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Come le società liberali affrontano la complessità

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Come le società liberali affrontano la complessità

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Le società liberali dipendono dalla loro capacità di decidere in modo efficiente pur non potendo eliminare gli errori di percorso; e si fondano anche sulla fiducia nel progresso scientifico al servizio degli obiettivi comuni. È per questo che non può esistere un'astratta "autonomia della politica" senza competenze specifiche, perché la capacità di scelta si ridurrebbe allora all'arbitrio o alla superstizione. I tecnici, dal canto loro, possono offrire risposte probabilistiche, quasi mai certezze: in questo spazio di azione, dove le responsabilità sono gravose, si colloca la politica democratica e la sua forza. Le elezioni americane di novembre 2020 ci ricordano il clima che si genera se lo scontro politico degenera in una specie di rissa tra fazioni nemiche (neppure rivali, ma che si considerano reciprocamente illegittime). A soffrirne sono le istituzioni democratiche, con un danno per quasi tutti i membri della società. Ecco perché è essenziale preservare con cura i meccanismi della democrazia rappresentativa: per quanto imperfetti e a volte caotici, sono il meglio che abbiamo.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788849867992
Categoria
Sociologia

1.
Perché la democrazia è importante e duratura

LE DEMOCRAZIE CONTEMPORANEE hanno molti difetti, alcuni congeniti e altri legati alle condizioni del momento. Ed è giusto, anzi utile, che i cittadini si lamentino di ciò che non funziona. Eppure, la democrazia liberale di mercato è una costruzione più resiliente di quanto si pensi. È solida ma adattabile, capace di assorbire crisi gravi e sfruttare in modo positivo innovazioni tecnologiche e cambiamenti sociali. Questo sistema politico possiede, iscritto nel proprio dna, dei meccanismi per compensare la sua principale debolezza, cioè l’instabilità dovuta ai cicli elettorali e la volubilità del «popolo sovrano». Le inevitabili crisi periodiche diventano gestibili grazie al continuo adattamento, per piccoli passi non eclatanti ma invece minimalisti. Un meccanismo un po’ frustrante, magari, ma migliore rispetto a salti rivoluzionari e derive autoritarie. Le democrazie non sono certo mondi ideali e paradisiaci, sia chiaro, ma sono pur sempre un modo di governare che ha una duttilità straordinaria. E che è perciò duraturo.
La storia della democrazia comincia in effetti da lontano, ed è molto tortuosa. Dobbiamo oggi ricordare almeno alcuni passaggi essenziali di quel lungo percorso, se vogliamo capire le sfide che abbiamo di fronte – in Italia, in Europa, in tutti i Paesi governati da regole democratiche, e probabilmente anche in tanti altri in cui questo sistema di governo non ha attecchito.

