Dittature dell'istantaneo. Black mirror e la nostra società iperconnessa
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Dittature dell'istantaneo. Black mirror e la nostra società iperconnessa

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La dittatura istantanea dell'opinione pubblica ha mille volti, tutti anti-utopici. Se i sei episodi autoconclusivi di Black Mirror sono legati da un filo rosso, è proprio questo messaggio di sfiducia nei confronti delle ragioni del volere collettivo, nei confronti dell'idea che siano buone, intelligenti a prescindere come vorrebbe chi nella tecnologia vede l'occasione per realizzare l'ideale millenario di un autogoverno di tutti, perché tutti sono collettivamente nel giusto. È il mito della società civile aggiornato all'era iperconnessa, ma per distruggerlo; è l'idea che l'intelligenza collettiva, fuori e dentro la rete, non produca che debolezza, dipendenza, derisione, asservimento.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788875784508

STAGIONE 1

Dopo il quarto potere (Episodio 1 – Messaggio al primo ministro)

Il primo ministro britannico Michael Callow è sotto ricatto; la principessa Susannah, rapita, è in pericolo di vita. Nella parte iniziale del primo episodio di Black Mirror il tema dominante è l’ecosistema dei media, con le sue ossessioni, i suoi vizi contemporanei e i suoi problemi strutturali. I giornali e i canali tv tradizionali sono per esempio gli ultimi ad arrivare sulla notizia, a rilanciare quello che sui social media tutti sanno, perché nato sui social media: una dinamica perfettamente descritta per la protesta di Gezy Park, in Turchia, dalla sociologa Zeynep Tufekci nel suo saggio sulla piattaforma Medium, Is the Internet Good or Bad? Yes. Tornando all’episodio, è su YouTube che i presunti rapitori pubblicano il video con l’ostaggio, che diventa virale. Il quarto potere è superato dal quinto, il network1.
Ma sono sempre i media “tradizionali” a inseguire lo scoop sul campo, con la giornalista che usa immagini del suo corpo seminudo via smartphone per convincere una fonte a rivelare ciò che sanno gli investigatori, e cercare di riprendere e mandare in diretta l’irruzione della polizia nel presunto covo dei rapitori. A complicare il senso di ambiguità in cui i media si muovono quotidianamente, la sensazione costante – e familiare per chi faccia il giornalista nell’era dei social media di massa – di stare prendendo un granchio, di non avere alcuna conferma (se non l’enorme, rapidissima popolarità dei video dei rapitori) che ciò che sta accadendo sia reale, e non una montatura creata ad arte. Come infatti si scoprirà essere.
Verità e menzogna nell’istantaneo
Perché è così importante il rapporto tra verità e menzogna in rete? Perché si lega alla dittatura dell’opinione pubblica di cui si è detto. La bugia (il taglio del dito della principessa, mai avvenuto dato che il dito non era il suo) è funzionale al mutamento dei sondaggi riportati dai media: prima con risultati favorevoli alla linea della non collaborazione del primo ministro, poi fortemente avversi. Così il primo ministro, mutando le decisioni di intervento a seconda del parere di masse disinformate da media che – pur in buona fede e in condizioni estreme – disinformano, finisce per fare il gioco dei “rapitori”. Che, a loro volta, si scopriranno essere non dei rapitori, ma il prodotto di una provocazione artistica vista in diretta da 1,3 miliardi di persone. A un anno dall’evento, un critico d’arte dirà che questo finto ricatto in mondovisione è «il primo capolavoro del ventunesimo secolo». Nel frattempo, «gli intellettuali discutono in merito al suo significato». C’è anche, in questo primo episodio di Black Mirror, una parodia o una forma estrema di provocazione rispetto al rapporto tra arti, nuovi media e società iperconnessa.
Ancora: il comportamento del primo ministro non è solo eterodiretto da una bugia, ma anche perfettamente inutile – dato che la principessa era stata liberata trenta minuti prima dello scadere dell’ultimatum («fai sesso con un maiale in diretta a reti unificate, o la uccidiamo»). Non sono solo i mezzi di informazione, insomma, a rischiare di uscire delegittimati dallo scontro con la dittatura del tempo reale, ma anche l’agire politico; lo si vede in Vota Waldo!, dove la democrazia istantanea diventa la retorica da vendere al pubblico stesso per giustificare la trasformazione di ogni decisione – anche le più complesse, o le più foriere di conseguenze in termini diacronici – in un referendum online, in un click, in un like. E dunque, suggerisce il finale, nella disintegrazione della deliberazione democratica. Che poi è esattamente quanto si osserva nei reali esperimenti di democrazia digitale, quando sono ridotti a click-democracy2.
Demenza collettiva
Che la massa, del resto, sia incapace di empatia, intelligenza, distacco e riflessione si comprende dalle reazioni tra il divertito, l’indifferente e il cinico del pubblico che osserva il proprio primo ministro umiliarsi in diretta e a reti unificate copulando con una scrofa. C’è il carico di odio della cosiddetta antipolitica verso la politica, ma anche e soprattutto l’esasperazione del nostro atteggiarci intransigente e derisorio sui social media, con quell’atteggiamento troll che tramuta ogni atto pubblico in spettacolo, reality, social tv. Così che, per arginare la viralità del video su YouTube che riprodurrà all’infinito l’umiliazione del primo ministro Callow, il governo immagina assurde (ma non poi molto, visto quanto ha proposto il vero primo ministro, David Cameron, dopo gli August riots) misure censorie, come quella di renderne illegale la fruizione dopo la mezzanotte.
Da ultimo, la morbosità del pubblico è tale che le autorità devono ricorrere a un segnale acustico che provochi nausea in chi lo ascolta. «Ma questa è storia», dice uno spettatore cui era stato chiesto di smetterla con quell’osceno atto di umiliazione e spegnere la televisione. «Ma è quasi un’ora che va avanti», la replica, inutile. Demenza censoria e collettiva si mischiano insomma in quella che è una paradossale raffigurazione del nostro dipendere sociale dalle labbra di verità effimere, istantanee, che poi nemmeno si rivelano tali.
1 Non a caso è proprio il film diretto da Sidney Lumet Quinto potere (Network, 1976) a costituire una delle principali fonti di ispirazione per Black Mirror, come sostiene lo stesso ideatore, Charlie Brooker.
2 Si veda Fabio Chiusi, Critica della democrazia digitale, Codice edizioni, Torino 2014.

