La moglie di Darwin
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La moglie di Darwin

L'arte di prendere decisioni lungimiranti

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La moglie di Darwin

L'arte di prendere decisioni lungimiranti

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Sapete in che modo Darwin decise di prendere moglie? E come si è arrivati alla strategia migliore per irrompere nel covo di Bin Laden? La capacità di compiere scelte lungimiranti — decisioni che richiedono lunghi periodi di deliberazione e le cui conseguenze potrebbero protrarsi per anni — è un talento stranamente sottovalutato. Eppure, l'arte di prendere decisioni consapevoli e creative riguarda tutti gli aspetti dell'esistenza: il lavoro, la famiglia, la partecipazione politica o la gestione delle proprie finanze. Passando in rassegna decisioni complesse prese da singoli personaggi o da gruppi nel corso della storia, Johnson si propone di dimostrare come sia possibile imparare metodi e procedure che ci aiutino a scegliere, ai bivi della nostra vita, la strada più meditata.

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Informazioni

Editore
Il Margine
Anno
2021
ISBN
9791259820129
Argomento
Didattica

II.

Prevedere

Quindi che parta per il Continente, senza che ci pronunciamo sul suo futuro. Tra ogni genere di sbaglio, la profezia è il più gratuito.
GEORGE ELIOT, Middlemarch1
Per la gran parte della sua storia, la scienza che studia il funzionamento del cervello ha macabramente fatto affidamento sulle lesioni più devastanti. Gli scienziati hanno dissezionato cervelli per secoli, ma, prima che le moderne tecniche di neuroimmagine come la PET e la fMRI permettessero di seguire in tempo reale il flusso sanguigno nelle diverse parti del cervello, era estremamente difficile dire quali aree fossero responsabili dei diversi stati mentali. La nostra conoscenza della specializzazione del cervello era basata principalmente su casi di studio come quello di Phineas Gage, l’operaio ferroviario dell’Ottocento che, in qualche modo, sopravvisse alla perforazione del lobo frontale da parte di un tondino di ferro e in seguito mostrò una singolare serie di mutamenti della personalità. Prima della neuroimmagine, se si voleva accertare la funzione di una parte specifica del cervello, si cercava qualcuno che l’avesse persa e si studiava come quel danno lo avesse pregiudicato. Se si trattava di un cieco, la lesione doveva aver colpito il suo apparato visivo; se aveva un’amnesia, l’area danneggiata doveva avere qualcosa a che fare con la memoria.
Era un modo di studiare il cervello umano estremamente inefficiente, perciò, quando negli anni Settanta e Ottanta la PET e la fMRI fecero la loro comparsa portando con sé la promessa di esaminare cervelli sani durante la loro attività, i neuroscienziati erano comprensibilmente eccitati all’idea. In breve tempo, però, si resero conto che quelle nuove tecnologie necessitavano di un punto di riferimento perché l’esame fosse significativo. Il sangue, dopotutto, circola incessantemente nell’intero cervello e, pertanto, ciò che si cerca in una PET o una fMRI sono i cambiamenti in quel flusso sanguigno: un’ondata di attività in un’area del cervello, un calo in un’altra. Quando si rileva un incremento di attività nella corteccia uditiva mentre nella sala in cui si esegue l’fMRI si diffonde una sonata di Bach, l’esame evidenzia che quella particolare area del lobo temporale gioca un ruolo nell’ascolto della musica. Ma per vedere quell’incremento bisogna poterlo confrontare con uno stato di riposo. È solo seguendo l’andamento di queste differenze tra i diversi stati — e i diversi pattern del flusso sanguigno nel cervello ad essi legati — che l’esame diventa utile.
