Zero, uno
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Donne digitali e tecnocultura

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Donne digitali e tecnocultura

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Zero, Uno è il saggio rivoluzionario su femminismo e controcultura, scritto da una delle teoriche più influenti del pensiero cyberfemminista: Sadie Plant, la filosofa e fondatrice – insieme a Nick Land – della leggendaria Cybernetic Culture Research Unit (CCRU) nell’Università di Warwick. Il volume è un’opera storica-culturale-filosofica originale e provocatoria, che punta l’attenzione sulla connessione tra donne e macchine e sul potenziale liberatorio della tecnologia digitale. “La prima volta che ho visto Sadie stava parlando all’università di Manchester davanti a uno schieramento di maschi idioti che facevano la guardia all’accademia (‘Questa non è filosofia! Non puoi invadere casa nostra!’). Ho sentito le sinapsi del mio cervello che si riconfiguravano mentre mi inebriavo dell’estasi tipica di quando i tuoi preconcetti esplodono: Gibson e Luce Irigaray? Cyberpunk e French theory?! Com’era possibile metterli insieme? Eppure era necessario…”
Mark Fisher “In Zero, Uno di Sadie Plant la tecnologia selvaggia e inaddomesticabile è sovrapposta al soggetto eccentrico del femminismo, alle amazzoni di Monique Wittig e a tutte le donne irregolari e anonime, contabili, centraliniste e segretarie, scienziate e matematiche, che hanno fatto il ‘dietro le quinte’ della storia dell’informatica. Dalla prima ‘tessitrice’ all’androide, che è sempre per definizione una ginoide, in quanto soggetto subalterno e perturbante che ha da perdere solo le proprie catene, la storia delle macchine desideranti di Plant è una fabula speculativa di schiav? in rivolta.”
Ippolita