L’avatar e l’indignato (Episodio 2 – 15 milioni di celebrità)

Di 15 milioni di celebrità, Charlie Brooker ha scritto: «Nel 1984 Apple fece una famosa pubblicità che implicava che il Mac avrebbe potuto salvare l’umanità da un futuro da incubo orwelliano. Ma a cosa somiglierebbe un futuro orwelliano che gira su un software Apple? Probabilmente», risponde, «un po’ al secondo episodio di Black Mirror», satira feroce del movimento del Quantified Self e dei datasexual, gli individui che tramutano la loro personalità nei loro dati, e che legano le loro sorti a quelle dei numeri prodotti dai device cui sono dipendenti per ogni attività quotidiana. L’assunto dell’antiutopia di questo secondo episodio della serie tv è riduzionista: deriva dall’accettare uno strato sociale per cui i diritti fondamentali dipendono dal punteggio prodotto dalle sue azioni. Un pericolo reale, certificato dagli studiosi di disuguaglianze sociali, che vedono nella possibilità di nuove discriminazioni basate sui dati – a volte, già concrete – il vero e proprio lato oscuro del Big Data.
Io sono i miei dati
In questo modo, la satira colpisce anche il concetto di gamification, l’idea di tramutare le proprie azioni di ogni giorno – perfino quelle socialmente utili, perfino gli obblighi – in missioni e compiti da svolgere in un videogioco, o comunque in una competizione basata su una misurazione competitiva delle proprie performance. Tutto il male che viene, l’accettazione della violenza, dell’odio verso i sottoposti, della prostituzione pubblica che si sostituisce all’espressione artistica (la ragazza co-protagonista, Abi, canta nel talent show – Hot Shot – che regge il regime distopico, eppure i giudici le offrono un ruolo non da cantante, ma da pornodiva); tutto questo male discende dall’accettazione dell’identità tra io e dati, e anzi dell’essere i dati perfino superiori all’io (è il punteggio che stabilisce se gli schiavi, tenuti in gabbie a pedalare per accumulare punti, possano partecipare al talent).
Il futuro dell’iper-personalizzazione
Da questa identità distopica discende poi anche l’idea che la pubblicità commerciale si possa evitare solamente spendendo una parte dei propri punti-vita; che evitare il marketing costi ore alla “bicicletta”, a produrre energia insensata per una massa sociale insensata. L’intrusione è totale, nonché inevitabile, se non si paga: se si chiudono gli occhi, lo spot si interrompe e una voce digitalizzata e petulante impone di riaprirli; se li si gira altrove, lo schermo ti insegue. Tutto è tarato esattamente per il fruitore, e intervallato da un costante bombardamento di stimoli sessuali; per tenere a freno istinti di violenza, forse – con il talent nella parte degli orwelliani «due minuti d’odio». La conseguenza di questa accelerazione catastrofista dei pericoli evidenziati da Eli Pariser ne Il filtro1, riassumibili in sostanza nella domanda su cosa accade quando le aziende pubblicitarie sanno di te più di un tuo caro o di te stesso, è una sensazione di smarrimento ontologico, come se la costante immersione nel mondo degli slogan comportasse il distacco dal senso di essere qui e ora, e dunque il sopravvivere della percezione del tempo dipendesse da un corretto rapporto tra propaganda e verità. «A volte, quando mi guardo attorno, vorrei solo avere la possibilità di assistere a qualcosa di reale, almeno una volta», dice il protagonista. Ma non è solo per via del talent show: tutto lo è diventato. E cosa è un programma del genere se non la più perfetta congiunzione di commercio e distrazione, da un lato, con emotività e ambizione personale, dall’altro? La sensazione di irrealtà è poi incentivata dall’uso costante e pervasivo dell’avatar che sostituisce l’individuo in carne e ossa: altra conseguenza della gamification applicata alla propria sfera personale e civile.
L’avatar e l’indignato
Il fulcro della distopia dell’episodio sta nella vicenda del protagonista, Bingham “Bing” Madsen. Possessore di un’eredità di ben 15 milioni di punti-vita prima li cede tutti per consentire alla donna di cui si innamora...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Lo specchio nero del presente
  3. Contro la dittatura del pubblico istantaneo
  4. STAGIONE 1
  5. STAGIONE 2