Le cellule della speranza. Il caso Stamina tra inganno e scienza
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Le cellule della speranza. Il caso Stamina tra inganno e scienza

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Quindici anni dopo la vicenda che vide protagonista Luigi Di Bella, con il caso Stamina l'Italia si è nuovamente trovata alla mercé di falsi profeti. Questi, facendo leva sulle sofferenze dei malati e dei loro parenti, e sfruttando una diffusa e generale ignoranza, sono quasi riusciti a destabilizzare le regole più avanzate della medicina e della scienza, mettendo a rischio il funzionamento stesso del Servizio Sanitario Nazionale. In Le cellule della speranza alcuni esperti e protagonisti della battaglia civile condotta contro le manipolazioni politiche del caso Stamina hanno ricostruito l'intera vicenda, inquadrandola alla luce di quanto oggi succede all'estero, dove ricerca e sperimentazione clinica sono impegnate ad approfondire le conoscenze sulle cellule staminali.Contributi di Paolo Bianco, Mauro Capocci, Elena Cattaneo, Gilberto Corbellini, Rossella Costa, Pino Donghi, Michele De Luca, Valentina Mantua, Graziella Pellegrini. Perché le cellule staminali sono diventate il nuovo santo Graal della medicina? Che cosa è successo davvero nel caso Stamina? Chi sono Davide Vannoni e Marino Andolina, e come mai dietro di loro si muovono consistenti interessi economici?

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788875784478

Capitolo 1

Le storie delle cellule staminali: dalla rigenerazione alla medicina rigenerativa

