Il trattamento residenziale breve delle dipendenze da alcol e cocaina
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Il trattamento residenziale breve delle dipendenze da alcol e cocaina

Il modello Soranzo

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Il trattamento residenziale breve delle dipendenze da alcol e cocaina

Il modello Soranzo

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L'abuso e la dipendenza da alcol e cocaina, come le situazioni di polidipendenze, necessitano di interventi qualificati, specialistici, intensivi, che prevedano la possibilità di periodi residenziali, oltre che la capacità di costruire una robusta rete territoriale. Il volume esamina questa tematica, a partire dal percorso riabilitativo e assistenziale messo a punto nell'ambito di Villa Soranzo. Questo tipo di approccio multiprofessionale rappresenta un modello e una proposta per migliorare la qualità e l'appropriatezza degli interventi, mettendo il paziente al centro del processo di cura come promotore attivo della propria salute.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788889688960
Argomento
Medicine

1 Generalità sui trattamenti residenziali brevi

Mauro Cibin 1
1 Medico Psichiatra, Direttore Dipartimento per le Dipendenze della Azienda ULSS 13 del Veneto, Dolo Venezia

1.1 Introduzione

Da alcuni anni a questa parte in Italia si sta assistendo alla crescita dell’interesse per i programmi residenziali brevi, in particolare per il trattamento dell’alcolismo e del cocainismo.
Questi programmi si differenziano sia dalla residenzialità psichiatrica sia dalle comunità terapeutiche per tossicodipendenti: entrambi questi interventi infatti giungono di solito dopo percorsi di trattamento ambulatoriale e sono rivolti a soggetti con forte compromissione personale e sociale.
Volendo individuare un modello per la residenzialità breve, è opportuno fare riferimento piuttosto ai programmi “28 giorni” anglosassoni, o alle “cliniche psicoterapiche o psicosomatiche” tedesche. In questi modelli infatti l’intervento residenziale viene visto come momento di inizio, in cui effettuare interventi diagnostici, di motivazione e di prevenzione della ricaduta, e in cui sviluppare un piano di trattamento; in molti casi sono inclusi interventi di sblocco e regolazione emotiva e di “facilitazione” ai gruppi di auto-aiuto.
Programmi Residenziali Riabilitativi Alcologici (RRA), situati in sedi ospedaliere pubbliche o private in realtà esistono dalla fine degli anni ’80. Nella maggior parte dei casi si tratta di situazioni di ricovero riabilitativo nate nel contesto del grande sviluppo delle attività di intervento sull’alcolismo e sui problemi alcol-correlati registratasi in Italia in quegli anni, fenomeno che ha anche determinato la costituzione di reti ambulatoriali e la diffusione nel territorio di gruppi di auto-aiuto (CLUB Alcologici Territoriali; Alcolisti Anonimi; Al-Anon) [Hudolin, 1994]. Le Residenzialità Riabilitative Alcologiche si sono recentemente coordinate nel gruppo CoRRAl (Coordinamento Residenzialità Riabilitative Alcologiche) [Cerizza, 2008].
La costituzione di programmi brevi in ambito comunitario è più recente e si colloca all’interno del percorso evolutivo delle Comunità Terapeutiche [Cibin, 2009].
Le comunità terapeutiche in Italia sono nate (salvo alcune eccezioni) come “programmi di vita”, fondate sull’idea della dipendenza come problema che coinvolge globalmente la persona, e che può essere contrastato solo con un cambiamento altrettanto globale. La vita comunitaria stessa è, in questa visione, lo strumento del cambiamento attraverso l’interazione continua con gli altri utenti e con il personale. Le comunità, fondate spesso da personalità carismatiche, erano caratterizzate dalla coesione interna umana e ideologica e da una forte impronta etica, talvolta associata ad atteggiamenti salvifici e moralistici; vi si riscontravano resistenze verso trattamenti, in primo luogo farmacologici, ma anche psicoterapici, sentiti come non coerenti con l’ideologia di base. Il personale tendeva a definirsi più per l’adesione all’idea comune che per la specificità professionale (ancora oggi in molte comunità non si distinguono psicologi ed educatori, ma tutti vengono definiti “operatori”). In questa fase anche i pazienti (“i ragazzi”, “gli ospiti”) avevano caratteristiche definite: tossicodipendenti da eroina con diverso grado di marginalità che accettavano un percorso di cambiamento di vita dopo aver “toccato il fondo”.
Negli anni ’90 si assiste al graduale ingresso dei farmaci, e in particolare del metadone, in comunità. Un convegno organizzato in quel periodo dal CEIS di Mestre veniva intitolato “Metadone da Tiffany”, a sottolineare il timore che questo farmaco potesse sconvolgere la delicata “gioielleria” comunitaria. Il metadone consentiva di intervenire in situazioni in precedenza ingestibili e di aprire a tipologie diverse di utenti (cronicità, doppia diagnosi). Questa apertura ha portato in molti casi a uno snaturamento delle caratteristiche originali delle comunità, a cui spesso non è seguita la formulazione di una nuova mission e il conseguente adeguamento professionale del personale.
Alle soglie del 2000 le comunità si trovano costrette tra il calo della loro utenza tradizionale, costituita da eroinomani con situazioni personali e sociali gravi, e le nuove richieste di apertura a tipologie diverse e di maggiore professionalità. I processi di accreditamento e i budget predefiniti costringono a rivedere la struttura stessa della comunità; in molti casi questo genera una crisi profonda in cui molte comunità tuttora si dibattono.
L’attivazione di programmi specialistici brevi per alcolisti e cocainomani si colloca in questo contesto. L’attivazione di questi programmi non implica solo l’acquisizione di competenze specifiche, ma tocca alcuni nodi di fondo, di seguito esaminati.