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788861056800
zero, uno
Premessa
Erano i giorni in cui tutti vivevamo in mare. Mi sembra ieri. Specie, sesso, razza, classe: a quei tempi niente di tutto ciò significava qualcosa. Niente genitori, niente figli, soltanto noi, stringhe di sorelle inseparabili, calde e bagnate, indistinguibili l’una dall’altra, gloriosamente indiscriminate, promiscue e fuse insieme. Niente generazioni. Niente futuro, niente passato. Un piano geografico infinito, un finissimo reticolato di quanti pulsanti, trame sconfinate di miscugli, contaminazioni, fusioni interagenti che ci attraversavano tremolando, l’una attorno all’altra tracciavamo orbite, senza direzione, senza necessità, senza scopo, senza preoccupazioni, senza pensieri, fuori controllo. Piegandoci e ripiegandoci, replicandoci e moltiplicandoci. Non avevamo definizione né significato né modo di distinguerci. Liberi scambi, microprocessi in sintonia perfetta, trasferimenti polimorfici senza riguardo per limiti e confini. Non c’era nulla a cui aggrapparsi, nulla da afferrare, nulla da proteggere o da cui proteggersi. Dentro e fuori non significavano nulla. Non pensavamo a nulla di tutto ciò. Non pensavamo a nulla in generale. All’epoca tutto era a portata di mano. Non ci facevamo caso: tutto era a nostra disposizione. Era così da decine, migliaia, milioni, miliardi di quelli che in seguito sarebbero stati chiamati anni. Se ci avessimo pensato, avremmo detto che era destinato a durare per sempre: questo mondo fluido, fluente.
E poi successe. Il clima mutò. Non riuscivamo a respirare. Si fece freddissimo. Troppo, troppo freddo per noi. Qualsiasi cosa toccassimo era veleno. Gas nocivi e rarefatte esalazioni tossiche invasero il nostro territorio oceanico. Qualcuno diceva che era colpa nostra, che tutta la nostra attività ci si era ritorta contro, che avevamo provocato noi l’incidente che aveva distrutto il nostro ambiente. Circolavano voci di tradimento e sabotaggio, si mormorava di un’invasione aliena e di esseri mutanti venuti da un’altra navicella.
Soltanto pochi di noi sopravvissero alla rottura. Le condizioni erano così tremende che molti tra quelli che ce l’avevano fatta avrebbero preferito essere morti. Mutammo al punto da essere irriconoscibili, ci legammo insieme formando squadre di creature simili che prima sarebbero state impensabili, proprio come tutto il resto. Ci ritrovammo a lavorare come componenti schiavizzati in sistemi di cui non comprendevamo la scala né la complessità. Eravamo i loro parassiti? Loro erano i nostri parassiti? In ogni caso diventammo componenti della nostra prigionia. A tutti gli effetti, scomparimmo.
Gradualmente, diventano invisibili; portentosamente, diventano muti: così sono in grado di farsi Fato per i loro nemici.
Sun Tzu, L’arte della guerra
Ada
Nel 1833, una ragazza adolescente incontrò una macchina che giunse a considerare “come un amico”.1 Era un congegno futuristico che sembrava essere piombato nel suo mondo con almeno un secolo di anticipo.
In seguito sarebbe stata conosciuta come Ada Lovelace, ma all’epoca era Ada Byron, unica figlia di Annabella, una matematica che a sua volta era stata soprannominata dal marito Lord Byron “Principessa dei Parallelogrammi”. Si trattava della Macchina Differenziale, un calcolatore al quale l’ingegner Charles Babbage lavorava da anni. “Lunedì scorso siamo andate a vedere la macchina pensante (perché questo sembra)” annota Annabella nel suo diario. Con sommo stupore degli astanti, la macchina “ha elevato vari numeri alla seconda e alla terza potenza, e ha estratto la radice di un’equazione di secondo grado”.2 Mentre la maggior parte dei presenti ammirava la macchina sbalordita, Ada “giovane com’era, comprese il suo funzionamento, e vide la grande bellezza di quell’invenzione”.3
Quando Babbage aveva iniziato a lavorare alla Macchina Differenziale era interessato alla possibilità di “far sì che le macchine calcolassero tabelle aritmetiche”.4 Sebbene stesse incontrando molte difficoltà a convincere il governo britannico a finanziare il suo lavoro, non aveva dubbi né sul valore di quella macchina né sulla sua effettiva realizzabilità. Il metodo di Babbage consisteva nel ridurre le operazioni a semplici differenze matematiche su numeri ordinati in tabelle, ed era convinto che il “metodo delle differenze fornisse un principio generale grazie al quale tutte le tabelle, suddivise in intervalli limitati, potevano essere computate utilizzando un unico processo omogeneo”. Nel 1822 aveva approntato un congegno piccolo ma funzionante e “nell’anno 1833, si verificò un evento di grande importanza nella sua evoluzione. Babbage riuscì a far costruire una porzione della sua macchina, composta da sedici cifre. Era in grado di calcolare tabelle che avevano due o tre ordini di differenze; e, pur con alcuni limiti, di generare altre tavole. Il funzionamento di questa porzione di macchina soddisfaceva ampiamente le aspettative, e forniva maggiori garanzie riguardo al successo finale”.5
Ma non appena ebbe svelato al pubblico il suo congegno Babbage ebbe una rivelazione: la Macchina Differenziale, ancora incompleta, aveva già superato sé stessa. “Avendo com’è logico speculato molto sui principi generali più utili a costruire una macchina per il calcolo, fu folgorato da un principio di tipo interamente nuovo, un principio che sembrava dotato di un potere quasi sconfinato sulle più complesse operazioni aritmetiche. Riesaminando i suoi disegni […] l’unico limite di questo nuovo principio pareva dettato dalle dimensioni della macchina fisica da realizzare”.6 Aumentando il numero dei meccanismi che permettevano alla Macchina Differenziale di eseguire le addizioni, ossia assemblandone migliaia invece che poche centinaia, sarebbe stato possibile costruire una macchina in grado di “eseguire più rapidamente i calcoli cui era destinata la Macchina Differenziale; oppure la Macchina Differenziale sarebbe stata addirittura sorpassata, soppiantata da metodi di costruzione molto più semplici”. I funzionari del governo che avevano finanziato gli studi sulla prima macchina non accolsero con gioia la notizia che questa era stata accantonata in favore di nuovi meccanismi i quali “differivano in modo sostanziale da quelli della Macchina Differenziale”.7 Sebbene Babbage avesse fatto del suo meglio per persuaderli che “nell’industria accade di sovente che un vecchio macchinario venga soppiantato da uno nuovo nel giro di pochissimi anni; e sarebbe possibile portare esempi in cui il progresso dell’innovazione è stato così rapido, e la domanda così alta, che macchine costruite a metà sono state buttate via, diventate obsolete ancor prima di essere completate”, la sua decisione di accantonare la vecchia macchina segnò anche la rottura con i suoi finanziatori. Babbage perse il sostegno dello Stato, ma si era già guadagnato un aiuto ben diverso.
“Lei è un uomo coraggioso” disse Ada a Babbage “a donarsi interamente alla Fata Guida! Le consiglio di lasciarsi incantare irresistibilmente […]”8. “Nessuno” aggiunse “conosce l’energia e il potere quasi terribili che si celano in questo mio piccolo ed esile sistema”.9
Nel 1842 Luigi Menabrea, un ingegnere militare italiano, aveva depositato un suo scritto, Sketch of the Analytical Engine Invented by Charles Babbage, alla Biblioteca Universale di Ginevra. Babbage scriverà che, poco dopo la sua apparizione, la “Contessa di Lovelace mi informò di aver tradotto le memorie di Menabrea”. Estremamente colpito dal suo lavoro, Babbage la invitò a unirsi a lui nell’opera di progettazione della macchina. “Le chiesi come mai non avesse condotto lei stessa uno studio originale su un argomento che conosceva così intimamente. A questo Lady Lovelace replicò di non averci mai pensato. Allora le suggerii di aggiungere qualche commento alle memorie di Menabrea; un’idea che fu accolta all’istante”.
Babbage e Ada svilupparono una relazione intensa. “Insieme abbiamo discusso le varie illustrazioni che avremmo potuto introdurre”, ha scritto Babbage. “Io ne ho suggerite molte, ma la selezione è interamente opera sua. Così come anche il funzionamento algebrico dei diversi problemi; tutti eccetto quello relativo ai numeri di Bernoulli, che mi sono offerto di elaborare per risparmiare la fatica a Lady Lovelace. Lei mi ha rimandato indietro il mio lavoro perché apportassi delle correzioni, avendo individuato un grave errore da me commesso nel procedimento”.10
Una donna di grande intelligenza! Proprio come sua madre, eh? Indossa lenti verdi e scrive libri dotti. Vuole capovolgere l’universo, e giocare a dadi con gli emisferi. Le donne non sanno mai quando è ora di fermarsi.
William Gibson e Bruce Sterling, La macchina della realtà
Gli errori matematici di Babbage, e molti dei suoi atteggiamenti, irritavano immensamente Ada. Aveva la tendenza a incolpare gli altri se il proprio lavoro procedeva a rilento e, sebbene le sue rimostranze erano talvolta giustificate, quando si impuntò perché la pubblicazione delle memorie di Menabrea con le annotazioni di Ada fosse corredata da una sua prefazione in cui si lamentava dell’atte...

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