La scienza negata
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La negazione della scienza come rifiuto dell'inedito, come paura del sovvertimento di un ordine, come crisi di valori: un pregiudizio che viene da lontano e che si è radicato in maniera più o meno forte in diverse epoche e in diverse società. L'Italia più di altri paesi continua su questa strada di "rivolta della ragione", di strenua e ottusa resistenza. Con "La scienza negata" lo storico della scienza Enrico Bellone riprende il racconto di questo rifiuto scavando nelle sue cause e nelle sue conseguenze, analizzando il ruolo non secondario che schiere di intellettuali, moralisti, religiosi e politici hanno avuto nel presentare un quadro della conoscenza deformato e pericoloso.

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Informazioni

Parte II. La scienza e la ragione come nemiche dell’uomo
Capitolo 1
La matematica disumanante e la banda dei sei
Un filosofo raffinato e colto scorge nell’approccio matematico alla natura uno svuotamento di senso, una crisi generale dell’umanità, una perdita del mondo della vita. E cerca la salvezza in un recupero dell’antica sapienza a noi ormai celata dall’avvento della scienza galileiana. Lo svelamento è affidato a filosofi che agiscono come funzionari di una nuova umanità e che possono cogliere il senso profondo della crisi della scienza. Passano i decenni, e un famoso opinionista descrive la matematizzazione dei fenomeni come una intossicazione della ragione, suggerisce un ritorno alla cultura vera dei primi cristiani e delle tribù di cacciatori e raccoglitori, ai meccanismi naturali dell’ordine divino: in questo caso, i funzionari dell’umanità non si battono per una filosofia prima, ma per un uso delle fonti energetiche rinnovabili. Un abisso separa il filosofo e l’opinionista. Ma il messaggio inviato da entrambi è il medesimo: la matematica ci allontana dall’essenza dell’uomo.
Università di Gottinga, 1904. Un piccolo gruppo di studenti segue corsi di matematica, fisica e astronomia. Nell’elenco dei docenti figurano personaggi epocali: David Hilbert, Felix Klein, Hermann Minkowski, Enrst Zermelo e Karl Schwarzschild. Oggi sappiamo abbastanza bene che cosa succede, in quel periodo, a Gottinga. Lo sappiamo anche attraverso i ricordi di uno studente, un giovane ebreo che si chiamava Max Born e che nel 1954 avrebbe vinto il Premio Nobel per la fisica. Nella sua autobiografia, Max Born narra infatti degli interessi che animavano la vita culturale in quella splendida università (Born, 1980). Racconta anche di aver seguito alcune lezioni e qualche seminario del filosofo Edmund Husserl, che proprio a Gottinga stava sviluppando una ricerca sulla matematica. Max Born dichiara tuttavia di aver presto abbandonato ogni interesse per quella ricerca. Il suo giudizio è tranciante: «Se la scienza significa qualche cosa non può certo servirsi della filosofia di Husserl». Quest’ultima pretende, secondo Born, di giungere a una dimostrazione conclusiva sulla natura stessa della matematica e di giungervi per mezzo «dell’introspezione, della contemplazione e dell’analisi verbale». Il che costituisce «un atteggiamento inconciliabile con la scienza»: «Infatti chi ha raggiunto una simile dimostrazione diventa facilmente un fanatico, un credente mistico, non più avvicinabile con il ragionamento e la discussione».
Parole dure. Aggravate, se possibile, da una riflessione generale che va al di là della valutazione su Husserl: «Quando ebbi i miei primi approcci con la filosofia, ebbi l’impressione che i filosofi, muovendosi in mezzo al concetto di infinito senza l’esperienza e le precauzioni dei matematici, erano come navi immerse nella nebbia in un mare pieno di scogli pericolosi, e ciononostante felicemente ignari del pericolo».