Per anni gli scienziati hanno creduto che non fosse poi un’operazione così complicata: si fanno accomodare i soggetti della ricerca all’interno del tomografo, si chiede loro di rilassarsi e non fare nulla, e poi di eseguire l’attività oggetto di studio: ascoltare musica, parlare, giocare a scacchi. La macchina analizza il loro cervello mentre sono a riposo, poi di nuovo quando sono attivi, e il computer esamina le differenze e fa apparire un’immagine che mette in rilievo i cambiamenti del flusso sanguigno, non dissimile da una moderna carta meteorologica che mostra le diverse intensità di un sistema temporalesco in avvicinamento a un’area metropolitana. A metà degli anni Novanta la studiosa del cervello dell’Università dell’Iowa Nancy Andreasen stava conducendo un esperimento sulla memoria utilizzando tomografi PET quando notò qualcosa di strano nei risultati. Le tomografie dello stato di «riposo» non sembravano mostrare un calo di attività. Al contrario: dicendo ai suoi soggetti di stare fermi e cercare di non fare nulla di particolare, sembrava innescare un pattern molto specifico di stimolazione attiva nei loro cervelli. In un articolo pubblicato nel 1995 Andreasen osservò un ulteriore particolare di quel pattern: i sistemi cerebrali che si attivavano nello stato di riposo erano sistemi che sono molto meno sviluppati nei cervelli dei primati non umani. «A quanto pare, quando il cervello/la mente pensa liberamente, senza vincoli — rifletteva Andreasen —, utilizza le sue parti più umane e complesse».
Ben presto numerosi altri scienziati hanno cominciato a esaminare questo strano comportamento e in molti studi il cervello si è rivelato essere più attivo a riposo rispetto a quando dovrebbe presumibilmente essere attivo. Di lì a poco gli scienziati hanno preso a chiamare questo ricorrente pattern di attività «rete di default». Nel 1999 un team di ricercatori del Medical College of Wisconsin diretto dal neurologo Jeffrey R. Binder pubblicò un autorevole articolo in cui si asseriva che la rete di default implicava «il recupero di informazioni dalla memoria a lungo termine, la rappresentazione delle informazioni nella coscienza consapevole sotto forma di immagini mentali e pensieri, e l’utilizzo di queste informazioni per risolvere problemi e pianificare». In altre parole, quando veniamo lasciati ai nostri meccanismi mentali, la mente scivola in uno stato in cui fa turbinare insieme ricordi e proiezioni, rimugina sui problemi e architetta strategie per il futuro. Binder proseguì facendo congetture sul valore adattivo di questo tipo di attività mentale: «Immagazzinando, recuperando e utilizzando informazioni interne, organizziamo ciò che non può essere organizzato durante il presentarsi dello stimolo, risolviamo problemi che richiedono calcoli su lunghi periodi di tempo ed elaboriamo piani efficaci per regolare i comportamenti nel futuro. Queste abilità hanno sicuramente contribuito non poco alla sopravvivenza umana e all’invenzione della tecnologia».