di Mauro Capocci

La rigenerazione e le staminali tra mito e realtà1

Oggi la branca della medicina basata sulle potenzialità delle cellule staminali, conosciuta come medicina rigenerativa, costituisce una frontiera della ricerca biomedica. Benché solo di recente essa sia riuscita a “conquistare” un considerevole spazio nel discorso pubblico, è possibile tuttavia individuarne le radici più profonde nelle origini della cultura umana. Fin dall’antichità, infatti, è stata osservata la rigenerazione dei tessuti in diversi organismi, un fenomeno, questo, che ha dato origine a miti e a studi naturalistici. Ad attirare l’attenzione in particolar modo sono stati i rettili: la ricrescita della coda in serpenti e lucertole, nonché il periodico cambiamento di pelle divennero presto simboli di immortalità, o di eterna giovinezza. Non è dunque un caso che il serpente sia diventato il simbolo della medicina fin dai tempi di Asclepio, o che nell’Epopea di Gilgamesh, poema sumero scritto a metà del terzo millennio a.C., si narri del furto della pianta dell’eterna giovinezza da parte di un rettile strisciante. Né si può certo dimenticare Prometeo con il suo fegato capace di rigenerarsi nottetempo in seguito ai danni provocati da un’aquila, la cui storia costituisce un vero mito fondativo della scienza. Prometeo è il semidio che dona il fuoco agli umani, motivo per il quale viene punito da Zeus e la straordinaria capacità del fegato di riformarsi – molto più lenta di quanto scritto nell’epica greca – è stata osservata negli animali già nell’Ottocento dal patologo tedesco Clemens Emil Ponfick e ristudiata nuovamente verso la metà degli anni cinquanta del secolo scorso2. Il mito prometeico esercita un fascino notevole ancora adesso e basta fare una rapida ricerca di pubblicazioni scientifiche negli archivi (come, per esempio, Pubmed, il sito del National Center for Biotechnology Information, che si può visitare al seguente indirizzo: http://tinyurl.com/gc3ge) per rendersi conto di come la rigenerazione del fegato resti ancora indissolubilmente legata all’eroe greco anche per gli scienziati.
Diversi naturalisti dell’antichità hanno descritto i processi di rigenerazione negli animali, come Aristotele che tra gli altri osservò che i pulcini delle rondini erano in grado di rigenerare gli occhi danneggiati: una notazione importante per la correlazione tra lo stadio di sviluppo dell’organismo e la capacità di rinnovare i tessuti. Tuttavia, si dovette aspettare la fine del Seicento perché avesse inizio lo studio scientifico del fenomeno, scoperto in diverse specie di crostacei. In questo periodo la rigenerazione venne utilizzata come banco di prova per testare la validità delle teorie embriologiche, un esperimento naturale che servì a stabilire in quale modo si formavano gli embrioni e che stimolò il dibattito tra preformismo ed epigenesi. Da una parte, vi erano i preformisti che sostenevano che al momento della creazione gli organismi erano tutti “pre-formati” e ad ogni generazione veniva “riattivato” uno di questi embrioni con le rispettive strutture anatomiche già perfettamente formate e che per semplice accrescimento diveniva un adulto.
Dall’altra parte, vi era il modello dell’epigenesi, per il quale l’organismo aveva origine da una materia indifferenziata e prendeva forma gradualmente. Quest’ultima era la posizione tradizionale, sostenuta già da Aristotele, ma che non poteva che cedere il passo di fronte al progresso della microscopia. A partire dal Seicento, infatti, l’uso del microscopio portò alla luce un nuovo universo e condusse, per esempio, alla scoperta degli spermatozoi e ci fu persino chi, come Nicolaas Hartsoeker, credette di vedere un piccolo essere umano all’interno dello spermatozoo, un homunculus. Da questo punto di vista, però, la rigenerazione era un’anomalia da spiegare: come si poteva riformare qualcosa in un organismo che era già esistente dall’inizio dei tempi? Come poteva un animale “sapere” di dover far ricrescere solo un pezzo di coda o un arto? Domande, queste, alle quali i sostenitori dell’epigenesi potevano rispondere solo evocando dei fumosi processi di sviluppo che a quell’epoca avevano scarso o nessun supporto empirico.
Di contro, nel contesto culturale del Sei-Settecento la posizione preformista sembrava preferibile, poiché invocava un semplice processo di accrescimento e l’“ipotesi Dio” non era al di fuori della scienza dell’epoca. Così capitò che studiosi come Lazzaro Spallanzani, eccellente e inesausto sperimentatore, prediligessero proprio la teoria preformista, per poi scontrarsi in ogni caso con i fenomeni della rigenerazione: questi la scoprì per primo nelle salamandre, nel 1768, e non nascose il sogno di poter un giorno riuscire a indurre lo stesso processo nella nostra specie.
Dal punto di vista medico la situazione, però, era tutt’altro che incoraggiante, poiché la pratica clinica infatti aveva compiuto minimi passi in avanti nella conoscenza e nell’utilizzo dei processi di sviluppo dell’individuo (l’ontogenesi) e rigenerazione fisiologica (che erano già considerati associati, o almeno simili). Si sapeva ovviamente che alcuni tessuti e organi erano in grado di riformarsi, come le ossa, per esempio, che possono riparare i danni subiti attraverso un processo la cui natura fu oggetto di esperimenti condotti da Albrecht Haller su cani, gatti e pulcini a metà del Settecento. Pochi decenni dopo, venne alla luce anche il potenziale rigenerativo dei nervi recisi: prima nella loro struttura anatomica, studiata da Felice Fontana e William Cumberland Cruikshank, e in seguito anche nella loro funzionalità, come dimostrarono le esperienze del medico inglese John Haighton nel 1795.
Dal punto di vista prettamente medico-clinico la capacità rigenerativa del corpo umano era nota solo in parte: per le “parti molli” il processo di cicatrizzazione, per esempio, era attribuito alla chiusura dei vasi sanguigni, mentre per le “parti dure”, come le ossa, era comunque possibile solo una terapia minima che stimolasse la rigenerazione, un fenomeno di cui – come scrive alla metà del secolo Antoine Louis nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert alla voce Régénération – «siamo più debitori alla natura che all’arte». Nel 1775, in un Trattato sulle malattie delle ossa, pubblicato poi in diverse edizioni nel corso del Settecento, il chirurgo Jean-Louis Petit non diede grandi suggerimenti per favorire la formazione del callo osseo, ma si limitò a dispensare solo consigli dietetici, per fare in modo che il “succo ossoso”, che produce il callo osseo, avesse la giusta composizione. Pertanto, per aiutare l’opera della natura si suggeriva un’alimentazione conveniente, con principi “balsamici” o “ingrassanti”, di facile digestione o diluenti.