Non credo si possano avere dubbi sulla raffinatezza del pensiero di Husserl. Ed è altresì innegabile che il giovane Born sapesse maneggiare il concetto di infinito. Dopo poche lezioni di matematica, infatti, Hilbert aveva esaminato gli appunti stesi da Born: e lo studente era stato immediatamente scelto, in pratica, come assistente del maestro. Ci si trova, dunque, in una situazione caratterizzata da una frattura tra ciò che è la matematica secondo Born, Hilbert o Minkowski, e ciò che invece è la matematica secondo Husserl, e dal fatto che il punto di vista del filosofo ha viaggiato nella cultura d’occidente lasciandovi più segni di quanti ve ne abbiano inciso gli studi dei fisici e dei matematici di Gottinga. La critica husserliana ha diffuso messaggi forti, i quali, attraverso traduzioni concettuali di varia natura, sono ancora oggi vivi e presenti. Vivi e presenti come matrici di visioni specifiche della funzione che la matematica stessa avrebbe esercitato sia nella costruzione della scienza e della tecnica contemporanee, sia nel rapporto complessivo tra l’uomo e la natura. Ne abbiamo la prova rileggendo l’opera matura di Husserl, che viene elaborata a cavallo tra il 1935 e il 1937, ed è consegnata nelle pagine di un testo classico del Novecento: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Va subito precisato che l’espressione “crisi delle scienze” è fonte di qualche difficoltà. Negli anni Trenta del Novecento si registra infatti un’evoluzione tumultuosa delle scienze matematiche, fisiche e naturali. La parola “crisi”, invece, è normalmente usata per parlare di processi che in qualche modo sono segnati da patologie più o meno gravi. In via del tutto preliminare ci si deve allora chiedere se, a parere di Husserl, si registrano patologie tali da autorizzare l’impiego della parola “crisi”, quali esse siano, e se esistono terapie. Non è semplice trovare una risposta immediata nel volume di Husserl: il linguaggio usato è denso e il testo è rimasto incompleto a causa della morte del suo autore. Il nucleo argomentativo del libro è tuttavia esposto in modo trasparente. Husserl non nega che la scienza del Novecento sia in una fase di crescita robusta. Egli tuttavia ritiene che tale crescita debba essere reinterpretata all’interno di una crisi generale dell’umanità.
Questa crisi generale è di per sé stessa evidente in quanto le scienze matematizzate hanno preso il posto della filosofia e hanno portato a uno «svuotamento di senso». L’ultima espressione va ulteriormente chiarita. Secondo Husserl, infatti, esiste un mondo che possiamo definire come pre-scientifico e che è accessibile a ogni essere umano, indipendentemente da competenze in matematica, fisica o biologia. Questo mondo è il «mondo della vita». La crisi generale dell’umanità poggia allora su un fatto: la scienza ha costruito un altro mondo, che è il «mondo vero in sé» e che si sovrappone al «mondo della vita». Il quale, di conseguenza, non è più accessibile alle stesse discipline psicologiche, dato che queste ultime sono ormai forgiate sul modello delle altre scienze. È allora evidente, a parere di Husserl, che l’affermarsi delle scienze coincide con uno svuotamento di senso e con un sostanziale fallimento delle scienze stesse. Queste ultime si sono infatti sostituite alla filosofia e sono dunque in crisi perché, nel processo storico della sostituzione, non hanno mai potuto percepire il senso di se stesse. La crisi è, nello stesso tempo, crisi delle scienze e crisi di un’umanità privata di vie d’ingresso al «mondo della vita» e confinata nel «mondo vero in sé». Possiamo tuttavia avere speranze di salvezza, tentando di recuperare la filosofia come forma della ragione che si manifesta e opera come scienza universale. Non a caso, dunque, Husserl, condanna senza mezzi termini «le mere scienze di fatti», che «creano meri uomini di fatto», ed elogia i funzionari dell’umanità:
Noi non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito, nella possibilità di una conoscenza universale. Noi sappiamo di essere chiamati a questo compito in quanto vogliamo essere seriamente filosofi. […] Noi siamo dunque – e come potremmo dimenticarlo? – nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere dei filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos e che, se può essere realizzato, lo può soltanto attraverso la filosofia.
Essendo questa la situazione, è necessario capire la trasformazione subita dalla ragione umana con l’avvento dell’epoca moderna. Già nella cultura degli antichi Greci erano emerse forme specifiche di scienza. Quelle forme, però, non erano giunte a prospettare un «compito infinito», a suggerire la «grande novità» che Husserl espone parlando «di una totalità infinita dell’essere e di una scienza razionale che lo domina razionalmente». Per gli antichi, insomma, era del tutto estranea la prospettiva stessa di una «matematica formale» e di una «scienza naturale matematica» di tipo galileiano. Ci si deve pertanto interrogare sul “senso” della matematizzazione galileiana della natura. E, nell’interrogarci, «dobbiamo essere molto precisi», tenendo conto del fatto che lo stesso Galilei non aveva capito le fondamenta implicite del suo stesso operare, né poteva capirle:
Al fine di chiarire la formazione del pensiero galileiano, non dobbiamo ricostruire soltanto ciò che motivava consciamente Galileo. Piuttosto sarà molto istruttivo chiarire ciò che comportava implicitamente il modello matematico che lo guidava; anche se, data la direzione dei suoi interessi, ciò doveva restare per lui oscuro e doveva naturalmente penetrare nella sua fisica in quanto ne costituiva il nascosto presupposto di senso.
