La comunicazione motivante nella terapia di sovrappeso e obesità
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La comunicazione motivante nella terapia di sovrappeso e obesità

Principi e strategie pratiche

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La comunicazione motivante nella terapia di sovrappeso e obesità

Principi e strategie pratiche

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Una teoria della motivazione nei pazienti in sovrappeso, e la possibile conseguente applicazione in ambito clinico, suscita un indubbio fascino nei terapeuti della nutrizione. Poter disporre di uno strumento che induca il paziente ad adottare misure terapeutiche che vanno nella giusta direzione rappresenta forse il sogno di ogni professionista che opera in questo ambito.Come posso aiutare il mio paziente a perdere peso, riportandolo alla razionalità dei pensieri, e conseguentemente dei comportamenti? L'intento di questo manuale è fornire ai professionisti che si occupano di sovrappeso e obesità gli strumenti di base per comprendere e applicare una comunicazione motivante nella pratica clinica. Grazie alla decennale esperienza sul campo degli autori, il manuale presenta numerosi esempi pratici sull'impostazione delle domande (domande aperte, domande chiuse, domande chiave), del fornire informazioni, delle espressioni di sostegno, delle diverse fasi del colloquio e dei casi difficili.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788897419624
Argomento
Medicina

1 La motivazione a perdere peso

Non sempre ciò che sembra è ciò che è.
In ambito sanitario, ma non solo in quest’ambito, quando ci ritroviamo a dover lavorare con persone che necessitano di “cambiare” uno o più aspetti della propria vita, potenzialmente rischiosi per la propria salute, siamo costretti ad imparare rapidamente la difficile arte del convivere con l’onta del fallimento. È frustrante dover osservare che una persona la cui vita è a rischio per via del proprio peso non riesca a mangiare di meno e più correttamente, così da migliorare la propria situazione. E tanto più il cambiamento che vogliamo proporre nei nostri pazienti è in linea con le nostre stesse credenze, con i nostri valori personali, tanto più difficilmente accetteremo che il nostro paziente non riesca a cambiare: «Proprio non capisco perché fa così».
Eppure, a vederlo da fuori, non sembra logico quest’atteggiamento, non sembra logico questo non voler cambiare. Sembra così ovvio che dopo un attacco di cuore le persone mangino meno grassi; sembra così normale che un uomo con un diabete di tipo II riduca l’uso di alimenti ricchi in zuccheri semplici; sembra così scontato che se si ha un BMI di 35 non si debba abusare di junk food.
E probabilmente il punto di vista da cui nasce l’esigenza di lavorare sulla motivazione delle persone è proprio quello: “sembra” ma non “è”.
Questo paradosso evolutivo, in cui una persona stessa sembra attentare alla propria esistenza, ci pone dinnanzi ad una domanda a cui occorrerà trovare rapidamente una risposta: perché le persone non fanno ciò che è universalmente riconosciuto come utile e virtuoso per la propria salute? In poche parole, perché le persone non riescono a seguire un programma per la perdita di peso anche quando è chiaro che ne avrebbero bisogno?
Eppure, ci sforziamo di personalizzare la dieta, la discutiamo con lui, la modifichiamo, bilanciamo, concediamo persino il giorno di libertà, ma niente, i numeri parlano chiaro e parlano duro: uno su dieci rispetta le nostre benedette regole, gli altri intraprendono un cammino inverso che va in direzione della perdizione, lasciando noi terapeuti ad affermare: «Non c’è niente da fare, è senza speranza».
Molte volte, a questa fase di frustrazione fa seguito un senso di disappunto, che in alcuni casi ci spinge, persino, ad “aggredire” un paziente, sbattendolo contro il muro della amara realtà, che non può non vedere – o almeno, così pensiamo noi – nel tentativo di incrementare la sua percezione del disagio: «Lei, se continua così, rischia la vita».
E queste, di norma, sono le ultime parole che potremo rivolgere al nostro paziente, poiché probabilmente non lo vedremo più.
La verità è che noi terapeuti, a volte, sottovalutiamo un aspetto: chi è sovrappeso conosce bene il disagio causato dal proprio sovrappeso, in fondo lo sperimenta ogni istante della propria vita senza la necessità di un grillo parlante pronto a ricordarglielo. In tutta onestà, chi meglio della persona in sovrappeso può sapere che essere in sovrappeso è un problema?
E tutto questo ci porta nuovamente al punto di partenza, a quella domanda posta qualche riga sopra: perché le persone non riescono ad avere successo in un programma per perdere peso?
I motivi possono essere tanti, a volte logistici, d’incompatibilità con altri eventi della vita, a volte economici. Tuttavia, è possibile ricondurli ai tre aspetti fondamentali che riportiamo di seguito:
  • in alcuni periodi, non è il momento giusto per iniziare un programma che richiede un certo impegno. Altri eventi, come cambiare casa, cambiare lavoro, sposarsi, separarsi, possono competere con l’impegno necessario richiesto per la perdita di peso. Per queste ragioni, spesso, si è indotti a posticipare la decisione di perdere peso;
  • altre volte, ciò che ci si propone di fare è troppo distante dalle proprie possibilità. In poche parole i pazienti non si sentono fiduciosi di riuscire a raggiungere gli obiettivi proposti;
  • in altri casi, molto semplicemente, non è una cosa che si desidera così intensamente. Perdere peso non è ritenuto poi così importante, poiché i vantaggi di ridurre il peso sono percepiti come inferiori agli svantaggi, e i costi da sostenere per fare delle rinunce e dei sacrifici sono considerati insostenibili.

