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QUADRI DI UNA ESPOSIZIONE
2 Enzo Cucchi, Pesce in schiena del mare Adriatico, 1980, olio su tela. Foto courtesy dell’artista.
Punto di partenza di questo percorso è il 14 novembre 1980, giorno in cui si inaugura nel Palazzo di Città di Acireale una mostra di arte contemporanea dal titolo insolito e seducente, Genius Loci appunto. Curatore è Achille Bonito Oliva (d’ora in avanti ABO), una delle figure chiave del panorama artistico del tempo: sue erano state nel decennio precedente rassegne di grande risonanza come Vitalità del negativo, nel 1970, e Contemporanea, nel 1973, entrambe a Roma, e una copiosa produzione critica e militante raccolta in libri dai titoli evocativi come Il territorio magico, L’ideologia del traditore, Passo dello strabismo.
Nella mostra – relativamente periferica e senz’altro di status minore rispetto ad altre di ABO della stessa stagione – espongono ventotto artisti internazionali, più o meno noti, tra cui tre (Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi) dei cinque appartenenti alla Transavanguardia, gruppo che ABO aveva tenuto a battesimo nel 1979 e poi «lanciato» l’anno seguente alla Biennale di Venezia, nella sezione L’arte negli anni Settanta. Aperto 80 allestita insieme ad Harald Szeemann ai Magazzini del Sale alle Zattere.
Il panorama artistico fotografato da Genius Loci è quello del «ritorno alla pittura» e ai media artistici tradizionali, riscoperti in chiave postmodernista da una sensibilità allegorica, ironica e postuma. È un fenomeno in qualche modo inatteso e dirompente che ABO aveva anticipato l’anno precedente con la mostra Opere fatte ad arte e soprattutto con il testo-manifesto La Trans-avanguardia italiana. Esso appare simultaneamente, sebbene in modi assai diversi, su entrambe le sponde dell’Atlantico nel momento cruciale del passaggio appunto alla «condizione postmoderna», così notoriamente battezzata nel 1979 da Jean-François Lyotard, l’epoca in cui si dissolvono i grands récits e la fiducia nel percorso progressivo della storia, nell’effetto emancipatore del nuovo, in una palingenesi della società, in uno spazio da conquistare (o un’origine da ritrovare) oltre (o dietro) le rappresentazioni dominanti. Un’epoca ambiguamente nuova, in cui la sfera della comunicazione ingloba quella della produzione, e nella quale il lavoro, la lotta politica, gli scambi simbolici, la produzione artistica, la comunicazione, forse lo stesso inconscio sono sottoposti alla radicale riconfigurazione impressa dal sistema tardocapitalista e dal suo incessante appello al consumo e al godimento. L’epoca in cui l’arte sembra poter mettere da parte ciò che Adorno aveva considerato il suo compito essenziale nell’epoca moderna, da Baudelaire in avanti: insorgere contro la reificazione del mondo.
Uno sguardo alle pagine del catalogo di Genius Loci consente di valutare a colpo d’occhio l’eterogeneità degli artisti in mostra. Prevalgono di volta in volta – le mie sono definizioni da intendere sempre tra virgolette – caratteri neoespressionisti (Hahn, Chia, Germanà, Disler, Collins, Borofsky, tra gli altri), neoprimitivi (Cucchi, Gasperoni), o anche, per così dire, geometrico-espressivi (Linde, Vargas, Tirelli, Ceccobelli). Cifre e accenti diversi che connotano il profilo di una compagine variegata ma generazionalmente vicina, che condivide un interesse per materiali e tecniche tradizionali, per la metafora, la trascrizione onirica, l’ibridazione fantastica.
La mescolanza degli stili, o forse lo stile della mescolanza, è in effetti ciò che caratterizza artisti ai quali si attribuisce un «nuovo atteggiamento che non predica alcun primato se non quello dell’arte e della flagranza dell’opera che ritrova il piacere della propria esibizione, del proprio spessore, della materia della pittura». Ma questa apertura – continua ABO con una serie di caveat sintomatici e contradditori – non si esaurisce in una edonistica restaurazione del primato della mano e del gusto pittorico tradizionale, perché il «movimento senza direzioni precostituite, senza partenze ed arrivi» degli artisti, la loro dérive pittorica, «passa sempre attraverso il rigore del linguaggio», mentre «il piacere di una manualità non separata dall’impulso concettuale […] non si attarda mai in un perfezionismo accademico». L’attrazione degli artisti di Genius Loci – i tre esponenti della Transavanguardia e buona parte degli altri – per l’arcaico, il dilettantesco, il desueto, per il travestimento, la favola e l’erotismo, si traduce insomma, più che in un ritorno, in una capriola all’indietro di due se non tre generazioni (scrive ABO: «i punti di riferimento sono innumerevoli, senza esclusione alcuna, da Chagall a Picasso, da Cézanne a de Chirico, da Carrà futurista a Carrà metafisico e novecentista») che non pretende tuttavia, in un arduo esercizio di equilibrismo, di rinnegare quanto era avvenuto in arte nei due o tre decenni precedenti.
Concentriamoci ora, anziché sulle opere in mostra o le personalità dei loro autori, sul contesto culturale e ideologico convocato da ABO, sugli argomenti che supportano la sua lettura della contemporaneità, sul variegato orizzonte culturale che la alimenta. Se il suo punto di partenza è l’opposizione, in precedenza più volte argomentata, all’«ottimismo storicistico» della neoavanguardia, al suo «darwinismo linguistico», gli artisti di Genius Loci gli appaiono attestati su posizioni eclettiche, trasversali, trans-avanguardiste appunto, dalle quali considerano «il linguaggio come uno strumento di transizione, di passaggio da un’opera all’altra, da uno stile all’altro», secondo un’idea che troveremo più e più volte ribadita nei testi di questo periodo. Il «ripristino della manualità», il rifiuto dell’idea di progresso, della «tradizione del nuovo», del principio moderno di originalità e superamento costante dei linguaggi espressivi, caratterizza una generazione che non si pone più, scrive ancora ABO, «in termini di contrapposizione frontale ma di attraversamento incessante di ogni contraddizione e di ogni luogo comune, anche quello di una originalità tecnica e operativa». Quadri e sculture, nei quali «la fattura si fa seducente mentre la tautologia scoppia in mille parti», sono giudicati più idonei a interpretare la frammentaria condizione postmoderna delle procedure smaterializzate dell’arte concettuale.
Ci si trova insomma di fronte a un doppio movimento – un ritorno al passato che è anche un salto verso il futuro – in cui l’arte ritroverebbe una nietzschiana indifferenza. Una «nuova mentalità dell’arte», disimpegnata e postideologica, che fa perno sulla «coscienza della sua centralità, dell’autosufficienza in un mondo che non cerca più e non trova punti di ancoraggio fissi e riparati». L’arte, è la conclusione, «è divenuta l’ultima frontiera, il limite territoriale su cui è possibile muoversi». All’artista transa...