I. Fingere l’illusione I. 1819. Ribellione e cambiamento
1819: un anno cruciale che segna una scelta, in quanto proprio in quel periodo Leopardi cerca di fuggire da Recanati. Si tratta di un’idea a lungo accarezzata, motivata dall’esigenza di evadere da un ambiente, familiare e paesano, che sempre più il giovane Leopardi sente stringersi attorno a sé come una costrizione fisica e spirituale, cui si aggiunge un insopprimibile desiderio di conoscere il mondo. Tuttavia, questa fuga racchiude in se stessa il senso di un progetto costruttivo.
Ragazzo geniale, amato dal padre Monaldo che gli destina una «libraria» ancor oggi ricca delle migliaia di volumi acquisiti nel tempo, Giacomo intensifica il rapporto con il padre, che in lui scorge i segni di una genialità precoce, ma anche la fragilità di una complessione fisica compromessa presto dalla malattia. Monaldo spera di salvaguardare il figlio, mantenendolo sotto la sua protezione e il suo controllo, senza accorgersi dello spirito indipendente che il ragazzo alimenta dentro di sé. Intanto, la biblioteca diviene spazio, sottratto in qualche modo all’autorità materna, in cui si sviluppa un dialogo tra padre e figlio quasi esclusivo; un luogo in cui Monaldo attende i frutti di un lungo lavoro, iniziato fin dalla prima infanzia del ragazzo, quando Giacomo, insieme al fratello Carlo e alla sorella Paolina, studiava sotto il diretto controllo paterno.
Anni in qualche modo sereni, affettivamente appaganti, poiché Monaldo è un genitore affettuoso; ma velocemente Giacomo brucia il periodo dell’adolescenza e si ritrova giovane uomo prima del tempo, inquieto, desiderante, acceso da sogni di gloria letteraria, e anche dalla volontà di agire rispetto a una patria che egli sente in maniera molto intensa.
Una forte sollecitazione, per realizzare il desiderio di partire e di conoscere il mondo, gli proviene dall’amicizia con Pietro Giordani. A lui Leopardi confiderà gli accessi della ostinata nera orrenda barbara malinconia che, senza alcuna causa apparente, lo tormenta dal 1817.
Una malinconia esistenziale, «notte fittissima e orribile», «veleno» che «distrugge le forze del corpo e dello spirito», ben diversa da quella «dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell’allegria», delicata come il crepuscolo1. E la malinconia è motivata anche dalla vita condotta a Recanati2, troppo chiusa e senza prospettive, mentre in quel periodo il giovane Giacomo è dominato da due ideali, la scrittura e la patria.
Non è un caso, infatti, che Giordani individui nel poeta la figura tipica dello «scrittore italiano»: un aristocratico che può farsi carico della letteratura italiana, strumento per un popolo che deve risorgere e liberarsi dal giogo dello straniero. Un giovane Leopardi cui stanno a cuore l’Italia e la sua indipendenza è quindi l’interlocutore di Giordani. Tuttavia, ad accendere in lui il desiderio di partire è anche, e soprattutto, la decisione di vivere autonomamente della propria scrittura. Difatti, nelle lettere scambiate con Giordani in questo periodo è evidente il significato che egli attribuisce a un’attività autonoma nel mondo degli studi, inteso come ambito di produzione culturale attiva, ma anche nel mondo editoriale. Per questo desidera andare a Milano, città per cui si fa preparare un passaporto e dove ha già rapporti con un editore importante, Antonio Fortunato Stella. Poeta e filologo, autodidatta nello studio comparato delle lingue antiche, di cui conosce greco e latino ma anche ebraico e aramaico, Leopardi è pronto a lasciare Recanati, ad andare incontro alla vita, fuggendo dalla malinconia, dalla noia e da un contesto incapace di riconoscere e apprezzare il suo valore.
La corrispondenza con Giordani del 1819 segna l’evolversi di uno stato d’animo che passa dalla speranza alla ribellione e alla malinconia disperata. Difatti, già le lettere della primavera testimoniano di una crisi interiore forte, unita a uno stato di debilitazione fisica che non si sana. La malattia agli occhi, quindi l’impossibilità di lettura e di studio che costituiscono normalmente i punti di svago in una vita segnata dalla reclusione, e insieme l’impossibilità di «contenere» il pensiero, mettendo in forte crisi le capacità della memoria e della concentrazione intellettuale, rendono quei mesi estremamente duri da vivere.
Leopardi si confida con toni aspri e chiari con l’amico, rilevando come la sua situazione sia insostenibile, e come la «speranza della morte» possa costituire l’unica via di fuga da una condizione di miseria, aggravata dalla constatazione che nell’epoca moderna non c’è più spazio per la virtù. Quella virtù che egli individua in Bruto, quella virtù che l’ha fatto «spasimare e disperare»3.