1.1 Che cos’è la motivazione?

Volere è solo il primo passo per provare a potere.
I tre aspetti appena espressi, chiamati in causa per riassumere i motivi per cui le persone non perdono peso, sono sintetizzati brillantemente nell’espressione coniata da Miller e Rollnick («Pronto, desideroso e capace»), che i due autori considerano come i tre pilastri che costituiscono quella condizione nota come “motivazione” [Miller & Rollnick, 2004] (Figura 1).
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Figura 1. I tre pilastri della motivazione [Miller & Rollnick, 2004]
«Il paziente è motivato», «Quel paziente non è abbastanza motivato», «Prima di dimagrire bisogna essere motivati». Tutti noi abbiamo usato questo termine in relazione a successi e insuccessi terapeutici. Ma, davvero, che di cosa stiamo parlando?
Devo dire che non vi è univocità nella definizione attribuita a questo costrutto, univocamente considerato essenziale per il cambiamento in qualunque area della vita, e credo che quella che segue possa rappresentare una buona sintesi di quanto presente in letteratura a questo proposito.
Possiamo considerare la “motivazione” come una specifica forza personale in grado di indurre un individuo a compiere specifici comportamenti finalizzati a modificare uno o più aspetti della propria vita, allo scopo di raggiungere un determinato obiettivo che si considera vantaggioso.
Di conseguenza, qualsiasi atto compiuto in assenza di motivazione è destinato a fallire.
Mi capita frequentemente – immagino sia lo stesso anche per voi – che alcuni pazienti, al primo colloquio, raccontino di essersi rivolti ad un professionista in quanto sentivano il bisogno di trovare qualcuno che li controllasse, una persona al cospetto della quale provare vergogna nel caso in cui non avessero seguito le regole della terapia. Non è raro imbattersi in persone che nel tentativo di auto-motivarsi cercano una sorta di terapeuta-poliziotto, pronto a multare come si fa con un automobilista quando supera i limiti di velocità consentiti. Del resto, esistono terapeuti – e purtroppo anche pazienti – che considerano motivanti gli insulti, le prediche, le paternali e persino le minacce. Vista così la motivazione, si potrebbe anche pensare di usare un pungolo, come si faceva in passato con i cavalli pigri, per stimolare le persone sovrappeso a stare alla larga dal cibo.
Non è raro assistere negli ambulatori specialistici a vere e proprie crociate emozionali condotte da noi terapeuti che, lancia in resta, ci proiettiamo nell’eroico tentativo di convincere il nostro paziente a fare ciò che gli proponiamo.
Sebbene le ricerche scientifiche giungano a conclusioni diverse, non è del tutto da escludere che questo atteggiamento verso i pazienti, in qualche modo, possa davvero indurre alcuni a perdere peso, e magari essere persino considerato un valido metodo motivante.
Tuttavia, se siamo qui, io a scriverne e voi a leggerne, è perché né io né voi lo riteniamo una soluzione valida. Pensiamo che possano esistere modi migliori di condurre i colloqui con i pazienti.