Esiste un modo più semplice — e meno rivelatore — di descrivere queste scoperte: gli esseri umani sognano a occhi aperti. Non avevamo bisogno di una risonanza magnetica funzionale per saperlo. Ciò che la tecnologia ha, invece, rivelato è quanta energia richieda sognare a occhi aperti. Quel che appare come il perdersi della mente in fantasticherie è in realtà, in termini di attività neuronale, un esercizio intenso. E le regioni del cervello coinvolte in questo esercizio si dà il caso siano quelle prettamente umane. Perché il nostro cervello dovrebbe dedicare così tante risorse a qualcosa di innocuo e apparentemente improduttivo come sognare a occhi aperti? Questo mistero ha indotto un altro gruppo di ricercatori a indagare su che cosa pensiamo esattamente quando sogniamo a occhi aperti. In un complesso studio recente, lo psicologo sociale Roy F. Baumeister ha inviato un messaggio a 500 persone di Chicago in momenti casuali della giornata per chiedere loro a che cosa stessero pensando in quel preciso istante. In questo modo ha rilevato che, se non erano attivamente impegnati in qualcosa di specifico, era molto probabile che stessero pensando al futuro, immaginando eventi ed emozioni che, tecnicamente parlando, non erano ancora avvenuti. Era tre volte più probabile che stessero pensando a eventi futuri che a eventi passati (e anche gli eventi passati sui quali stavano meditando, in genere, avevano una qualche attinenza con le loro prospettive future). Se facciamo un passo indietro e pensiamo a questa scoperta, ci rendiamo conto che ha qualcosa di sconcertante. Gli esseri umani sembrano trascorrere una notevole quantità di tempo a pensare a eventi che per definizione non sono reali, che sono frutto della loro immaginazione, perché non hanno ancora avuto luogo. Quest’orientamento al futuro, a quanto pare, è una caratteristica determinante della rete di default del cervello.
Quando lasciamo viaggiare la mente, questa comincia spontaneamente a passare al vaglio scenari immaginari su quello che ci attende. Non siamo, come ci descriveva Francis Scott Fitzgerald alla fine de Il grande Gatsby, barche contro corrente, sospinti incessantemente nel passato: la nostra mente tende, invece, a correre cercando di precedere la corrente, meditando sul futuro ogni qualvolta ne abbia occasione.
Lo psicologo Martin Seligman ha recentemente sostenuto che questa capacità di creare ipotesi di lavoro sugli eventi futuri — la facoltà di fare previsioni a lungo termine che plasmeranno le decisioni da prendere nella vita — può essere l’attributo distintivo dell’intelligenza umana. «Ciò che meglio contraddistingue la nostra specie — ha scritto — è una capacità che gli scienziati hanno appena cominciato ad apprezzare: meditiamo sul futuro. La nostra eccezionale lungimiranza ha creato la civiltà e mantiene la società […]. Un nome più appropriato per la nostra specie sarebbe Homo prospectus, perché progrediamo valutando le nostre prospettive. La preveggenza è ciò che ci rende sapiens. Lo studio del futuro, conscio e inconscio, è una funzione fondamentale del nostro grande cervello» (Seligman e Tierney, 2017).
Non è chiaro se gli animali non umani abbiano una qualche reale nozione del futuro. Alcuni esseri mostrano comportamenti che suggeriscono previdenza a lungo temine — come lo scoiattolo che nasconde una noce per l’inverno — ma quei comportamenti sono istintivi, plasmati dai geni, non dalla cognizione. Lo studio più avanzato sugli schemi temporali degli animali ha concluso che la maggioranza di essi riesce a programmare in anticipo intenzionalmente su una scala di minuti. Prendere decisioni basate su prospettive future nell’arco di mesi o anni — anche qualcosa di semplice, come programmare a dicembre una vacanza estiva — sarebbe inimmaginabile persino per i nostri parenti primati più stretti. La verità è che facciamo costantemente previsioni sugli eventi all’orizzonte e quelle previsioni guidano le scelte che compiamo nella vita. Senza quel talento per la preveggenza, saremmo una specie radicalmente diversa.

