Capitolo quarto
I trovatori: le varie facce della cortesia
L’identità sociale e culturale del trovatore
Quando la dama e il cavaliere esprimono e rappresentano le loro interiori tensioni nel cosiddetto jeu d’amor ripropongono in modo evidente lo schema dei rapporti feudali, anche se con una diversa distribuzione dei ruoli: la dama diventa il midons e il cavaliere il suo sirven. Ma qual è il ruolo del trobador in questo aristocratico teatro della cortesia?
Accanto ai protagonisti del discorso amoroso il terzo polo del triangolo cortese è costituito naturalmente dagli stessi trovatori, che, facendosi interpreti delle pulsioni e degli squilibri di classe e di genere interni alla nobiltà, li traducono nel linguaggio della poesia emergendo essi stessi come soggetti sociali.
Il trobador è esperto nell’arte del trobar, cioè nella versificazione e nella musica. È un uomo colto, che ha avuto la possibilità di apprendere l’arte poetica nelle scuole annesse alle cattedrali, nei monasteri o a diretto contatto con altri poeti. Ad esempio nell’abbazia di San Marziale, a Limoges, il centro culturale più importante del Limosino, si compongono in latino splendide canzoni religiose che influenzano la nascita della nuova lirica cortese scritta per la prima volta nella plana lenga romana (piana lingua romanza). Le canzoni ideate in latino coesistono con le canzoni in lingua d’oc. Trobar, infatti, deriva forse dal termine mediolatino tropare, che vuol dire comporre dei tropi, cioè delle variazioni melodiche all’interno del canto liturgico.
Il duca d’Aquitania Guglielmo IX, a conferma dell’esistenza di un rapporto di continuità tra la musica, le formule metriche utilizzate nel canto liturgico e la nascente poesia cortese o, più in generale, tra la cultura mediolatina e quella romanza –, afferma infatti, in un suo canto di penitenza, di pregare Gesù “et en romans et en lati” (in volgare e in latino).
I trovatori, per la loro preparazione e per la loro posizione sociale sono superiori ai giullari, spesso chiamati a trasmettere e a eseguire le canzoni dei trobador. Anche il giullare può essere un compositore, ma il più delle volte si serve di repertori di testi trobadorici, che spesso altera e trasforma, secondo una tendenza tipica delle culture a dominante orale in cui il veicolo della scrittura è ancora debole.
Il trovatore, dal canto suo, ci tiene a sottolineare la paternità dei suoi versi e la sua superiore maestria, come fa, ad esempio, Marcabru, che vuole evitare ai suoi testi le improprie manomissioni degli esecutori:
Ajutaz de chan, com enans’ e meillura,
E Marcabrus, segon s’entensa pura,
Sap la razon e’l vers lassar e faire
Si que autr’om l’en pot un mot traire
(Sentite come il mio canto progredisce e migliora, e Marcabru, secondo il suo puro ingegno, sa formare l’argomento e legare la poesia, in modo tale che nessuno ne può togliere nemmeno una parola) (Mölk, 1986, p. 60)
La maestria del trovatore è compresa solo da una ristretta cerchia d’intenditori, che proprio attraverso la condivisione del nuovo linguaggio attesta la superiorità morale e culturale del compositore.
Il milieu sociale da cui provengono i trovatori è comunque piuttosto eterogeneo. Tra di essi, infatti, si trovano principi e re, duchi, conti, cavalieri poveri, chierici e borghesi, uomini e anche donne. Il primo trovatore di cui si ha notizia è un gran signore, ricco e potente, “un dels major cortés del mon e dels majors trichadors de domnas” (uno degli uomini più cortesi del mondo e uno dei maggiori ingannatori di donne) (Bec, 1979, p. 71), come racconta la sua vida (vita). Guglielmo IX (1086-1127), duca d’Aquitania e settimo conte di Poitiers, è un libertino amante del joi e del deport, della gioia e del piacere, ma è anche capace di esplorare gli aspetti più sentimentali dell’amore. In uno dei suoi famosi vers – così è definita inizialmente la cansò, la canzone trobadorica, per lo meno fino a Giraut de Bornelh – prima paragona l’amore a un cespuglio di biancospino, tremante per il gelo notturno e riscaldato dal sole del mattino, poi, però, afferma brutalmente che può parlare d’amore solo chi possiede tutto il necessario, cioè la pessa (carne) e il coutel (coltello).
La nostr’amor va enaissi
Com la branca de l’albespi
Qu’esta sobre l’arbre tremblan,
La nuoit, a la ploj’ez al gel.
Tro l’endeman, qu’l sols s’espan
Per la fueilla verz e’l ramel.
Enquer me membra d’un mati
Que’m nos fezem de guerra fi,
E que’m donet un don tan gran,
Sa drudari’e son anel:
Enquer me lais Dieus viure tan
C’aia mas manz soz son mantel!
Qu’eu non ai soing d’estraing lati
Qu’m parta de mon Bon Vezi,
Qu’eu sai de paraulas com van
Ab un ...