Diversi modi di cambiare

Cambiare comportamento alimentare, perdere peso, è assai diverso da molte altre forme di cambiamento, dove spesso può essere applicato il modello astensionistico: si può smettere di fumare, di usare droghe, di giocare ai videopoker e di bere alcol. È possibile interrompere del tutto ognuno di questi comportamenti e la nostra vita potrebbe andare avanti perfettamente. Tuttavia, questo modello non può trovare collocazione nel nostro ambito, visto che non si può smettere di mangiare. Se il problema che si vuole affrontare si chiama sovrappeso occorre applicare il modello della moderazione, con cui un paziente “impara a maneggiare con cura, e occorre anche che questo modello sia applicato nel tempo, poiché il bisogno di mangiare ha un andamento ondulatorio – a volte è più intenso e altre meno – e dovremo imparare a confrontarci con esso tre-cinque volte al giorno, per tutta la vita.
Per usare un senso metaforico, immaginate un ciclista che dovrà scalare un’unica vetta, anche se molto ripida. La salita sarà dura, ma arrivato in cima lo sforzo sarà finito. Una volta scollinato inizierà una discesa rilassante. Al contrario, ora, immaginate un ciclista che ha davanti a sè infinite montagne, magari non molto ripide, ma che dovrà scalare una dopo l’altra senza soluzione di continuità. Questo ciclista sarà chiamato costantemente ad attingere alle proprie risorse per affrontare il percorso. Normalmente quando ne parlo con i miei pazienti, questo esempio rende bene l’idea di ciò che voglio dire. Se lo ritenete, usate anche voi questa metafora.
Per tutte queste ragioni, la motivazione che caratterizza il cambiamento in ambito alimentare, finalizzato alla perdita di peso, deve necessariamente essere una forza intrinseca, che coinvolge e modifica i propri valori, le proprie credenze. Una figura forte, il biasimo, la frustrazione per la vergogna del fallimento possono migliorare i comportamenti delle persone nel brevissimo periodo, ma non posso produrre quel cambiamento necessario ad indurre un nuovo e diverso modo di pensare al proprio peso e alla propria alimentazione.
Affinché questo accada, il coinvolgimento della persona deve essere totale, la partecipazione attiva, la presenza da protagonista. Egli deve collaborare al programma di cambiamento imparando ad esprimere le proprie abilità, accettando di mettersi in gioco e sperimentare un nuovo modo di vivere e pensare alla propria quotidianità. E perché questo si possa realizzare occorre che il paziente sia davvero motivato, occorre, cioè che egli sia contemporaneamente desideroso, capace e pronto.
  • Desideroso. Il desiderio ha a che fare con la percezione del bisogno che il peso si riduca. Si tratta della voglia di colmare lo spazio esistente fra il “come sono” e il “come vorrei essere”. Solo se c’è sufficiente distanza fra lo stato attuale e gli obiettivi futuri ci si può muovere verso il cambiamento. Dietro il desiderio vi è la fonte dell’energia intrinseca che induce le persone a considerare di perdere peso, le ragioni per cui lo si vuole ottenere. Capita, a volte, di assistere a decisioni improvvise, magari dopo anni di inerzia, in seguito ad una diagnosi pericolosa, ad esempio la sindrome delle apnee notturne (potenzialmente letale) o una grave artrosi alle ginocchia (con la prospettiva di condurre una vita da invalidi). In altre circostanze, la decisione diventa imminente in prospettiva di una variazione del proprio status (matrimonio, gravidanza, cambio di lavoro). Ogni terapeuta, in sede di colloquio motivazionale, dovrà far leva su queste spinte utilizzandole per accrescere la motivazione al cambiamento.
  • Capace. Capita molte volte che un paziente percepisca distintamente il desiderio di ridurre il proprio peso, ma nonostante ciò non si senta capace di mettere in atto determinati comportamenti funzionali a raggiungere il proprio obiettivo: «Vorrei perdere peso ma non ci riesco, è più forte di me». In circostanze simili è frequente che il paziente, non potendo cambiare gli aspetti che lo caratterizzano, ne cambi la percezione, ed entri in una fase di negazione: «I miei esami del sangue sono normali, non sto poi così male». Non sentirsi capaci o fiduciosi di riuscire a perdere peso è la condizione più frequentemente riscontrabile in un ambulatorio nutrizionale. In molti casi mancano delle abilità specifiche che andrebbero imparate e ciò, come si sa, comporta spesso sacrificio, applicazione e impegno. Tuttavia, la fiducia di riuscire non è una condizione dicotomica