di cittadinanza democratica.Pierluigi Dovis | è direttore della Caritas diocesana di Torino.Chiara Saraceno | è una delle maggiori sociologhe italiane. Esperta di temi sulla famiglia e sul lavoro, ha presieduto la Commissione di indagine sulla povertà. Collabora con lavoce.info e "la Repubblica".

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788875782337

Nuove povertà, nuove solidarietà

di Pierluigi Dovis
Stranamente, quella mattina di metà novembre mi trovavo nel mio piccolo ufficio, seduto a fianco del personal computer, intento a mettere un po’ di ordine nelle tante richieste di aiuto che mi erano arrivate nelle ultime settimane. Pochi metri più in là, in un box uguale al mio, due collaboratori stavano ricevendo alcune persone vittime della crisi economica e finanziaria che ha investito la nostra città a partire dal 2008. Era il turno di una signora che lamentava la perdita del lavoro a causa del fallimento – vero o presunto – dell’azienda in cui passava gran parte delle sue giornate da una decina di anni. Il consorte, trentanovenne geometra, era finito in cassa integrazione straordinaria, ma il suo boss già gli aveva preventivato come sarebbe potuta finire la vicenda: licenziamento per mancanza di commesse. La signora raccontava dapprima pacatamente, poi con ansia e infine con grosse lacrime agli occhi. A tutto assisteva la bambina, seconda di tre figli di età compresa fra i 20 mesi e i sette anni.
Forse stufa dell’immobilità a cui era costretta sulla sedia dell’ufficio, e attratta dalla piccola frenesia dell’area operativa degli uffici che si vedeva dal vetro della porta, riuscì a sgattaiolare fuori. Dopo un giro incuriosito per e sotto le scrivanie – almeno così mi raccontarono i collaboratori – guadagnò l’ultimo ufficio in fondo, il mio. Distolto per un momento lo sguardo dalle righe tristi tracciate da mani incerte più per la rabbia di vedere il mondo crollare intorno a sé che per l’insicurezza culturale, mi ritrovai due occhioni marroni che mi fissavano incuriositi. «Sei tu il capo qui?» fu la domanda che fece scaturire un risveglio di orgoglio personale. Al mio cenno di assenso partì la domanda che, in qualche modo, mi aspettavo: «Mi faresti un piacere?». Pronto a offrire il pass per qualche minuto di navigazione in internet sul computer in bella mostra al mio fianco, le risposi con massima disponibilità. Ma la domanda che mi rivolse fu davvero una freccia nel cuore: «Fai smettere di piangere la mamma?». In quello sguardo infantile preoccupato non del vestito della fatina ultimo grido, né dell’avvincente vicenda di Shrek, ma delle sorti di una famiglia, ho visto e continuo a rivedere il vero volto di quelle che i sociologi definiscono nuove povertà, oppure povertà grigie, o anche vulnerabilità sociale.
La domanda che il più delle volte mi viene rivolta riguarda principalmente le dimensioni del fenomeno, i numeri. Ma, di fatto, il buco nero di tale nuova situazione di emarginazione non preoccupa tanto per la quantità, quanto per la qualità. Poche o tante che siano, le situazioni di questo genere sono foriere di un’intensità interiore davvero profonda e incisiva, direi quasi più pesante di quelle estreme che ben abbiamo imparato a conoscere in tanti anni di lotta alla emarginazione. Proprio il fattore qualitativo pone serie difficoltà nel modo di approcciarsi ad esse, a partire dalla difficilissima capacità di scoprirle, fino alla quasi assoluta inadeguatezza dei loro metodi di risoluzione, ancora troppo ancorati al passato e a forme ben diverse di indigenza.
Ma proviamo ad andare con metodo alla ricerca dei tratti somatici dei volti delle vulnerabilità presenti oggi in questa città e nel suo contesto metropolitano. Uso volutamente il termine vulnerabilità, anche se sono ben cosciente che non sia del tutto preciso e un po’ ampio. Tutti, infatti, siamo vulnerabili per natura, a meno che non riteniamo di essere parte di una eletta schiera di superuomini costruiti sul modello suggerito da Nietzsche o su presupposti antropologici forse troppo ottimistici. Intendo vulnerabilità come esposizione concreta e oggettivamente reale di singole persone o di nuclei familiari al rischio di povertà in un contesto di vita ordinaria. Un rischio che le istituzioni dell’Unione Europea vedono realizzabile – e ben quantificabile – quando la persona in questione abbia a disposizione, per un tempo prolungato, al massimo il 60% del reddito mediano nazionale e versi in condizioni di privazione o carenza di beni fondamentali, tra i quali un’abitazione stabile.
La nostra esperienza diretta ci fa modificare questa definizione, identificando nella vulnerabilità quella zona esistenziale in cui si sperimenta, dentro a un contesto di vita assolutamente ordinario e non già in partenza svantaggiato, una situazione problematica derivante dalla necessità di svolgere compiti sociali cruciali per la persona, in mancanza di una riserva adeguata di risorse o capacità, e di relazioni che possano fornire aiuto. Basti pensare alla difficoltà nel dare vita ai meccanismi fondamentali della riproduzione sociale, primo tra i compiti generativi che ogni essere umano vive in sé a tutti i livelli. In tanti casi si tratta anche (e questa potrebbe essere un’altra definizione adeguata) dell’esposizione a processi di disarticolazione sociale che mettono a rischio l’organizzazione della vita quotidiana. Da qualsiasi punto la si guardi, però, la vulnerabilità è sempre caratterizzata da un’ambiguità di fondo: può evolversi verso forme di uscita dalla condizione di disadattamento con il recupero delle criticità, ma può anche andare verso vere carriere di povertà, come quelle a noi ben più note in riferimento alle povertà estreme o assolute. Utilizziamo, allora, il termine di cui stiamo parlando invece di quello più classico, povertà, lasciando a quest’ultimo il senso direi originario che lo lega, per la storia più che per la semantica, alla carenza di mezzi adeguati di sostentamento. In tal modo non cadremo nella trappola, perennemente tesa a tutti i comunicatori ma anche ai decisori pubblici, di “confondere fondendo”, ovvero di aggregare tra loro fenomeni in sé differenti. Con il risultato del balletto di cifre e percentuali, spesso rese note anche dai mezzi di comunicazione, che producono confusione e rischiano di alterare i contorni della realtà.