Il chiarimento parte dalla constatazione che tutti noi siamo alloggiati in un «mondo intuitivo» dove non abbiamo alcuna esperienza di corpi geometricamente ideali, ma di corpi reali le cui proprietà, così come effettivamente ci sono presenti, sono pensabili soltanto in termini di gradualità: i corpi sono «più o meno» retti, piani, circolari e via dicendo. Tali sono, dunque, «le cose del mondo intuitivo», i corpi «empirici reali» che noi sentiamo nella «prassi reale» e che sono condizionati dagli interessi particolari degli umani.
Ma proprio nella sfera degli interessi umani più genuini si è ormai installata una procedura per cui «con l’umanità continua a progredire anche la tecnica», con un interesse sempre più dominante verso ciò che è tecnicamente raffinato. Un’ideale di perfezione, questo, che ci rende inclini a privilegiare le forme ideali, a mutarci in «geometri». L’instaurazione di una prassi matematica ci fa allora credere di poter cogliere un’esattezza che ci è invece negata nella sfera umana della «pratica empirica». Interviene anche la «misurazione empirica», per mezzo della quale si avvia la transizione da un interesse pratico ad uno teoretico che sfocia in «un pensiero puramente geometrico». Ecco, allora, Galilei. Ecco una fisica nuova, che assimila la geometrizzazione senza cogliere il senso di quest’ultima e il problema della sua stessa origine, ma accogliendola come uno strumento della tecnica:
Se i compiti empirici e molto limitati della prassi tecnica avevano motivato originariamente quelli della geometria pura, da parecchio tempo, ormai, la geometria, in quanto “applicata”, era divenuta un mezzo della tecnica e la guidava nella concezione e nell’adempimento dei suoi compiti: in particolare del compito di elaborare sistematicamente una metodica della misurazione per la determinazione obiettiva delle forme in un costante avvicinamento, mediante l’“approssimazione”, agli ideali geometrici, alle forme limite.
Galilei, in altre parole, non capiva che la geometria era un «ramo della filosofia» e che pertanto coinvolgeva problemi filosofici che andavano ben al di là della mera competenza professionale del «geometra». Non capiva che le forme empiriche sono a noi umani date non come forme pure, ma attraverso «ciò che si rappresenta nelle cosiddette qualità specifiche di senso, colore, suono, odore e simili, e secondo peculiari gradualità». Grazie all’opera galileiana, però, anche queste ultime qualità sono poi rientrate nella matematizzazione globale del mondo delle forme:
Ciò che noi esperiamo nelle cose stesse, nella vita pre-scientifica, i colori, i suoni, il calore, il peso, ciò che noi esperiamo casualmente, l’irradiazione calorica di un corpo che riscalda i corpi circostanti, e simili, è naturalmente costruito, da un punto di vista “fisicalistico”, da vibrazioni sonore, da vibrazioni caloriche, cioè da puri eventi del mondo delle forme. Questa asserzione universale viene assunta oggi come un’ovvietà indiscutibile.
Eppure, seguendo Husserl, siamo appena sulla soglia della vicenda. Nella rappresentazione dell’impresa galileiana, infatti, deve ancora agire quella che, in realtà, è «l’operazione decisiva»: la coordinazione reale delle idealità matematiche, che porta alle «formule» e quindi alle «previsioni». Gli scienziati di marca galileiana hanno un interesse appassionato per le formule, e subiscono «la tentazione di vedere in queste formule e nel loro senso il vero essere della natura stessa». Si realizza così un’«alienazione di senso», come chiaramente si capisce non appena si ricorda che emerge una aritmetizzazione della geometria che trasforma il pensiero geometrico in «formazioni algebriche». A questo punto, dunque, «agiscono soltanto quei modi di pensiero e quelle tecniche che sono indispensabili a una tecnica come tale».