L’eredità dei classici

Quasi 2500 anni fa Tucidide scrisse, narrando la guerra del Peloponneso, l’opera che fonda la storiografia (intesa come ricostruzione ragionata e pragmatica, non mitologica, per quanto possibile oggettiva, degli eventi e delle loro concatenazioni). Così, in uno dei passaggi più famosi, riporta il discorso dell’ateniese Pericle del 431-430 a.C., che descrive ed esalta le peculiarità del sistema di governo vigente ad Atene:
«Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
[…] Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso».
Il nucleo della forma di governo presentata da Pericle – il potere del popolo – è insomma la combinazione di regole morali, civili (cioè leggi e istituzioni), ed esperienza pratica che riflette alcune tradizioni; una strana sintesi di egualitarismo e meritocrazia. I semi della pianta democratica hanno da allora avuto bisogno di molte cure, e spesso non sono germogliati affatto per lunghe stagioni. Ma si sono rivelati semi fecondi e sorprendentemente resistenti.
Pochi anni prima, nel 458 a.C., Eschilo aveva vinto la competizione letteraria delle «Grandi Dionisie» con la trilogia dal titolo Orestea. In una delle scene finali della terza tragedia (Eumenidi), la dea Atena risolve un conflitto morale e politico istituendo un «consesso di giudici» che possa trattenere i cittadini dal commettere ingiustizia. E avverte che se quell’istituto fosse stato rispettato, la polis di Atene avrebbe goduto di «un baluardo che salva il territorio e la città, quale nessuna gente umana possiede».
Il monologo di Atena è un mito fondativo, e una narrazione letteraria che soddisfa dei canoni estetici, semplificata e quasi congelata fuori dal tempo e dallo spazio. Eppure contiene un concentrato di esperienza storica, quella che ha portato all’idea che sia possibile una giustizia umana fondata su una legge condivisa – più umana che mai, sebbene presentata da Eschilo come il verdetto di una divinità. Il punto che colpisce è non tanto la tutela della giustizia all’interno della polis, quanto la forza che ne sarebbe derivata anche verso l’esterno, cioè rispetto alle altre città e agli altri popoli (un baluardo, come lo definisce Atena). In sostanza, la scelta di un’istituzione “giusta” era un vanto culturale ma anche un vantaggio geopolitico, e dunque una scelta di Realpolitik. In poche battute, Eschilo sintetizza così un concetto che ha percorso la storia per secoli dopo di lui: quella visione della democrazia, pur con molti aggiustamenti e in numerose varianti, si è rivelata comparativamente efficace – non soltanto un modello preferibile per ragioni interne, ma un vero strumento di potenza.
Queste riflessioni furono studiate a fondo da Marco Tullio Cicerone, che nel De re publica (scritto tra il 54 e il 51 a.C.) fonde gli elementi giuridici e storici dello Stato, spiegando in pratica come da altri regimi politici possa emergere un sistema retto dalla legge: «[…] la Repubblica è la cosa del popolo, e popolo non è ogni unione di uomini raggruppata a caso come un gregge, ma l’unione di una moltitudine stretta dal comune sentimento del diritto e dalla condivisione dell’utile collettivo»1; e «neppure tutti gli ingegni riuniti potrebbero contemporaneamente veder così lontano da abbracciare tutto, senza l’esperienza degli eventi e l’apporto del tempo», motivo per cui tracciare il percorso storico dello Stato romano è più importante che disegnare una res publica immaginaria o ideale».