I superprevisori

Il fatto che il nostro cervello abbia sviluppato una rete di default a cui piace meditare su ciò che ci aspetta non significa necessariamente che siamo inappuntabili nel prevedere eventi futuri, in particolare quando quegli eventi sono questioni a spettro completo con orizzonti temporali lunghi. Qualche decennio fa il professore di scienza politica Philip Tetlock ha diretto una famosa serie di tornei di pronostici in cui veniva chiesto a specialisti e intellettuali di formulare delle previsioni sugli eventi futuri. Ha riunito un gruppo di 284 «esperti» provenienti da una vasta gamma di istituzioni e con diverse idee politiche: alcuni erano funzionari di governo, altri lavoravano per istituzioni come la Banca mondiale, altri ancora erano intellettuali che pubblicavano di frequente sulle pagine di opinione di testate importanti. Parte della genialità dell’esperimento di Tetlock stava nel fatto che cercasse di misurare ciò che l’autore Stewart Brand chiamava «the long view» (approssimativamente, «la prospettiva a lungo termine»): non il ricambio quotidiano nel ciclo delle notizie, ma i mutamenti più lenti e significativi nella società. Alcuni pronostici riguardavano eventi che dovevano verificarsi nell’anno successivo, ma per altri si richiedeva ai partecipanti di pensare a tutto il decennio a venire. La gran parte delle domande era di natura geopolitica o economica: nei prossimi dieci anni, uno Stato membro lascerà l’Unione Europea? Ci sarà una recessione negli Stati Uniti nei prossimi cinque anni?
Tetlock ha raccolto 28.000 pronostici nel corso del suo studio e poi ha compiuto l’importantissimo passo che non accompagna quasi mai le asserzioni dei giornalisti d’opinione e degli esperti della televisione d’informazione: ha effettivamente confrontato i pronostici con gli esiti reali e dato un voto ai previsori per la loro relativa precisione. A mo’ di controllo, Tetlock ha confrontato il pronostico umano con semplici versioni algoritmiche come «prevedere sempre nessun cambiamento» o «partire dall’assunto che l’attuale tasso di cambio rimanga ininterrottamente invariato». Se un pronostico richiedeva di misurare il deficit degli Stati Uniti tra dieci anni, un algoritmo rispondeva semplicemente: «Così com’è ora»; l’altro calcolava la velocità alla quale il deficit stava crescendo o diminuendo, elaborando di conseguenza il pronostico sui dieci anni.
I risultati, una volta che Tetlock aveva completato la valutazione di tutti i pronostici, erano spaventosamente negativi. La gran parte dei cosiddetti esperti non se l’era cavata meglio dell’allegorico scimpanzé lanciatore di freccette. Quando si richiedeva di formulare previsioni che prendessero in considerazione le tendenze a lungo raggio, gli esperti, in realtà, hanno dato risultati peggiori di quelli che si sarebbero ottenuti da scelte casuali. I semplicistici pronostici algoritmici («le tendenze attuali continueranno»), di fatto, hanno dato una performance migliore rispetto a molti degli esperti e, in generale, Tetlock ha rilevato l’esistenza di una correlazione inversa tra il grado di notorietà dell’esperto e la precisione del suo pronostico. Maggiore era l’esposizione mediatica, minore era la probabilità che il pronostico fosse valido.
Quando, infine, nel 2009 Tetlock ha pubblicato questi risultati nel libro Expert political judgment, i media li hanno ampiamente divulgati, il che è un po’ un’ironia della sorte, dato che la tesi dello studio di Tetlock sembrava sminuire l’autorità delle opinioni diffuse sui media. Tuttavia, Tetlock ha scoperto un gruppo statisticamente rilevante di esperti che erano, invece, più bravi degli scimpanzé, persino nei pronostici a lungo termine. Il loro tasso di precisione non si avvicinava nemmeno lontanamente alla chiaroveggenza, ma qualcosa, dentro di loro, li aiutava a vedere la prospettiva a lungo termine con maggiore chiarezza rispetto ai propri pari. E così Tetlock ha rivolto l’attenzione a un mistero ancor più interessante: che cosa distingueva i pronosticatori di successo dai ciarlatani? I soliti sospetti non davano riscontri: non faceva differenza se avevano un dottorato o un QI più elevato, una carica in un’istituzione prestigiosa o un maggiore accesso a materiali secretati. E non aveva grande importanza quali fossero le loro convinzioni politiche. «Il fattore cruciale — scrive Tetlock — era come pensavano»:
Un gruppo tendeva a organizzare il suo ragionamento attorno a Grandi Idee, anche se i membri non concordavano su quali Grandi Idee fossero vere o false. Alcuni erano catastrofisti ambientali («Stiamo esaurendo tutte le risorse!»); altri erano abbondantisti cornucopiani («Possiamo trovare sostituti economicamente vantaggiosi per qualsiasi cosa»). Alcuni erano socialisti (prediligevano il controllo statale sui vertici dell’economia); altri erano fondamentalisti del mercato libero (volevano ridurre la regolamentazione al minimo). Per quanto ideologicamente eterogenei, erano accomunati dal fatto che il loro modo di pensare era molto ideologico. Cercavano di schiacciare problemi complessi nei modelli di causa-effetto d’elezione, trattando ciò che non vi si adattava come elementi di distrazione irrilevanti […] Di conseguenza, erano insolitamente sicuri di sé e più portati a dichiarare le cose «impossibili» o «certe» […] L’altro gruppo era composto da esperti più pragmatici che si affidavano a molti strumenti analitici, scegliendoli in base al problema affrontato. Questi esperti hanno raccolto tutte le informazioni dal maggior numero di fonti che hanno potuto […] Hanno parlato di possibilità e probabilità, non di certezze. E, anche se a nessuno piace dire «Mi sbagliavo», questi esperti erano più propensi ad ammetterlo e a cambiare idea (Tetlock e Gardner, 2015, pp. 68-69).