La qualità della vulnerabilità attuale che attraversa la nostra area metropolitana – ma mi pare che un discorso identico si possa fare per il contesto nazionale – è formata almeno da tre grandi famiglie sociologiche differenti, al di là delle stime provenienti dagli indicatori economici e sociali.
Alla base della piramide troviamo uno zoccolo duro di persone e nuclei familiari che vivono nella povertà grave, qualcuno anche in quella estrema. A Torino forse siamo intorno al 5% del totale del numero di cittadini vulnerabili, in questo caso davvero poveri. Non tutti si trovano al medesimo livello perché, lo sappiamo, la povertà non solo è sempre relativa al contesto, ma è anche orientata soggettivamente: fa riferimento, cioè, alla struttura della persona che ne è portatrice. Una fascia di disagio che in tanti credono pressoché disabitata ma che, in realtà, nell’ultimo lustro è andata incrementandosi. È vero che le persone senza dimora sembrano essere stabili nel numero, ma si è meglio delineata una loro figura più complessa. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di persone multiproblematiche che presentano una sorta di “pluri-diagnosi”, sempre più spesso sia sociale sia sanitaria. Diminuita la loro età media e innalzatosi il grado di istruzione, la buona parte dei sans abrì torinesi vive in strada a seguito di un fallimento familiare, soprattutto della famiglia di elezione. Cercare di contarli è un’impresa e, forse, non è poi la priorità. Una parte di essi, infatti, viene difficilmente intercettata perché decisamente nascosta nei luoghi dell’oblio, ovvero quelle aree ex industriali di alcune periferie della città che ospitano soprattutto cittadini di origine straniera, non in regola con i dettami di legge o soggetti a traffici immorali e a schiavitù vera e propria.
Sono i veri invisibili di Torino che fanno di tutto per rimanere tali, schiacciati dalla paura di un’espulsione o del Centro di identificazione di corso Brunelleschi. Oppure terrorizzati dai loro “padroncini”, come nel caso di non pochi rom di provenienza prevalentemente romena che si accalcano sulle sponde della Stura in una sorta di condomini contro-solidali, ben divisi in caste sociali.
Al piano nobile – per loro quello più in alto, vicino agli orti di superficie – i primi arrivati, ormai sistemati con automobili e roulottes dotate di vari comfort, sostenuti dal lavoro di chi abita nei gironi più bassi. Il piano di mezzo è quello destinato a chi sta salendo, per buoni servigi, a migliore condizione, quella di mezza costa. E, infine, lambiti materialmente dall’acqua calma (e tanto più da quella in crescita, nei momenti di piena) gli ultimi tra gli ultimi. Appena arrivati con ogni assicurazione, magari cacciati da altri contesti territoriali, devono campare alla meglio in capanne indegne dell’uomo e in compagnia di sorci e pantegane. Chi, come me, ha visto, assicura tutti che si tratta di una povertà declassante e irrispettosa di ogni dignità umana, a prescindere dall’aggettivazione che qualifica l’origine e la provenienza.
L’altra parte del popolo senza tetto la conosciamo un po’ tutti perché è fatta degli inquilini delle panchine, degli avventori di alcune tra le varie mense cittadine, dei frequentatori dei ricoveri notturni. Sono sempre di più persone disfatte dentro, anche a livello psichico. Alcool, in qualche caso droga, e randagismo ne hanno reso inoperoso non solo il braccio, ma anche il cuore e la mente. Per loro la città subalpina ha messo in campo tante attenzioni, da parte sia delle istituzioni sia del privato sociale solidaristico. Sono sì accompagnati, ma difficilmente recuperati. È una grande sfida che non vorrei vedere defilata solo a motivo del peso numerico non così rilevante.
Ma, negli ultimi cinque anni, sono cresciute le povertà gravi che non vedono la presenza della condizione di senza dimora. Vale a dire che c’è una parte di popolazione che ha la possibilità di una casa – e non stiamo a indagare se risponda o meno allo standard culturale che questo termine ha per noi – ma che fatica in modo grave a gestirla e a gestirsi in essa. Mi riferisco a persone con disabilità psichica di media entità che vivono da sole, anziani (in coppia o singoli) che non arrivano al minimo del contributo pensionistico o che proprio non lo hanno, uomini stranieri soli, persone non in grado di lavorare o incapaci di reperire e mantenere il lavoro. Così, anche nell’inverno passato, alcune di queste case si sono illuminate di notte alla fioca luce di una candela offerta pietosamente da qualche sacrestano, o “prese in prestito” dai candelabri di una chiesa. In altre il letto è stato spostato verso la parete più vicina al muro dell’alloggio adiacente: la parete è diventata inconsciamente un buon samaritano, portatore di un po’ di tepore per passare la notte alla meglio. Molte di queste situazioni rimangono nell’oblio per paura, per mancanza di strumenti di comunicazione interpersonale, per noncuranza; ma anche per la rigidità di procedure e di pensiero che le azioni di solidarietà verticale e orizzontale a volte portano con sé. Si dirà che è endemico, in una società, riscontrare sacch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuove povertà, nuove solidarietà
  3. Povertà, giustizia sociale, democrazia