Il mondo delle formule si sovrappone alla natura e si svuota sia il pensiero geometrico, sia il pensiero delle scienze naturali. È in atto «un vero e proprio occultamento di senso», poiché si realizza «una sovrapposizione del mondo matematizzato» all’unico mondo reale, «al mondo che si dà realmente nella percezione, al mondo esperito ed esperibile, al mondo circostante della vita. Questa sovrapposizione è stata ereditata dai successori, dai fisici di tutti i secoli successivi». Non si deve pensare che Husserl abbia l’intenzione di screditare Galilei e i suoi eredi: «Io pongo in tutta serietà Galileo alla testa dei grandi scopritori dell’epoca moderna, e così ammiro in tutta serietà i grandi scopritori della fisica classica e post-classica». Né Husserl ritiene di dover umiliare la scienza riducendola a una mera tecnica. Il suo obiettivo è invece quello di illuminare, sino in fondo, le «erronee conseguenze» che proprio grazie a Galilei furono tratte a proposito delle qualità sensibili. Qui il filosofo sembra rifarsi alle opinioni espresse da Galilei ne Il saggiatore, là dove, nel 1623, si profila una distinzione tra le qualità che risiedono nelle cose e quelle che invece starebbero solo nell’osservatore. Nel testo galileiano si sostiene che certe proprietà, usualmente impiegate per descrivere il comportamento degli oggetti, non appartengono agli oggetti stessi. Facciamo un esempio. Diciamo, in date situazioni, che una cosa è profumata. Eppure, per dire che è profumata, abbiamo bisogno di affidarci a sensazioni, e le sensazioni si creano negli organi di senso dell’osservatore. Un osservatore privato del naso non percepisce profumi: questi ultimi, quindi, hanno realtà solo nell’osservatore. Analoghe considerazioni valgono per le sensazioni di caldo. Secondo Galilei, noi diciamo che un oggetto è caldo solo perché percepiamo l’arrivo, sulla nostra epidermide, di un certo numero di corpuscoli che si muovono con certe velocità. La parola “caldo”, in poche parole, è un nome vuoto, in quanto non designa una proprietà dell’oggetto. In conclusione, Galilei ritiene che le cose disposte nel mondo abbiano poche proprietà reali, quali la forma geometrica o la quantità di materia, e che di tali proprietà, indipendenti dall’osservatore, la scienza debba interessarsi. Husserl commenta questa presa di posizione e la critica in quanto essa sfocerebbe nella dottrina della «mera soggettività delle qualità specificamente sensibili», secondo cui «i fenomeni sono soltanto nei soggetti» e «la natura è nel suo “vero essere in sé” matematica». La dottrina deve essere oggetto di critica in quanto Galilei, con la sua scienza, «astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto ciò che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana».
La negazione dello spirito e delle persone assume pertanto la forma del dominio, rappresentato come egemonia della fisica e della matematica su tutto. E il dominio, allora, coinvolge l’intera umanità, poiché è sia dominio sulla natura, sia «dominio su sé stessi e sugli altri uomini». In conclusione della sua analisi, Husserl dichiara che è ormai «insopportabile» quella che a suo avviso è un’«oscurità delle relazioni metodiche e contenutistiche tra le scienze naturali e le scienze dello spirito», grazie alla quale l’umanità è di fronte al «pericolo estremo». Possiamo tuttavia batterci per un nuovo futuro, per una «nuova spiritualità […] perché soltanto lo spirito è immortale». La contrapposizione husserliana tra scienza e spiritualità è netta. Ed altrettanto netta è l’individuazione della matematica come fonte del pericolo estremo, della crisi generale dell’essere umano.
