La lettura che trabocca in scrittura. Appunti sull’arte del pastiche
David watkins
No, amico Sancio, non perdere tempo a sconsigliarmi dall’eseguire sì rara, sì felice, sì inaudita imitazione.
M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia
1. Psicologia del pastiche
L’arte del pastiche viene spesso considerata come una pratica più o meno segretamente angosciosa. La possibilità stessa di imitare uno stile, di riprodurre il respiro di una determinata scrittura, sembrerebbe portare con sé una duplice inquietudine, capace di colpire, in un solo gesto, tanto chi imita quanto chi viene imitato. Se una capacità imprescindibile del pasticheur è quella di riportare in superficie i tic stilistici che caratterizzano e puntellano la scrittura dell’autore che si intende imitare, non è difficile comprendere il fastidio da cui quest’ultimo potrebbe essere colto nel vedere ciò che nel proprio modo di scrivere vi era di più intimo e sostanziale astratto dalla propria opera e dal proprio nome, riproposto agli occhi dei lettori nella forma di un duplicato ramingo, che di colpo riveli tutto l’automatismo da cui la presunta spontaneità della propria scrittura era costantemente attraversata.
Inoltre, poiché ogni forma di automatismo, come scriveva Bergson, è comica proprio in quanto contraddice il fluire della vita, la sola esistenza del pastiche starebbe lì a denunciare il lato risibile e mortifero dello stile che vi si imita, o quanto meno, la sua incapacità di sottomettersi all’infinito variare delle cose e la sua conseguente necessità di arroccarsi nel chiuso di una forma tanto ricorrente da confondersi con una formula fissa e stabilita. Anche qualora un’imitazione non derivasse direttamente da un intento parodico o satirico, essa implicherebbe comunque, per sua natura, un certo grado di insolenza che predispone al riso, una comicità, magari latente, ma potenzialmente beffarda e derisoria: imitare significa pur sempre generalizzare, far affiorare un tratto generico, esibire il carattere non unico ma ripetibile di un atteggiamento o di uno stile.
D’altra parte, questo fastidio, questa specie di ferita narcisistica che sorprende lo scrittore o la scrittrice divenuta oggetto d’imitazione, non sarebbe che il risvolto speculare dell’angoscia da cui, a sua volta, la scrittrice o lo scrittore che imita è spinto a imitare. Sintomo ed effetto di questa angoscia, il pastiche sarebbe innanzitutto un modo di fare i conti con gli autori da cui più si è stati ispirati, una maniera di prenderne le distanze dall’interno, ovvero una volontà, se non un’esigenza, di dimostrare a sé stessi e agli altri che lo stile imitato non è che una possibilità tra le tante a disposizione della propria scrittura. Rendendo manifesto e intenzionale l’atto di imitare, il pastiche sarebbe anzi il processo in virtù del quale chi imita oggettiva e riconosce ciò che imita come altro da sé; nelle tappe che segnano l’apprentissage di uno scrittore, esso costituirebbe, insieme, una fase preliminare in cui ci si libera dei propri modelli letterari e un esercizio propedeutico alla creazione di uno stile personale. In fondo, ciò che lo stesso Proust, il pasticheur più maniacale del secolo scorso, definiva come la “virtù purgativa, esorcizzante, del pastiche” non era che questo: una “questione di igiene” finalizzata a “purificarsi dal vizio naturale dell’idolatria e dell’imitazione”, come a dire che, paradossalmente, si imita soltanto per non avere più modelli da imitare e non permettere che gli autori su cui si è formata la nostra sensibilità rimangano sedimentati a parlare nella corda più inconscia e remota della nostra voce (“fare un pastiche volontario per poter dopo di ciò ridiventare noi stessi e non continuare a fare pastiche involontario per tutta la vita”).
È mettendo l’accento su affermazioni di questo tipo che molti studiosi del pastiche, e in particolare dei pastiches proustiani, hanno interpretato l’impulso imitativo che lo alimenta alla luce di quella peculiare forma di angoscia che, da Bloom in poi, ci siamo abituati a pronunciare come un correlativo più o meno inevitabile dell’influenza. “Attraverso i pastiches”, scrive per esempio Jean Milly in un suo studio imprescindibile su Proust, “egli vuole liberarsi dalle influenze troppo forti, per acquisire la propria indipendenza, una piena capacità di creatore originale.” E accanto a questa osservazione di Jean Milly si potrebbero menzionare molte altre letture critiche che – parlando dei pastiches proustiani nei termini di un’ascesi o di una catarsi, di una fase essenzialmente negativa, di un’anticamera della letteratura in cui si fa mostra della capacità di tenere sotto controllo il proprio canone di riferimento, o addirittura di una violenza mediante cui ci si appropria della voce che si vorrebbe omaggiare – hanno contribuito in vario modo a individuare nell’angoscia e nella rivendicazione implicita di un’originalità a venire l’affetto primario che muove la pratica del pastiche e il senso ultimo della sua funzione.