1.2 Il concetto di addiction come malattia

Il concetto di addiction come malattia ha delle importanti implicazioni per il paziente e per il terapeuta, e definisce in maniera precisa il rapporto di cura.
Per il paziente, infatti, dire che una dipendenza è una malattia equivale a sottolineare che:
  • non è “colpa” sua, ma che è sua responsabilità curarsi;
  • non è curabile con la sola volontà, ma richiede interventi “tecnici”;
  • non è curabile contro la sua volontà.
Non si tratta dunque di un concetto passivizzante, come da alcuni sostenuto, ma che al contrario sottolinea la “responsabilità” del curarsi, minimizzando la “colpa” che, nella maggior parte dei casi, è fonte di passività e rassegnazione.
Vale la pena di ricordare come i primi a definire la dipendenza come malattia siano stati gli Alcolisti Anonimi: in un contesto di condanna morale dell’alcolismo la “neutralità” della malattia era sentita come molto rassicurante. Gli Alcolisti Anonimi descrivono per primi come elemento centrale della “malattia alcolismo” la compulsione, quello che noi oggi chiameremmo “perdita di controllo”.
A scanso di equivoci, sia chiaro al lettore che stiamo parlando di malattia in senso lato e complesso (se vogliamo “disturbo”, in accordo col DSM, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), non di una “malattia curata dal medico con medicine”.
Nelle Comunità, nate con basi differenti, l’acquisizione di questo concetto e delle sue implicazioni comporta un profondo cambiamento di atteggiamenti e strategie, cambiamento certamente non facile né indolore.
Dal punto di vista del terapeuta le implicazioni del concetto di malattia sono altrettanto importanti; in un contesto di questo tipo infatti il terapeuta:
  • è un professionista;
  • fa riferimento a definizioni scientifiche (diagnosi, modello diatesi/stress, neuroscienze);
  • interviene con tecniche specifiche e validate (terapia);
  • valuta l’efficacia degli interventi.
L’applicazione del modello di malattia implica un cambiamento del rapporto terapeutico: il paziente diviene parte attiva del processo, sentendosi sempre più “cliente” e sempre meno “tossico” o alcolista; non si sentono cioè persone marchiate dalla dipendenza, ma cittadini che nella loro vita sono incorsi in un “incidente” di dipendenza; persone che conservano la propria libertà di scelta e la capacità di assumersi le responsabilità della vita. È necessario che i terapeuti accolgano e promuovano questi cambiamenti; quando parliamo di atteggiamento motivazionale, parliamo di questo: il confronto tra la “agenda” ormai condizionata da tempi stretti del terapeuta e la “agenda” del paziente, che necessita di tempi personalizzati, di spazi emotivi, rispetto per le proprie esigenze e i propri percorsi, anche qualora si rivelino sbagliati. L’altro lato dell’atteggiamento motivazionale del terapeuta è l’assunzione di responsabilità da parte del paziente, che implica l’accettazione delle conseguenze dei propri atti e delle proprie scelte.
Al di là delle specifiche tecniche, questo “atteggiamento motivazionale” dovrebbe permeare tutta la nostra attività clinica; questa considerazione vale per ogni patologia, ma in particolare per l’addiction, sempre più definita come “patologia dei processi motivazionali” (vedi Capitoli 2 e 8).

