capitolo 1
Craxi e Andreotti al loro posto
“De Gasperi ci abituò a guardare lontano: ci ancorò all’Occidente in una solida visione euroamericana, senza però perdere mai il senso globale della pace. E La Pira, con le sue anticipazioni verso il mondo arabo e la Cina, dette veramente un impulso cristiano alla visione della politica mondiale”.
Questo lo sguardo di Giulio Andreotti sulla narrazione della storia della politica estera italiana; nel corso degli anni Ottanta tornerà spesso, e a suo modo, sull’argomento.
“La nostra leale appartenenza alla Nato e alla Cee non è in discussione. Ma chi parla sempre e a tutto spiano di fedeltà, mi fa venire in mente quei coniugi che sentono ogni giorno il bisogno di dichiararsi reciprocamente fedeli, perché non lo sono”; e ancora: “L’impero non esiste, esiste un’alleanza nella quale stiamo con pari dignità. Non è vero che gli americani arrivano con la pappa pronta e gli altri si limitano ad usare il cucchiaio”.
Dal 1983 al 1989 il Divo Giulio è ministro degli Esteri, al fianco, per i primi quattro anni, di Bettino Craxi, primo socialista ad aver ricoperto la carica di presidente del Consiglio nella storia della Repubblica italiana.
In quel periodo, dirà poi Giorgio Napolitano: “L’Italia passa da una posizione di adesione acritica, poco incisiva, poco caratterizzata, ad una partnership più assertiva nel rapporto con gli Stati Uniti”.
Craxi e Andreotti sono gli assoluti protagonisti di questo processo.
Secondo l’allora titolare della Farnesina, l’Occidente e l’Europa fungevano per lui da “scudo della storia” con cui si proteggeva mentre percorreva “a zig zag naturalmente” i sentieri di una “mediazione discreta, ostinata, spregiudicata”. Quella stagione politica ha il suo momento clou nel 1985, con la vicenda più immaginifica della storia delle relazioni tra Italia e Stati Uniti: il caso Sigonella.
“[…] Non c’erano dubbi non sulla lealtà – che potrebbe essere un termine tenue – ma sulla convinzione occidentale di Craxi e sulla sua avversione al comunismo realizzato. Ne aveva già dato prova due volte sull’installazione degli euromissili: prima da segretario del Psi e successivamente da capo del governo”, racconta Giuliano Amato, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. “Poi, certo, aveva una tensione positiva per i movimenti, come l’organizzazione per la liberazione palestinese. Ma Craxi era uno dei leader più ascoltati da Reagan nel contrasto con l’Urss”.
Come sottolinea l’allora ambasciatore italiano a Washington, Rinaldo Petrignani: “[…] Non so quanti ricordano che dopo Sigonella la Casa Bianca attivò la ‘linea rossa’ anche con Palazzo Chigi. Esclusiva riservata fino ad allora solo all’Eliseo e Downing Street. E soprattutto che il G7, per volontà di Reagan, aprì il G5 finanziario all’Italia, ammettendola definitivamente nel club dei grandi”.
Ma allora cos’è accaduto, in quella notte di ottobre, a Sigonella?
Si è sfiorato uno scontro tra i nostri militari e quelli americani; si è aperto un conflitto diplomatico tra Roma e Washington, che in Italia ha generato una crisi di governo innescata dal Partito repubblicano, tra tutte la forza filostatunitense più convinta.
Nonostante ciò appare evidente che si sia trattato di una contrapposizione possibile solo tra due alleati leali, pienamente consapevoli che le proprie strade non avrebbero potuto divergere. Ma riavvolgiamo il nastro: Craxi e Andreotti, “il Leone e la Volpe”, in quegli anni costruiscono un’iniziativa di pace per Israele e la Palestina: un progetto che mira a riconoscere le ragioni di entrambi i popoli, senza squilibri. All’inizio del suo mandato, nel 1983, Craxi chiarisce quanto senta cruciale questa partita: “Siamo vitalmente interessati alla pace nel Mediterraneo. Nessuno potrà considerarci interlocutori estranei, o giudicarci animati da propositi invadenti, se ci toccherà di far valere sempre la nostra parola su tutte le questioni rilevanti aperte nel Mare Nostrum”.