Mutuando la metafora dalla leggendaria frase di Isaiah Berlin, che a sua volta l’aveva rubacchiata all’antico poeta greco Archiloco, «La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande», Tetlock ha denominato i due tipi di pronosticatori ricci e volpi. Nell’analisi di Tetlock, le volpi — sintonizzate con un’ampia gamma di fonti potenziali, disposte ad ammettere l’incertezza, non devote a una teoria onnicomprensiva — si sono rivelate notevolmente più abili nel predire eventi futuri rispetto agli esperti più focalizzati su un campo. Le volpi erano a spettro completo, i ricci a banda stretta. Quando cerchiamo di capire una situazione complessa e mutevole — un’economia nazionale o sviluppi tecnologici come l’invenzione di un computer — la prospettiva unificata di una singola area di competenza o visione del mondo, in realtà, sembra renderci meno capaci di fare una stima dei cambiamenti futuri. Per la prospettiva a lungo termine è necessario reperire gli indizi da più fonti; dilettanti e amatori rendono meglio dei pensatori unificati.
Tetlock ha notato anche un’altra caratteristica interessante nei pronosticatori di successo, mutuata dallo studio dei tipi di personalità invece che dalla metodologia della ricerca. Gli psicologi spesso fanno riferimento ai «big five», cinque tratti che definiscono gli assi principali della personalità umana: coscienziosità, estroversione, amicalità, nevroticismo e apertura all’esperienza. Scrive Tetlock: «La gran parte delle persone che non proviene dal Ghana troverebbe inutile una domanda come “Chi vincerà le elezioni presidenziali in Ghana?”. Non saprebbe da dove cominciare, o perché prendersi la briga. Ma quando ho posto quella domanda a [uno dei pronosticatori di successo] e ho chiesto quale reazione gli suscitava, mi ha risposto semplicemente: “Beh, è un’occasione per imparare qualcosa sul Ghana”» (Tetlock e Gardner, 2015, p. 125).
Ma i superprevisori di Tetlock erano tutt’altro che profeti: come gruppo erano all’incirca il 20% più bravi a prevedere il futuro rispetto al riccio medio, il che significa che facevano appena meglio della pura probabilità statistica. Si può riempire l’intera ala di una biblioteca con le storie di chi non ha visto all’orizzonte sviluppi importantissimi, sviluppi che ora a noi, con il senno di poi, sembrano ovvi. Quasi nessuno aveva previsto il personal computer connesso a una rete, ad esempio. Numerose narrazioni fantascientifiche, a cominciare dalla visione di H.G. Wells di un cervello mondiale, hanno immaginato un qualche genere di superintelligenza centralizzata e meccanica che potesse essere consultata per consigli sui più grandi problemi dell’umanità. Ma l’idea che i computer diventassero di fatto elettrodomestici — economici, portatili e impiegati per attività quotidiane come leggere le rubriche di consigli o informarsi sui risultati sportivi — sembra essere stata quasi inconcepibile, persino per le stesse persone il cui lavoro era quello di prevedere i futuri sviluppi della società! L’unica eccezione è stato un oscuro racconto del 1947 intitolato A logic named Joe (Un logic chiamato Joe), che parla di un apparecchio, un «logic», che non solo assomiglia a un moderno pc, ma include anche funzionalità che precorrono le interrogazioni di Google.
Alla mancata prefigurazione, da parte della fantascienza, dei pc collegati in rete, si è accompagnata una stima parimenti errata dei futuri progressi dei trasporti. A metà del xx secolo la gran parte degli autori di fantascienza dava per scontato che, per la fine del secolo, i viaggi nello spazio sarebbero diventati un’attività normale tra i privati, sottostimando fortemente, nello stesso tempo, l’impatto del microprocessore, cosa che ha portato a quelle che lo studioso di fantascienza Gary Westfahl descrive come «assurde scene di piloti di astronavi che manovrano affannosamente regoli calcolatori per ricalcolare le rotte» (Westfahl, Wong e Chan, 2011, pp. 82-84). Per un motivo o per l’altro, era più facile immaginare che gli esseri umani avrebbero colonizzato Marte che figurarseli a guardare le previsioni del tempo e chiacchierare con gli amici su un pc.2
Perché era così difficile prevedere i personal computer connessi in rete? La domanda è importante, perché le forze che hanno impedito ai nostri visionari scrittori di immaginare la rivoluzione di...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Mappare
  3. II. Prevedere
  4. III. Decidere
  5. IV. La scelta globale
  6. V. La scelta personale
  7. Epilogo
  8. Ringraziamenti
  9. Bibliografia