La steppa
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La steppa

Storia di un viaggio

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La steppa

Storia di un viaggio

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La steppa è il viaggio in carrozza di un ragazzino di campagna, Egóruška, che la madre ha mandato a studiare al ginnasio di una grande città: l'immensa steppa ucraina, gli incontri a sorpresa lungo il viaggio, le sensazioni incantate del ragazzino, il bagno nel grande e placido fiume, le soste, i paurosi racconti dei contadini.
Scritto nel 1888, all'età di ventotto anni, ?echov considerava questo racconto il suo capolavoro; giudizio peraltro condiviso anche da altri scrittori come Leskov e Saltykov-Š?edrin, che lo paragonarono a Gogol' e Tolstoj.«Vai, vai, guardi avanti, la steppa è sempre la stessa steppa sconfinata che era prima: non si vede la fine!»

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Informazioni

Editore
Quodlibet
Anno
2021
ISBN
9788822912084
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
1.
Da N., città capoluogo del governatorato di Z., una mattina di luglio, di buon’ora, era partito, facendo un gran rumore, sulla strada maestra, un calesse senza molle, malandato, uno di quei calessi antidiluviani sui quali viaggiano adesso in Russia solo i commessi viaggiatori, i mandriani e i preti poveri. Sbatteva e cigolava al minimo movimento; gli faceva una cupa eco un secchio, legato di dietro, e già solo da questi suoni, e dai miseri pezzi di cuoio che si agitavano sulla sua carcassa scrostata, si poteva dedurre quanto fosse decrepito e pronto a trasformarsi in legna da ardere.
Sul calesse sedevano due abitanti di N.: il mercante Ivàn Ivànyč Kuz’myčóv, senza barba, con gli occhiali e un cappello di paglia, più simile a un impiegato che a un mercante, e padre Chrístofor Siríjskij, priore della chiesa di San Nicola, un vecchietto piccolo coi capelli lunghi e un caffetano di tela grigia, con un cilindro a tesa larga e una cintura ricamata e colorata. Il primo stava pensando a qualcosa, tutto concentrato, e scuoteva la testa per cacciare il sonno; sul suo volto l’abituale aridità dell’uomo d’affari gareggiava con la bonarietà dell’uomo che ha appena lasciato i famigliari e che ha bevuto bene; il secondo guardava, stupefatto, con occhi umidi, il creato, e sorrideva talmente tanto che sembrava che il sorriso arrivasse fin sotto al cilindro; aveva il volto rosso, e sembrava avesse freddo. Tutti e due, sia Kuz’mičóv che Chrístofor, andavano a vendere della lana. Nel salutare i famigliari, avevano appena mangiato a sazietà delle frittelle con la panna acida e, nonostante fosse mattina presto, avevano bevuto… L’umore di entrambi era eccellente.
A parte i due personaggi appena descritti e il cocchiere Déniska, che frustava di continuo due svelti cavallini bai, nel calesse c’era un altro passeggero, un bambino sui nove anni, con un volto nero di sole e bagnato di lacrime. Era Egóruška, il nipote di Kuz’mičóv. Con il consenso dello zio e con la benedizione di padre Chrístofor andava da qualche parte a iscriversi al ginnasio. La sua mamma, Ol’ga Ivànovna, vedova di un segretario di collegio e sorella di Kuz’mičóv, amante delle persone istruite e della buona società, aveva pregato il fratello, che andava a vendere la lana, di prendere con sé Egóruška e di iscriverlo al ginnasio; e adesso il ragazzo, che non capiva dove e perché stava andando, sedeva in serpa di fianco a Déniska, aggrappato al suo gomito per non cadere, e saltava come un grillo. Per la velocità la sua camicia rossa gli si era gonfiata sulla schiena e il cappello nuovo da postiglione, con una penna di pavone, gli scivolava di continuo sulla nuca. Si sentiva il più infelice degli uomini e aveva voglia di piangere. Quando il calesse era passato di fianco al carcere, Egóruška aveva guardato le sentinelle che camminavano piano intorno al grande muro bianco, le piccole finestre con le sbarre, la croce che brillava sul tetto, e si era ricordato che una settimana prima, il giorno della Madonna di Kazàn’, era andato con la mamma nella chiesa della prigione, per la festa della Madonna, e ancora prima, per Pasqua, era andato al carcere con la cuoca Ljudmìla e Déniska, e avevano portato la torta di Pasqua, le uova, le focacce e l’arrosto di manzo: i carcerati avevano ringraziato e si erano fatti il segno della croce, e uno di loro aveva regalato a Egóruška dei bottoni di stagno che aveva fatto lui.