La situazione rimarrà immutata per lungo tempo, con scoperte e sviluppi legati soprattutto alla biologia, piuttosto che alla medicina della rigenerazione. Del resto, non poteva essere altrimenti data la scarsità di mezzi a disposizione e la difficoltà intrinseca di una vera sperimentazione clinica. La medicina sperimentale e il suo corredo pratico e teorico vedranno la luce solo alla metà dell’Ottocento, mentre la biologia sperimentale avrà proprio Spallanzani tra i padri fondatori. Più che un fenomeno da sfruttare dal punto di vista terapeutico, la rigenerazione rimarrà a lungo un “esperimento naturale”, in grado di corroborare o refutare teorie sugli organismi viventi: come tale, sarà ampiamente descritto, ma poco compreso e soprattutto difficile da riprodurre in modo mirato. Questo approccio “fenomenico” si prolungherà per gran parte dell’Ottocento, con ripetute e sempre più precise osservazioni dei processi rigenerativi nei diversi organismi. Ogni parte dell’individuo, in tante e diverse specie, veniva sottoposta a mutilazioni per osservare i risultati.
Grande attenzione venne riservata in particolare alle fibre nervose, e questo perché nella medicina tra Settecento e Ottocento molte controversie riguardarono l’importanza dei nervi nella conservazione o nel ristabilimento della salute e dell’equilibrio fisiologico. Di conseguenza, definire una sorta di gerarchia dei diversi sistemi presenti nell’organismo – per esempio, attribuendo maggiore importanza alla circolazione sanguigna rispetto alla linfa – divenne una questione di un certo rilievo. Pertanto, gli esperimenti che mostravano una capacità di rigenerazione dei nervi venivano utilizzati per stabilire una sorta di necessità dell’esistenza del sistema nervoso. I migliori scienziati dell’epoca dedicarono moltissime energie alla questione, dimostrando in modo inoppugnabile la capacità rigenerativa delle fibre nervose, attraverso un processo che apparve da subito diverso dalla cicatrizzazione degli altri tessuti. Tuttavia, nonostante le numerose prove a favore, furono molti gli studiosi – anche influenti – a esprimersi negativamente sulla rigenerazione nervosa, favorendo così un esteso dibattito sulle condizioni necessarie perché il fenomeno avesse luogo. Ancora verso la fine degli anni sessanta dell’Ottocento si facevano sperimentazioni al riguardo, dimostrando che l’unità di base del sistema nervoso era l’elemento fondamentale e necessario perché avvenisse la rigenerazione. Separato dai “centri trofici” (situati soprattutto a livello dei gangli) che ne garantiscono la “nutrizione”, il nervo periferico degenera, con la mielina che va incontro a una “trasformazione grassa” e viene riassorbita. La rigenerazione, invece, prende avvio da un tessuto «molto ricco di elementi giovani, con un meccanismo analogo a quello della formazione dei nervi nell’embrione»3, come scrisse nel 1867 Alphonse Laveran – scopritore del plasmodio della malaria.
Tuttavia, le fibre nervose hanno una natura e una funzione particolari, messe in evidenza dagli esperimenti di Tweedy John Todd, pubblicati nel 1823. Prima o dopo l’amputazione dell’arto in una salamandra acquatica (la stessa specie utilizzata da Spallanzani), Todd tagliò anche il nervo sciatico a monte dell’amputazione: il risultato fu che il processo rigenerativo non si avviava. Ugualmente, quando il nervo veniva resecato a rigenerazione già iniziata, il nuovo arto fermava la sua crescita, diventando informe o andando incontro a una rapida regressione, fino a scomparire. Fu la chiara dimostrazione di «qualcosa di peculiare nell’influenza del nervo»4. Todd aveva scoperto l’esistenza del cosiddetto fenomeno neurotrofico, cioè il fatto che il ruolo dei nervi non si limita alla conduzione degli impulsi sensoriali, ma questi sono fondamentali nel mantenimento di una sorta di integrità dell’organismo nel suo complesso.
Nella prima metà dell’Ottocento si ampliarono notevolmente gli studi sulla fisiologia della rigenerazione, superando persino la verifica dell’esistenza del fenomeno in numerosi organi e tessuti. Vennero studiati a fondo i cicli vitali dei denti, dei tessuti cornei e dei peli, e venne alla luce la capacità rigeneratrice del cristallino nei conigli. Anche la riparazione delle fratture fu analizzata con sempre maggiore precisione, cercando di capire da dove avesse origine il nuovo tessuto: questa fu una questione che attrasse l’attenzione dei ricercatori in tutta Europa, divisi tra chi pensava a un ruolo preminente dell’osso e chi, invece, attribuiva funzioni fondamentali al periostio (la membrana vascolarizzata che ricopre le ossa).
La teoria cellulare sviluppata alla fine degli anni trenta modificò radicalmente l’approccio allo studio della rigenerazione, consentendo non solo di analizzare sempre più nel dettaglio i processi rigenerativi, ma introducendo anche nuove concettualizzazioni relative al parallelo tra rigenerazione e sviluppo individuale. Le cellule e i processi che le organizzano, di qualsiasi natura fossero, divennero così la materia prima per i fenomeni rigenerativi e proprio a partire da questo momento iniziarono a farsi strada concetti quali differenziamento, cellule germinali, totipotenza. Nel Manuel de Physiologie di Johannes Peter Müller si può leggere: «La forza di produrre l’intero organismo non appartiene a tutte le cellule che si formano durante la crescita, né alle molecole dei tessuti che da esse provengono: questa forza, che dal principio appartiene a una sola o a un piccolo numero di cellule, cioè risiede nel germe […] L’accrescimento consiste dunque, almeno in parte, nel fatto che il tutto potenziale di una cellula si trasforma in un tutto esplicito, con delle cellule numerose, differenti le une dalle altre per ciò che concerne la loro struttura e la loro costituzione chimica»5.
La natura del processo di differenziamento rimaneva il vero nodo da sciogliere: i fenomeni di rigenerazione fornivano ancora una volta una lente di ingrandimento su questo meraviglioso meccanismo che da una sola cellula porta alla complessità di un intero organismo.