Ebbene, alcuni decenni più tardi, anche un opinionista popolare e molto ascoltato (soprattutto da politici e giornalisti) come Jeremy Rifkin attira la nostra attenzione su quella medesima fonte. Il linguaggio e i riferimenti intellettuali dell’opinionista sono completamente diversi da quelli che sono consegnati nelle pagine di La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Ma vale la pena di controllare alcune analogie. Il controllo può essere svolto leggendo un testo recente, che porta un titolo impegnativo: Entropia. La sua prima edizione – Entropy. Into the Greenhouse World – risale al 1980, e nel 2000 è apparsa in Italia una versione riveduta e aggiornata. Il titolo è effettivamente impegnativo, poiché la parola “entropia” rimanda i lettori a quella seconda legge della termodinamica che, come annotava lo stesso Einstein, è molto difficile da capire. Rifkin però spiega come, in sostanza, le difficoltà non stiano nella fisica, ma nello spirito. In fin dei conti, la legge dell’entropia stabilisce soltanto che «quando si crea un apparente maggior ordine in qualsiasi punto dell’universo o della Terra, ciò avviene a spese di un disordine ancor più grande causato all’ambiente circostante». Il vero problema sollevato da questa legge sta, secondo l’autore, nella difficoltà di cogliere «la dimensione nascosta del nuovo paradigma entropico». Ci si deve infatti rendere conto che, in realtà, «la legge dell’entropia distrugge l’idea che la scienza e la tecnologia creino un mondo più ordinato». E per rendercene davvero conto è necessario procedere per passi. Il primo passo è essenziale. Infatti, come dichiara Rifkin, la legge entropica governa solamente «il regno orizzontale del tempo e dello spazio», ma «tace quando si arriva al regno verticale della trascendenza spirituale». Questo argomento è fornito come vero a priori. Come tutti sanno, infatti, «lo spirito ha una dimensione non materiale». Ne segue, a stretto fil di logica, che:
Mentre la legge dell’entropia aiuta a governare il mondo del tempo, dello spazio e della materia, essa è a sua volta governata dalla forza spirituale primordiale che l’ha concepita. […] Una profonda comprensione della legge dell’entropia è quindi essenziale per poter capire il contesto fisico dal quale tutte le nuove esistenze spirituali dovranno nascere.
La via verso la «profonda comprensione» va trovata usando una mappa precisa. E Rifkin introduce il lettore all’esplorazione della mappa facendo innanzitutto osservare che sta sorgendo una nuova visione del mondo che, proprio in quanto fa leva sulla seconda legge della termodinamica, tende a sostituire la classica visione newtoniana della natura. Il narrante è consapevole del fatto che pochissimi esseri umani («probabilmente neanche una persona su cento») hanno le competenze necessarie per capire un testo di meccanica newtoniana. Rifkin dedica allora un gruppo di 17 pagine per illustrare ciò che egli definisce come il «paradigma meccanicistico» o la «visione meccanicistica del mondo», e che, a suo avviso, costituisce una sorta di bozza progettuale per l’era delle macchine. Il progetto è stato elaborato, nella sua fase iniziale, da tre architetti: Bacone, Cartesio e Newton. Il Bacone di Rifkin scrisse nel Seicento un libro che fu un «capolavoro di propaganda» a favore del metodo scientifico. Un metodo che deliberatamente gettava ombre sul sapere antico dei Greci, basato sulla ricerca del “perché” e lo sostituiva con la ricerca del “come”. Il testo baconiano, quindi, non era un vero e proprio trattato filosofico, ma, nel senso letterale del termine, «una circolare d’ufficio»:
Quante volte abbiamo sentito il nostro capo ripeterci che il mondo va affrontato così com’è, non come vorremmo che fosse. In questi casi il capo non se ne rende conto ma è come se citasse Bacone quando questi sosteneva che dovremmo “costruire nella nostra mente un vero modello del mondo come realmente è, e non come la ragione umana vorrebbe che fosse”.
Non so se Rifkin abbia meditato su Husserl, e se questo accenno a un mondo che si sovrappone a quello della ragione umana è una ripresa, in chiave gazzettiera, del rapporto husserliano tra un mondo matematizzato e un mondo della vita. È comunque notevole il punto di vista che Rifkin sviluppa parlando di Bacone. La circolare baconiana, così come è letta in Entropia, bandiva i “perché” e, di fatto, separava l’osservatore da ciò che era osservato. Operazione, questa, che doveva garantire “un terreno neutrale per la crescita di una conoscenza oggettiva”. La neutralità, però, non era del tutto garantita dalla propaganda di Bacone. Il sigillo vero sarebbe stato posto da Cartesio, che «non era un modesto» e che, in una giornata di pioggia, concepì l’idea che solo la matematica fosse in grado di decifrare la natura e governarla. L’intero universo diventava così dominato dal rigore e dalla precisione, ma questo mondo matematizzato «era privo di odori, colori e sapori». Stava quindi svanendo la visione dei greci, che, secondo Rifkin, ovunque scorgeva caos e disordine, e anche ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Premessa
  3. Parte I. Cronaca di un disastro programmato
  4. Parte II. La scienza e la ragione come nemiche dell’uomo
  5. Conclusione
  6. Bibliografia