I baroni di Aleppo
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I baroni di Aleppo

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I baroni di Aleppo

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Informazioni sul libro

"Perchè si decide di partire per un luogo? A volte basta un nome evocativo come Aleppo, a volte la voglia di ritrovare le atmosfere di un libro, magari di D. H. Lawrence o Agatha Christie. Altre ancora, per il fascino di un albergo come l'Hotel Baron, la cui centenaria storia è narrata in questo libro, assieme alle vicende di una paese intero: la Siria." La RepubblicaCento anni di avvenimenti e di personaggi, da Lawrence d'Arabia ad Agatha Christie, da Pasolini a Freya Stark, scorrono sul palcoscenico di quello che fu l'albergo più elegante del Medioriente.Si tratta del Baron's Hotel di Aleppo, ancora oggi impegnato in una difficile battaglia per la sopravvivenza.A fondarlo furono i Mazloumian, armeni, giunti in Siria dopo una drammatica fuga dalle prime persecuzioni ottomane nei confronti dei cristiani dell'Anatolia. Attraverso le vicende del loro albergo vengono rievocate le pagine di storia più intense di questa regione del mondo, dal primo genocidio del secolo alla morte di Hafiz el-Asad.

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Informazioni

Editore
La Lepre
Anno
2012
ISBN
9788896052549
visioni
visionibn.eps
Flavia Amabile
Marco Tosatti
I baroni di Aleppo
LEDOMANDE DELLA LEPRE.tif
© Copyright 2011 by La Lepre Edizioni
Via delle Fornaci, 425 - 00165 Roma
www.lalepreedizioni.com
Progetto grafico/Francesca Schiavoni
Coordinamento editoriale e realizzazione digitale/Plan.ed
www.plan-ed.it
ISBN 978-88-96052-54-9