1.3 Il ruolo delle comunità come parte del percorso terapeutico

Il percorso breve implica la necessità di collegamento stretto con programmi territoriali. Le comunità devono rinunciare al ruolo totalizzante assunto in passato e confrontarsi con i servizi e i gruppi di auto-aiuto per costruire un’efficace rete di supporto.
Vista in questo modo, l’apertura di programmi brevi destinati a soggetti non ancora deteriorati da un punto di vista sociale e personale rappresenta una sfida importante per le comunità, qualcosa di completamente diverso rispetto alla prospettiva di divenire sempre di più contenitori di cronicità e disagio sociale aspecifico. Purtroppo va segnalato che accanto a situazioni di vero impegno per il cambiamento ve ne sono altre in cui vengono semplicemente riproposte con nomi nuovi cose vecchie, con grave danno per pazienti che vengono collocati in programmi inadatti, e per i budget dei Servizi, che vengono spesi per interventi impropri.

1.4 Popolazioni ed esigenze speciali: alcolisti e cocainomani

I programmi residenziali brevi sono soprattutto indirizzati a soggetti nei quali la dipendenza non ha ancora determinato un grave deterioramento sociale e personale; pazienti che conservano una vita familiare e lavorativa, per quanto “lesionata”, e un’accettabile capacità di gestire la propria vita. In genere queste caratteristiche sono più frequenti tra alcolisti e cocainomani, o comunque tra soggetti che utilizzano sostanze diverse dall’eroina; nulla vieta tuttavia che anche tra gli eroinomani vi siano persone con le caratteristiche descritte [Gilmore, 1985].
Analogo discorso vale per la comorbilità psichiatrica: non è la diagnosi “codificata” (categoriale) a fare la differenza ma la capacità di autonomia personale e di relazione con gli altri (dimensionale).
Volendo dare una definizione basata su elementi clinici degli utenti che traggono il maggior beneficio dai programmi brevi, è utile rifarsi alla tipologia di Cloninger [Cloninger, 1981; Cloninger, 1987; Leggio, 2008; Leggio, 2009] (Tabella I). Questa classificazione, che è part...

Indice dei contenuti

  1. Colophon
  2. Prefazione
  3. Preambolo
  4. Introduzione
  5. 1 Generalità sui trattamenti residenziali brevi
  6. SEZIONE 1. Dalla neurobiologia alla clinica
  7. 2 Neuroscienze, sostanze, emozioni
  8. 3 Emozione e cognizione: l’equilibrio interemisferico
  9. 4 Psicobiologia del craving
  10. 5 Il ruolo del ricovero nell’abuso di alcol, cocaina e benzodiazepine. L’esperienza di Medicina delle Dipendenze del Policlinico di Verona
  11. SEZIONE 2. Strumenti cognitivi
  12. 6 La mindfulness e la prevenzione delle ricadute nel trattamento dei disturbi da uso di sostanze
  13. 7 La prevenzione della ricaduta e l’analisi funzionale
  14. 8 Appunti sull’approccio motivazionale. Che cosa fare quando il paziente è poco paziente?
  15. SEZIONE 3. Strumenti emotivi
  16. 9 Psicotraumatologia
  17. 10 Il corpo come strumento di lavoro emotivo
  18. SEZIONE 4. Aftercare
  19. 11 Il mondo dell’auto-aiuto
  20. 12 Aftercare
  21. SEZIONE 5. L’esperienza di Villa Soranzo
  22. 13 Gamblers in comunità: sperimentazione di un trattamento residenziale a Villa Soranzo
  23. 14 Studio di follow-up sui pazienti della comunità terapeutica Villa Soranzo
  24. 15 Villa Soranzo non è un luogo, è un’idea: aspetti pratici, clinici e di supervisione