La scoperta delle cellule staminali

È in questo contesto di studi (l’emergere della fisiologia sperimentale, la teoria cellulare, la ricerca sulla rigenerazione) che nella seconda metà dell’Ottocento venne introdotto l’uso del termine e del concetto di cellula staminale, a indicare una cellula “primigenia”, con significato evolutivo o fisiologico. Stammzelle, infatti, fu il nome che nel 1868 il naturalista darwiniano Ernst Haeckel propose per l’ipotetico organismo alla base di tutto l’albero evolutivo della vita. Una sorta di “falsa partenza”, poiché per vedere il termine utilizzato con un significato più vicino a quello attuale si deve aspettare la fine del secolo, dopo che proprio il ricambio fisiologico delle cellule fu individuato come una delle caratteristiche fondamentali dei tessuti e come tale degno di attenzione, non solo come strumento per la comprensione della biologia, ma anche per il suo potenziale medico.
Sulle proprietà di rinnovamento, nel 1894 il medico italiano Giulio Bizzozero fondò una duratura classificazione dei tessuti dell’organismo umano – labili, stabili, perenni – avendo compreso che la vita di un organismo è legata a un «processo continuo, fisiologico, di rigenerazione che vale a conservarne immutate la costituzione e le proprietà»6. Inoltre, le teorie di August Weismann sui determinanti che sarebbero presenti nelle cellule germinali e somatiche, con il differenziamento che procede per “sottrazione” nel corso dello sviluppo, spinsero molti ricercatori – soprattutto tedeschi – a studiare il percorso delle cellule dalle prime fasi fino allo stadio adulto.
Da questi studi emerse l’esistenza di alcune cellule più importanti di altre, che all’inizio dell’ultimo decennio dell’Ottocento furono battezzate da diversi autori con il nome di Stammzellen: nel 1892 Theodor Boveri e Valentin Haecker usarono il termine proprio con questo significato, relativo allo sviluppo individuale7. Tuttavia, in questo caso non si parlava di rigenerazione, né si trovò alcun legame del genere nel primo uso anglosassone del termine stem cell, introdotto da Edmund Beecher Wilson nel 1896. Direttamente collegato alla rigenerazione è invece l’uso che ne fece nel 1894 Jacob Keller, secondo il quale queste Stammzellen «nella planaria hanno il compito della rigenerazione ed eventualmente si prestano alla prolificazione fissipara»8.
La denominazione non sarà adottata immediatament...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione di Gilberto Corbellini e Mauro Capocci
  3. Capitolo 1. Le storie delle cellule staminali: dalla rigenerazione alla medicina rigenerativa di Mauro Capocci
  4. Capitolo 2. L’“affare Stamina”: diario dell’attacco politico-commerciale alla medicina in Italia di Paolo Bianco
  5. Capitolo 3. Le cellule staminali dal laboratorio alla clinica: dialogo con due protagonisti
  6. Capitolo 4. Ragionare a passion veduta. Dell’incomunicabilità tra gli attori della vicenda Stamina di Pino Donghi
  7. Capitolo 5. Umore, emozioni e profili comportamentali del caso Stamina di Valentina Mantua
  8. Capitolo 6. In conclusione… perché il caso Stamina si è verificato in Italia? di Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini
  9. Epilogo di Mauro Capocci e Gilberto Corbellini
  10. Appendice 1. Cronologia essenziale del caso Stamina di Stefania Bettinelli e Gilberto Corbellini
  11. Appendice 2. Cronologia della ricerca sulle cellule staminali mesenchimali (MSC) in rapporto agli sviluppi della scienza delle staminali e della medicina rigenerativa di Paolo Bianco, Mauro Capocci e Gilberto Corbellini
  12. Gli autori