Il leader socialista parla anzitutto del suo progetto con il presidente degli Stati uniti d’America Ronald Reagan, nell’autunno 1983, in un viaggio lampo a Washington: ne ottiene il sostegno, in cambio dell’impegno di Roma a indebolire i legami tra l’Urss e i suoi paesi satellite. Craxi e Andreotti si recano dunque ad Algeri, al Cairo, a Riad: incontrano il presidente egiziano Mubarak, il leader palestinese Arafat e il re di Giordania Hussein. L’iniziativa italiana prende corpo e ottiene consenso, salvo poi infrangersi a Roma nel febbraio 1985: è il premier socialista israeliano, Shimon Peres, a freddare Craxi, definendo prematuro il suo progetto e lasciandolo, di fatto, cadere: “Lo invitammo a cena a Roma e fu una cena difficile”, spiega Giuliano Amato, “Nonostante ciò, provammo a chiarire che la simpatia per l’Olp e Arafat non era ostilità per Israele ma favore per una politica di pace, che anche i laburisti israeliani condividevano”.
Il mese seguente, il presidente del Consiglio è di nuovo a Washington da Reagan. Contro il suo piano per il Medioriente, aveva fatto molto anche il cosiddetto “fronte palestinese del rifiuto”, che annoverava tra le sue fila anche Mohamed Abu Abbas che, come vedremo più avanti, sarà uno dei protagonisti cruciali dell’affaire Sigonella. Un progetto che comunque non era visto di buon occhio nemmeno da alcuni uomini di Reagan, come ad esempio l’ammiraglio John Poindexter, allora consigliere per la sicurezza nazionale, il suo vice Robert McFarlane e Michael Ledeen, sul quale torneremo a breve; questa almeno la tesi di Gennaro Acquaviva, il “cardinale” del Partito socialista, tra gli artefici del Concordato con il Vaticano e, all’epoca, capo della Segreteria di Palazzo Chigi.
Acquaviva ricorda anche come i primi due membri dell’amministrazione Usa siano stati coinvolti nello scandalo Iran-Contra: il triangolo di armi, soldi e ostaggi che, nel biennio 1985-’86, gli Usa costruirono per ottenere da Teheran la libertà di sette statunitensi rapiti in Libano, nonché per finanziare la guerriglia anti-sandinista in Nicaragua.
In quegli anni il terrorismo internazionale colpisce molti cittadini statunitensi nel Mediterraneo; per debellare questa piaga, Washington chiede e ottiene la massima collaborazione degli alleati, tra cui l’Italia. Non mancano tuttavia le divergenze, ad esempio sul rapporto tra Roma e Gheddafi: tanto che nel 1984, un report del dipartimento di Stato statunitense definisce in proposito i dignitari italiani a bunch of chickens, “un branco di polli”. Ciò nonostante la relazione personale tra Bettino Craxi e Ronald Reagan è ottima: c’è chimica tra i due, raccontano Antonio Badini, allora consigliere diplomatico del premier, e Gennaro Acquaviva. È quest’ultimo a descriverci il loro primo incontro alla Casa Bianca:
“Erano diversi, Reagan parlava poco. All’inizio guardava Craxi quasi stranito, per il profluvio di parole che Bettino pronunciava. Ma il presidente americano mostrò subito curiosità, attenzione al suo progetto per il Mediterraneo. E di quel giorno, ricordo anche un particolare molto simpatico: a pranzo […] Bettino gli disse: ‘Presidente, sono venuto qui per ascoltare le sue famosissime barzellette sui russi e non me ne racconta nemmeno una?’; Reagan si mise a ridere come un matto. A quel punto, un Craxi ormai sbloccato, prese l’iniziativa e raccontò lui una barzelletta anticomunista a Reagan, che si divertì molto’”.
Ad ulteriore testimonianza di quanto fossero buone le relazioni tra Roma e Washington, si staglia un importante appuntamento in calendario: il 24 ottobre del 1985, giorno in cui Reagan attende Craxi a New York per consultarsi con lui e gli alleati più vicini, prima di incontrare per la prima volta il leader russo Gorbaciov nel novembre successivo a Ginevra...