Non è mia intenzione negare in assoluto che il pastiche possa essere anche questo esercizio preliminare venato di orgoglio e di angoscia; nelle pagine che seguono, vorrei piuttosto portare alcuni spunti disseminati in diverse riflessioni teoriche sulla scrittura imitativa alle proprie estreme conseguenze e tentare di far emergere, nel modo più chiaro possibile, il controcanto pienamente positivo e gioioso del pastiche che il paradigma dell’angoscia dell’influenza rischia di eclissare. Più precisamente, si tratterà di mostrare come questo modo essenzialmente freudiano di intendere il pastiche, così ridotto a una sorta di complesso edipico che oscilla tra il parricidio e l’omaggio reverenziale, continui a pensare in linea con una posizione che definirei romantica in senso lato: pur riferendosi a una pratica palesemente intertestuale, esso non cessa di presupporre, infatti, una certa mitologia del genio autoriale, dell’autentico e dell’originale, che finisce per ristabilire dei confini rigidi tra l’autore che imita e l’autore imitato, tra lo scherno e l’ammirazione, tra l’imitazione e l’invenzione, tra l’opera e l’esercizio, tra la lettura e la scrittura. Ma è forse proprio per la sua costitutiva capacità di mettere in crisi tutte queste distinzioni e di abitare, per così dire, l’interstizio di questi confini che il pastiche rimane ancora oggi un’arte su cui è bene continuare a riflettere.
2. La posizione liminale del pastiche
Che la concezione del pastiche come sintomo ed effetto dell’“angoscia dell’influenza” sia concretamente legata a una postura romantica, lo possiamo apprendere, per esempio, leggendo Proust, Pastiche, and the Postmodern di James F. Austin. In questo libro recente che ha il merito di affrancare la scrittura imitativa dalla sua accezione negativa, Austin osserva lo stretto legame che sussiste tra l’atteggiamento tipico di un certo romanticismo e la declinazione tendenzialmente parodica che caratterizza il pastiche del xix secolo. Subordinato a un “culto dell’originale” il cui corollario non può che essere il discredito di qualsiasi tipologia di imitazione, il pastiche romantico è intimamente votato a coincidere con la parodia: imitare, sì, ma solo tramite il filtro dell’ironia, imitare soltanto a patto di mantenersi a una distanza sufficiente a salvaguardare il genio e l’unicità della penna che imita dallo stile imitato.
Emancipare la scrittura imitativa dal suo lato parodico per estenderla a un uso non circoscrivibile alla questione delle influenze, né alla presunta angoscia che ne dovrebbe derivare, è invece il senso generale entro cui si inscrive, secondo Austin, il pastiche proustiano. Rileggendo i pastiches scritti tra il 1908 e il 1909 sul tema dell’affaire Lemoine, Austin mostra come l’imitazione proustiana non sia mai riducibile a un parricidio di un modello letterario (l’operazione che Proust svolge nel pastiche di Flaubert può forse essere ridotta al senso di un parricidio?), né tanto meno a una parodia che si esercita nei confronti di un anti-modello. In questo senso, è indicativo che persino l’imitazione dello stile di Sainte-Beuve – contro il cui metodo critico Proust stava scrivendo quello strano saggio destinato a dilagare nella Recherche – sembri essere dettata non tanto da una volontà di schernire, quanto piuttosto da un circuito o da un sottile intrico di allusioni e slittamenti mimetici (l’imitazione del metodo critico di Sainte-Beuve prende a oggetto di analisi il pastiche di Flaubert che in passato lo stesso Proust aveva scritto e pubblicato) che trovano in sé stessi la jouissance del proprio esercizio. D’altronde, l’impossibilità di distinguere lo scherno dall’ammirazione nel tono fondamentale dei pastiches proustiani era già stata chiaramente percepita da Genette, che aveva sottolineato l’andamento chiastico e ambiguo mediante cui lo schernire diviene “un modo di amare, e dove l’ironia […] non è che un espediente della tenerezza”.
Abolire il discrimine che separa la burla dal gesto d’amore, essere a un tempo la punzecchiatura e il suo più tenero risvolto, non è che il primo dei molti sensi in cui il pastiche si colloca in una posizione liminale. È tipico del pastiche, infatti, mettere in crisi l’immediatezza con cui si è soliti distinguere l’imita...