in cui o si è fiduciosi o non lo si è. La fiducia può essere parziale e differenziata in base al cambiamento proposto. Per esempio, sappiamo che un paziente con un problema di ipertensione arteriosa dovrebbe ridurre il peso, gli eventi stressanti, il sale nei condimenti e aumentare il livello di attività svolta durante la giornata. Questa persona potrebbe percepire un adeguato livello di fiducia verso la riduzione del sale ma non esserlo affatto per ridurre il peso. Per cui, quando si affronta l’aspetto della fiducia riguardante un programma per la perdita di peso, la domanda che dovremmo imparare a porci non è «se il paziente è fiducioso», ma piuttosto «in che cosa è fiducioso questo paziente?»
  • Pronto. È possibile che un paziente desideri perdere peso e si ritenga fiducioso di poter ottenere questo risultato. Ciò, spesso, induce nell’errore di considerare tale stato delle cose sufficiente a iniziare un programma per la perdita di peso o a modificare uno specifico comportamento. Non è così. Per dimagrire occorre apportare delle modifiche significative nella propria vita, e non è detto che il paziente sia pronto a farlo nello specifico momento in cui gli viene proposto. Insomma, il paziente potrebbe pensare o affermare qualcosa di simile: «Sì, dottore io voglio perdere peso, ma non ora» oppure «Non me la sento, in questo momento, di fare più attività fisica».
In definitiva, chi ha un problema di sovrappeso e vuole risolverlo deve desiderare questo cambiamento, essere fiducioso di poterlo raggiungere e sentirsi pronto a intraprendere determinate modifiche, in un determinato momento: «Voglio perdere peso, penso di essere capace a farlo e vorrei iniziare adesso». Quando questi tre aspetti si ritroveranno, nello stesso momento, all’interno di un paziente, alla stregua di una congiunzione astrale favorevole, quella persona potrà essere considerata motivata, e cioè possedere quella condizione unanimemente riconosciuta come necessaria al cambiamento, così potente da poter tracciare la linea di demarcazione fra un fallimento e il successo nella perdita di peso. Al contrario, qualora anche una sola delle tre componenti espresse non fosse presente in un paziente che tenta di perdere peso, quel paziente avrà grosse difficoltà a raggiungere il proprio obiettivo e probabilmente non avrà successo.
Possedere la motivazione è un requisito che può essere presente naturalmente in una persona, la quale si ritrova, in maniera del tutto spontanea, con la combinazione perfetta di questi tre elementi. Si tratta di quei pazienti che entrano in studio con l’idea chiara che dovranno dimagrire e da lì in poi vanno avanti come un treno, perseguendo il loro obiettivo, costanti e inesorabili come il tempo che scorre. Mai un problema, mai un ripensamento, mai un tentennamento. Si tratta dei pazienti ideali, quelli che accrescono l’autostima di noi terapeuti, inducendoci a pensare che «Sì, sono proprio bravo». In realtà questo tipo di pazienti, che annovera tra le sue fila un numero ingente di soggetti, molto probabilmente avrebbe perso peso anche senza il nostro aiuto. Rena Wing, in una ricerca condotta estrapolando i dati dal registro di coloro che hanno perso peso e lo hanno mantenuto in modo duraturo (National Weight Control Registry) ha trovato che circa la metà dei pazienti avevano perso peso senza ricevere un aiuto professionale [Thomas, 2014]. Aiutare i pazienti che sarebbero dimagriti indipendentemente dal nostro intervento appare come sfondare una porta già aperta. Un buon terapeuta deve distinguersi per la capacità di intervenire nella restante quota, quelli a cui il nostro aiuto serve davvero.
Probabilmente, buona parte dei pazienti che dimagriscono spontaneamente non si presenta a chiedere aiuto specialistico, ricorrendo al cosiddetto fai da te. Si desume, dunque, che la gran parte dei pazienti che incontriamo nei nostri ambulatori ci propone una realtà in cui, nonostante gli sforzi profusi, per loro non è facile cambiare.
Per iniziare a proiettarci ...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Colophon
  3. Premessa
  4. Introduzione
  5. 1 La motivazione a perdere peso
  6. 2 Una visione d’insieme
  7. 3 I pilastri del colloquio motivazionale
  8. 4 Gli strumenti
  9. 5 Le affermazioni “dimagranti”
  10. 6 Il paziente “resistente”
  11. 7 Migliorare la fiducia del paziente sovrappeso (autoefficacia)
  12. 8 Il primo colloquio
  13. 9 Casi difficili
  14. 10 Gestire il resto dei colloqui
  15. 11 Conclusione
  16. 12 Bibliografia
  17. Note