Queste testimonianze sotto forma di parole, attraverso la lingua greca classica e quella latina, ci arrivano da tempi lontani e da società molto diverse dalla nostra, ma leggendole si ha la netta impressione che non sia cambiato molto nei problemi di fondo posti dalla politica, come anche nelle soluzioni possibili. Il contesto storico cambia nello spazio e nel tempo, certo, ma questo era ben chiaro anche agli antichi greci. Il genio dei pensatori (e dei policymaker, diremmo oggi) classici stava proprio nella capacità di identificare questioni talmente centrali da essere praticamente universali; la forza dell’idea democratica sta nel fissare criteri stabili per gestire il cambiamento, cioè meccanismi affidabili per fronteggiare anche l’imprevedibile. Ora come allora, e nei secoli che sono intercorsi, la democrazia è il sistema di governo che ha trovato la soluzione a un puzzle ma deve continuare a evolvere per risolverlo. Anzi, possiede la chiave per risolverlo proprio perché accetta come punto di partenza che la convivenza civile e pacifica non va mai data per scontata. Per essere coltivata e difesa, la convivenza richiede istituzioni specifiche, buon senso, e una dignitosa selezione delle leadership. In tale visione, gli errori di percorso sono assolutamente inevitabili, perché gli esseri umani sono fallibili, litigiosi e difficili da coordinare. Sono però capaci di fare esperimenti e correggere la rotta, con l’aiuto di regole condivise che consentano di salvaguardare le lezioni del passato pur guardando al futuro.
Quando si parla qui di evoluzione per tentativi ed errori, si dovrebbe pensare alla dinamica evolutiva in senso letterale, cioè a una dinamica rigorosa quasi quanto nel campo biologico – dove si sviluppa l’evoluzione per selezione naturale. C’è una vasta letteratura sulla delicata (ma necessaria) trasposizione della dinamica evolutiva nel settore culturale, in cui spicca il lavoro pionieristico del genetista italiano Luigi Luca Cavalli Sforza con i suoi contributi antropologici2. Secondo alcuni autori che hanno attraversato il difficile confine tra biologia e cultura, a essere selezionati sono i “memi” (idee, usi e costumi) invece dei geni3. In sostanza, l’ecosistema culturale che l’umanità ha costruito nel corso di svariati millenni si comporta in modo molto simile all’ecosistema del pianeta terra che Homo Sapiens ha trovato e di cui fa parte (come risultato della selezione di tipo biologico).
L’evoluzione culturale e istituzionale ha plasmato quelle idee sviluppate per la prima volta nella Grecia classica, modificate dal mondo romano per adattarsi alle esigenze di un grande impero (terrestre e marittimo al tempo stesso), e trasformate ancora nel periodo in cui il cristianesimo (nelle sue varie forme) ha dominato anche la vita civile dell’Europa. Dopo essere rimasti sommersi, come un lungo fiume carsico, i “memi” della democrazia sono tornati alla luce già nel Medioevo (si pensi alla vicenda dei Comuni) e poi fioriti nel periodo che chiamiamo moderno, saldandosi con lo Stato-nazione, il diritto e un progresso economico senza precedenti.
Se si vuole identificare un punto di svolta simbolico, un buon candidato è la Magna Charta Libertatum, il documento firmato da re Giovanni d’Inghilterra nel 1215 che concede una serie di diritti agli «uomini liberi» in una società feudale: un testo certamente premoderno che però mette in moto un processo di rivendicazioni e negoziati allora imprevedibile. Un monarca accetta in quel momento di venire a patti con la nobiltà, facendo concessioni che hanno una portata potenzialmente molto ampia; accetta dunque, per iscritto, che vi siano dei limiti alla sua autorità, compresa quella giudiziaria. In particolare, i diritti e le proprietà di un uomo libero non possono essergli sottratti se non in base alla legge vigente: viene così stabilito il fondamento dello Stato di diritto.
Quello della Magna Charta è un caso straordinario di mutazione culturale, potremmo dire, per cui un piccolo episodio genera effetti a cascata interagendo con un ecosistema (quello feudale) che era allora in rapido cambiamento.