Il ragazzo osservava quei luoghi conosciuti mentre l’odioso calesse correva in avanti e lasciava ogni cosa dietro di sé. Dopo la prigione, la nera, affumicata bottega di un fabbro, e dopo di lei un verde, accogliente cimitero, circondato da un muretto di selce. Oltre il muretto spuntavano, allegre, le bianche croci e i monumenti che si nascondevano nel verde dei ciliegi e che da lontano sembravano delle macchie bianche. Egóruška si era ricordato che, quando fiorivano i ciliegi, queste macchie bianche si mescolavano con i fiori di ciliegio in un mare di bianco. E che quando le ciliegie maturavano, i monumenti bianchi e le croci erano cosparsi di puntini rossi come il sangue. Dietro il muretto, sotto le ciliegie, dormivano per sempre il padre di Egóruška e sua nonna, Zinaída Danílovna. Quando la nonna era morta, l’avevano messa in una bara lunga e stretta e le avevano messo due monete da cinque copeche sugli occhi che non volevano chiudersi. Prima di morire era viva e portava dal mercato delle ciambelle morbide con dei semi di papavero, e adesso dormiva, dormiva…
Dietro il cimitero fumavano le fornaci. Un fumo nero, denso, saliva in grandi nuvole su lunghi tetti di canne che sembravano schiacciati per terra e si alzava, pigramente, verso l’alto. Il cielo sulle fornaci e sul cimitero era scuro, e le ombre delle nuvole di fumo strisciavano sui campi e attraversavano la strada. Nel fumo, vicino ai tetti, si muovevano uomini e cavalli, avvolti da una polvere rossa…
Dopo le fornaci finiva la città e cominciavano i campi. Egóruška aveva guardato la città per l’ultima volta, aveva appoggiato la testa al gomito di Déniska e era scoppiato a piangere amaramente…
«Be’, la smetti di gnolare, gnolone?» aveva detto Kuz’mičóv. «Piange ancora, fa i capricci! Non vuoi venire? Stai a casa! Non ti costringe nessuno!»
«Non è niente, non è niente, caro Egór, non è niente…» aveva borbottato in fretta padre Chrís­­tofor. «Non è niente, fratello… Chiedi aiuto a Dio… Non vai verso il male, ma verso il bene. Lo studio, come si dice, è la luce, mentre l’ignoranza è il buio… è così, davvero.
«Vuoi tornare indietro?» aveva chiesto Kuz’mičóv.
«Sì… voglio…» aveva risposto Egóruška singhiozzando.
«E torna indietro. Tanto è inutile, ti rimandano poi ancora via.»
«Non è niente, non è niente, caro…» continuava padre Chrístofor. «Chiedi aiuto a Dio. Anche Lomonósov1 era partito così, coi pescatori, poi però è diventato un uomo che lo conoscevano in tutta Europa. L’intelligenza, unita alla fede, dà dei frutti che piacciono a Dio. Come si dice nella preghiera? “Per la gloria del Creatore, per la consolazione dei genitori, per il bene della chiesa e della patria…” Ecco.»
«Il bene poi dipende …» aveva detto Kuz’mičóv, accendendo un sigaro a buon mercato. «C’è della gente che studia vent’anni e non risolve poi niente lo stesso.»
«Succede.»
«C’è chi la scienza gli fa bene, e chi lo confonde e basta. Mia sorella, una donna che capisce poco, cerca di fare come fanno i nobili e vuole che Egórka diventa uno scienziato, e non capisce che io, coi miei affari, potrei farlo contento per tutta la vita, a Egórka. Mi spiego: se tutti diventavano scienziati e nobili, allora nessuno commerciava più, nessuno seminava il grano. Morivano tutti di fame.»
«Me se tutti commerciassero e seminassero il grano, allora nessuno più capirebbe le scienze.»