Il desiderio di uscire da Recanati4 è il tema prevalente nelle lettere comprese tra marzo e luglio 1819, ma un altro argomento si alterna a questa intima confessione riservata quasi esclusivamente a Giordani: l’impegno relativo alla diffusione delle Canzoni, uscite ai primi del 18195, e al loro invio ai personaggi più noti e importanti della scena letteraria italiana.
Se le Canzoni hanno successo e risonanza per il contenuto politico, l’attenzione manifestata dal giovane poeta per far conoscere la sua opera è legata soprattutto all’idea, che egli ha ben chiara già in questo periodo, della necessità di pubblicare in Italia libri moderni adatti al proprio tempo e scritti in modo tale da essere facilmente compresi dal popolo.
Si tratta di una scelta intellettuale e morale importante, che ritornerà nel Leopardi degli anni 1821-23, come tema centrale della sua ricerca di una lingua moderna e di carattere nazionale; inoltre, questa tensione interiore dimostra che anche durante momenti di crisi particolarmente profondi, come nel periodo immediatamente successivo alla scoperta del suo progetto di fuga, tra la fine di luglio e l’inizio dell’agosto del 1819, il dolore, la malinconia e la frustrazione si accompagnano spesso al permanere di una volontà incentrata su un fine etico che difficilmente vien meno. Le diverse esigenze spirituali e intellettuali, anzi, si tramutano in differenti registri di scrittura che consentono la contemporanea espressione di apatia e forza, malinconia e ribellione, rifiuto e progetto.
Così, mentre le lettere a Giordani segnano una storia del tutto interiore, rivelando uno stato d’animo pericolosamente in bilico tra fiducia e mancanza di stima verso se stesso, impeto e timore, quelle dirette agli altri, da Angelo Mai a Pietro Brighenti o a Giulio Perticari, toccano quasi esclusivamente questioni di carattere letterario e civile, mostrando non solo la naturale attenzione di uno scrittore verso la propria opera, ma anche, soprattutto, una concezione ben precisa e alta della letteratura.
Basti ricordare la lettera a Montani, del 21 maggio, in cui, ringraziandolo del giudizio sulle Canzoni, giudizio in qualche modo politico6, Leopardi rileva:
non è cosa che l’Italia possa sperare finattanto ch’ella non abbia libri adattati al tempo, letti ed intesi dal comune de’ lettori, che corrano dall’un capo all’altro di lei; cosa tanto frequente fra gli stranieri quanto inaudita in Italia. E mi pare – continua – che l’esempio recentissimo delle altre nazioni ci mostri chiaro quanto possano in questo secolo i libri veramente nazionali a destare gli spiriti addormentati di un popolo e produrre grandi avvenimenti. Ma per corona de’ nostri mali, dal seicento in poi, s’è levato un muro fra i letterati ed il popolo che sempre più s’alza, ed è cosa sconosciuta appresso le altre nazioni7.
Parole che mostrano la forza dell’animo leopardiano, sempre volto verso un orizzonte progettuale, anche nei momenti in cui la sua storia personale sembrerebbe prevalere sull’idea di scrittura, che invece costituisce un punto costante essenziale alla definizione della sua stessa vita.
Gli studi costituiscono per il giovane Giacomo un elemento di forza: ma sappiamo dalle lettere a Giordani che già dal mese di marzo di quell’anno fatidico, studiare o leggere non gli è possibile; così scrive all’amico in una lettera del 4 giugno:
Domandi notizia de’ miei studi, ma sono due mesi ch’io non istudio, nè leggo più niente, per malattia d’occhi, e la mia vita si consuma sedendo colle braccia in croce, o passeggiando per le stanze. I disegni mi s’accumulano in testa, ma non posso appena raccorgli frettolosamente in carta perchè non mi cadano dalla memoria8.
Se il tono delle lettere a Giordani diventa sempre più teso9, l’inquietudine e il conseguente desiderio di fuga, che si matura come unica forma di salvezza rispetto a una situazione di vita che stagna e che provoca cambiamenti di stati d’animo pericolosi, si tramutano nella decisione di vivere in qualche modo allo sbaraglio.
In un preciso luogo dello Zibaldone10, il 30 giugno 1822, Leopardi dirà che bisogna vivere «εἰκῇ, témere, au hasard»: bisogna, cioè, vivere con noncuranza, con una sorta di leggerezza Ma in quel contesto egli intende consigliare come raggiungere un equilibrio interno, per cui vivere senza il continuo freno della riflessione diviene lo strumento necessario per sentire effettivamente la vita. Vivere per vivere, senza avere troppo riguardo o troppa attenzione verso se stessi, perché si tratterebbe di un riguardo e di un’attenzione che potrebbero trasformarsi in ostacoli verso l’azione istintiva, vero segno dell’uomo vitale e naturale11. Nella lettera a Giordani del 26 luglio, l’idea di vivere allo sbaraglio equivale a un sig...