Stato e democrazia dei moderni

Lo Stato moderno non è nato certo come costruzione democratica. Tutt’altro, vista la pretesa costante dei “sovrani” – inizialmente re e imperatori – al controllo perfino assoluto del territorio, delle sue risorse materiali e della popolazione che vi risiedeva. Il primo passaggio nell’edificazione degli Stati-nazione fu l’accentramento del potere e dell’autorità (legittimata in chiave religiosa e/o dinastica) contro i poteri feudali e la legislazione locale, facendo leva sulla capacità di garantire «legge e ordine». E la guerra – verso i nemici esterni, per respingerli o per sottometterli trasformandoli in nuovi sudditi – è stata centrale in questo processo: come strumento di consolidamento e spesso di progresso materiale, a fini di conquista, o comunque per lo sfruttamento di risorse che solo l’attività bellica poteva mobilitare.
Eppure, tra conflitti interni ed esterni, il formarsi dello Stato moderno ha al contempo consentito e incanalato lo sviluppo dell’idea democratica. Mentre i sovrani accumulavano potere grazie alla forza militare, quasi sottotraccia la concezione moderna dello Stato trasformava la democrazia degli antichi per gestire nuove necessità e nuove ambizioni. Progressivamente, la sovranità si trasferiva dalle monarchie ai loro sottoposti.
Nel xvii e xviii secolo fioriscono, così, idee innovative che poggiano su basi classiche: con John Locke – che riprende e modifica il contrattualismo di Rousseau e Hobbes – l’ordine politico viene fondato sui diritti dei cittadini, garantiti dalla separazione dei poteri. Un’intera concezione della vita civile, che interpreta il ruolo dello Stato sovrano come potere e autorità al servizio dei cittadini, viene articolata nel pensiero di Immanuel Kant, David Hume, Cesare Beccaria. È una concezione illuminista e liberale, che fissa altri paletti essenziali dei regimi democratici moderni e contemporanei.
Quelle idee varcano poi l’Atlantico per trovare applicazione in un contesto politico giovane e diverso, adatto a una sperimentazione ancora più coraggiosa.
Nel Federalist Paper n.10 (dalla famosa raccolta di articoli pubblicati in forma anonima su vari quotidiani di New York tra il 1787 e il 1788), Alexander Hamilton mette in guardia dal pericolo delle “fazioni”: è il perenne rischio della frammentazione politica, della polarizzazione ideologica che può paralizzare i meccanismi decisionali di una democrazia. La cura sta nel governo rappresentativo, cioè nel rapporto tra elettore e delegato che nella maggior parte dei casi facilita la moderazione e in qualche modo filtra le pulsioni che vengono dalla cittadinanza. È per questo che i Padri fondatori della Costituzione americana respinsero la democrazia diretta (che Hamilton definisce “pura”) a favore di un sistema che definirono “repubblicano” (la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri). Inoltre, qualsiasi deriva ideologica estrema, secondo Hamilton, sarebbe stata frenata da una certa diversità e pluralità di vedute – perfino di posizioni “settarie”, che comunque avrebbero finito per diluire il problema della faziosità. In altre parole, una società in cui c’è dissenso e competizione politica, pur nel rispetto delle regole comuni, tende a correggere gli eccessi.
È un politologo francese, Alexis de Tocqueville, a fare il ritratto più affascinante e preciso del grande esperimento americano, nella doppia opera pubblicata nel 1835 e 1840. Tocqueville, nello spiegare i caratteri della democrazia rappresentativa d’oltreoceano, identifica chiaramente un necessario antidoto al problema della tribalizzazione democratica, che sta nella capacità di informarsi e farsi delle opinioni ragionate: «La democrazia è il potere di un popolo informato» e «la stampa è per eccellenza lo strumento democratico della libertà» (da La democrazia in America). È un richiamo alla responsabilità popolare che riecheggia vari passaggi dei Padri fondatori nei Federalist Papers. Solo una cittadinanza informata, attiva, partecipe è infatti in grado di valutare i meriti e gli errori, sia propri (in quanto elettori) che dei rappresentanti eletti. Insomma, c’è bisogno di cittadini in grado di far funzionare un prezioso strumento della democrazia: l’auto-correzione.
La «democrazia dei moderni», cioè quella rappresentativa che deve governare numeri ben più grandi delle poleis greche, e spazi geografici ben più vasti, è dunque una costruzione stratificata su molti livelli. È un sistema per definizione imperfetto e quasi incompiuto, sempre in divenire. Eppure è migliore delle alternative possibili: un’osservazione in apparenza banale che ritroviamo in un filosofo della politica come Karl Popper e in un leader carismatico come Winston Churchill. Come ha sottolineato il filosofo della politica David Runciman, la democrazia moderna serve soprattutto a evitare il peggio: impone argini e vincoli ai nostri peggiori istinti e per questo è preziosa, ma certo non onnipotente4.
Non è neppure fa...

Indice dei contenuti

  1. PremessaContagi, decisioni, istituzioni
  2. 1. Perché la democrazia è importante e duratura
  3. 2. Cosa dobbiamo decidere: le sfide di oggi
  4. 3. Quanto il futuro è cambiato: le sfide di domani
  5. 4. Come decidiamo realmente: le sfide che non cambiano
  6. 5. Evoluzione democratica: sfide che si possono vincere
  7. Postfazione Il messaggio americano, novembre 2021 - gennaio 2021
  8. Bibliografia
  9. Note