E convinti tutti e due di aver detto delle cose convincenti e solenni, Kuz’mičóv e padre Chrístofor avevano fatto una faccia seria e avevano tossito contemporaneamente. Déniska, che aveva ascoltato i loro discorsi e non ci aveva capito niente, aveva scosso la testa e, dopo essersi tirato su, aveva frustato tutti e due i cavalli bai. Tacevano tutti.
Intanto, davanti ai viaggiatori si stendeva già la larga, infinita pianura, attraversata da una fila di colline. Stringendosi l’una contro l’altra e guardandosi a vicenda, queste colline si fondevano in un’unica altura che si allungava a destra della strada fino all’orizzonte e spariva in una lontananza lilla… andavi, andavi, e non riuscivi in nessun modo a capire dove cominciasse e dove finisse la pianura…. Il sole già spuntava dietro la città e piano, senza fretta, cominciava a fare il suo mestiere. Da principio, molto avanti, dove il cielo si incontrava con la terra, vicino alle collinette e a un mulino a vento, che da lontano sembrava un piccolo uomo che agitava le braccia, si muoveva lentamente per terra una larga striscia splendente; un momento dopo, quella stessa striscia brillava un po’ più vicino, strisciava sulla destra e abbracciava le colline; qualcosa di tiepido aveva toccato la schiena di Egóruška, una striscia di luce, arrivata, furtiva, da dietro, era scivolata sul calesse e sui cavalli, era corsa incontro alle altre strisce e, d’un tratto, tutta l’immensa steppa si era tolta di dosso la penombra mattutina, aveva sorriso e si era messa a brillare di rugiada.
La segale mietuta, la malerba, l’euforbia, la canapa selvatica, tutto, cotto dal sole, storto e mezzo morto, adesso, lavato dalla rugiada e accarezzato dal sole, era tornato in vita per rifiorire ancora. Sulla strada con un grido allegro volavano le procellarie, nell’erba si chiamavano dei roditori, da qualche parte, a sinistra, piangevano delle pavoncelle. Uno stormo di pernici, spaventato dal calesse, si era alzato in volo e col suo morbido «trrrr» era volato fino alle colline. Le cavallette, i grilli, le salcerelle e i grillitalpa intonavano, nell’erba, la loro musica stridente, monotona.
Ma dopo un po’ la rugiada era evaporata, l’aria si era fermata e la steppa, delusa, aveva ripreso il suo triste aspetto estivo. L’erba si era piegata, la vita era scomparsa. Le colline bruciate, verde scuro, lilla, in lontananza, con i loro toni quieti come l’ombra, la pianura con il suo orizzonte nebbioso, e il cielo, sopra, quasi capovolto, che nella steppa, dove non ci sono boschi né alte montagne sembra terribilmente profondo e trasparente, apparivano, adesso, infiniti, intorpiditi dall’angoscia…
Che caldo, e che malinconia! Il calesse correva e Egóruška vedeva sempre la stessa cosa: il cielo, la pianura, le colline… La musica, nell’erba, era finita. Le procellarie eran volate via, di pernici non se ne vedevano. Sull’erba scolorita, annoiati, correvano i corvi: erano tutti uguali, e facevano la steppa ancor più monotona.
Un nibbio volava rasente a terra, agitando, piano, le ali, e si fermava, d’un tratto, nell’aria, come se pensasse alla noia di vivere, poi sbatteva le ali e come una freccia si alzava sulla steppa e non si capiva per che motivo volasse e di cosa avesse bisogno. E in lontananza agitava le braccia il mulino a vento…
Tra l’erbaccia brillava ogni tanto un teschio bianco o un sasso; comparivano, per un attimo, una grigia donna di pietra2 o un salice secco, con una gazza blu sulla cima più alta, uno scoiattolo attraversava la strada e di nuovo sfilavano sotto gli occhi l’erbaccia, le colline, i corvi…
Ma ecco, grazie a Dio, venire incontro un car...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Compagnia Extra
  3. Frontespizio
  4. Indice
  5. La steppa
  6. Nota sulle pronunce e sulle fonti
  7. Capitolo 1
  8. Capitolo 2
  9. Capitolo 3
  10. Capitolo 4
  11. Capitolo 5
  12. Capitolo 6
  13. Capitolo 7
  14. Capitolo 8
  15. Pustjačok, di Fausto Malcovati
  16. Compagnia Extra - I titoli della collana