Capitolo primo

Vivevano in un piccolo villaggio, stretto fra le alture dell’Anatolia orientale. Delle date si è da tempo persa la memoria, e comunque in quei luoghi, e in quell’epoca, non avevano molta importanza. Poteva trattarsi del 1860, anno più, anno meno. Gli armeni lo battezzarono Antchurty, “posto senz’acqua”, una quotidiana scommessa di vita per un popolo caparbio, deciso ogni giorno a sfidare un suolo avaro. Krikor fu uno dei più caparbi: pregò e lavorò finché divenne un agha, un piccolo signore terriero, proprietario di ettari ed ettari duri, aridi, coperti a ogni primavera di germogli quasi miracolosi. Nessuno ne seppe mai la ragione, ma una mattina radunò la famiglia e annunciò la sua partenza: sarebbe andato a Gerusalemme, a pregare sulla tomba di Cristo, a pagare un suo debito, contratto in segreto.
Qualche giorno più tardi, uscì di casa che il cielo era ancora buio, caricò sul mulo due sacche di vestiti e provviste, prese in mano la cavezza, e si mise in cammino. Si fermò su un’altura, mentre già la luce dell’alba scavava i primi solchi d’ombra sulle zolle ben curate dei suoi campi lontani. Mangiò un po’ di pane, e gettò le briciole agli uccelli. A casa era il gesto d’inizio di una lunga giornata di lavoro. Lì, fu l’avvio di una grande avventura, per se stesso, e per le tre generazioni successive di Mazloumian.
L’impero ottomano già si avviava alla decadenza, ma ancora stendeva le ali sui luoghi santi: Gerusalemme, Mecca e Medina. Paure e disagi separavano Krikor dal momento in cui avrebbe potuto contemplare una piccola croce tatuata sul braccio, conferma e orgoglio del pellegrino cristiano. L’autorità dell’impero svaniva appena si usciva dai centri abitati. Predoni, banditi e razziatori erano in agguato costante. Al calar del sole si sbarravano le porte delle città e dei villaggi, nel timore di incursioni e violenze; lo stato ottomano era grande e fragile, un vero “uomo malato”, come lo definivano le potenze europee smaniose di smembrarne l’ampio corpo disteso dal Golfo Persico al Caucaso.
Krikor toccò Aleppo, Damasco, poi Beirut e la costa, più sicura delle steppe e del deserto dell’interno, regno incontrastato delle tribù beduine. Durò settimane la discesa nelle province dell’impero. Poi, finalmente, un giorno si disegnò da lontano, all’orizzonte, la cerchia delle mura dorate nel sole e ancora più da presso si rivelarono le prime cupole della Città Santa. Pianse, pregò, infine trovò la forza di avvicinarsi alla più santa delle città sante, di varcare la Porta di Jaffa, per chiedere asilo, come gli era stato consigliato, alla Confraternita di San Giacomo, il grande convento voluto nel medioevo per ospitare i pellegrini armeni. Ammirò il pavimento di mosaico della chiesa di San Polieuto, si riposò nei giardini del quartiere armeno all’ombra degli alberi più antichi dell’intera Gerusalemme. Si prosternò davanti al Santo Sepolcro, poggiò la mano sulla pietra della Tomba, accese candele di fronte al masso del Golgota, al foro lasciato dalla croce nella roccia, ora coperto da una lucida placca d’argento. Poi recò il suo dono, il suo prezioso ex voto, alla cattedrale di San Giacomo; una goccia nel mare di mitre, corone, calici d’oro intarsiati di gemme, splendidi paramenti, lampade d’oro e d’argento della basilica più sontuosa della città. Un mare riempito nei secoli dal fluire della gratitudine armena.
Quando l’anima e lo spirito furono placati, e il voto compiuto, riempì di provviste le bisacce, e riprese la strada verso il nord. Dopo tanti agi, non fu semplice riabituarsi al dorso del mulo, né ai ripari di fortuna lungo la strada, ma non fu questo a far cadere così spesso la sua sferza sui fianchi dell’animale. Fu un senso di inquietudine, un timore ispirato da voci e racconti uditi a Gerusalemme di incursioni dei soldati ottomani nelle terre raccolte intorno al monte Ararat e al lago di Van: le sue terre. Sperava di raccogliere notizie fresche ad Aleppo, ma quella città seppe offrirgli solo delusioni. Era la seconda metropoli dell’impero ottomano, il luogo dove – così vuole la tradizione islamica – Abramo munse la sua vacca e da Halab, “latte”, dicono che venga il suo nome arabo. Era la piazza del mondo, almeno di quella parte di mondo, il cuore della rosa dei venti, l’approdo ultimo delle antiche navigazioni di terra, le vie della seta, delle spezie e dell’incenso. Ma sia nella prima che nella seconda visita, Krikor e il suo mulo non trovarono altro alloggio che un khan, un caravanserraglio. Merci e animali accatastati nel cortile e nelle stanze tutt’intorno, gli umani al piano superiore, obbligati a dividersi lo spazio e i pidocchi, senza porte né privacy. Nel suq ebbe notizie vaghe e confuse sulla situazione in Anatolia e sulle scorribande degli uomini di Costantinopoli. No, non avrebbe rimpianto il khan di Aleppo, pensò Krikor guidando il suo mulo sulla strada dei monti, verso Zeitoun, nell’alba rossa di pioggia imminente.
Lentamente costeggiò il Monte Amanus. Scelse di proposito la strada che puntava dritta a nord, invece della via, più comoda ma più lunga, diretta al mare, verso Alessandretta. Oltrepassò Beilan, e varcò il confine del Vilayet di Aleppo a Tchork Marzemene. Era quasi il tramonto quando giunse ad Akbes, e chiese ospitalità alla famiglia del sacerdote, dopo aver pregato, in ginocchio sul pavimento di nuda pietra della piccola chiesa. Trovò il villaggio in uno stato di grande eccitazione, e paura.
«Avete saputo di Adana?» gli chiese il prete quando furono seduti alla povera tavola. «I turchi hanno massacrato i cristiani, saccheggiato il suq, per tre giorni, senza che il governo facesse nulla o quasi. La notte prima della strage hanno segnato i negozi musulmani, per risparmiarli, gli altri li hanno vuotati e bruciati. E dicono che anche nella campagna i cristiani non sono più sicuri. Badate a voi, evitate i villaggi islamici». Krikor si levò prima dell’alba, e si mise in cammino verso nord, Islahia ed Entilli. Nei campi non si vedeva nessuno, i rari passanti si avvicinavano con cautela, si allontanavano in fretta. Le porte, le finestre delle fattorie erano chiuse, sprangate. A Babdje’ cercò rifugio per la notte: lo fermarono, alle porte del villaggio, uomini armati. Si convinsero a lasciarlo entrare solo quando furono certi che fosse armeno, dopo che ebbe mostrato la croce tatuata sul braccio, ricordo perenne del pellegrinaggio alla tomba di Cristo. «Li aspettiamo da un momento all’altro» gli dissero «dopo quello che hanno fatto a Missis».
Missis era stata una cittadina di un migliaio di anime, metà armene e metà turche. Un fornaio era l’unico armeno sopravvissuto. La storia delle sue tribolazioni passava di bocca in bocca, un campionario di orrori. Nascosto sotto un tetto aveva visto assalire le case cristiane, il fuoco appiccato dai soldati ottomani, e, più alto del rombo dell’incendio e delle urla, una voce di donna, come folle, urlare: «Musulmani, venite a scaldarvi al fuoco dei giaurri! È la fine degli infedeli!». Era Sinè Hanoum, figlia di un notabile del villaggio, guidava le bande musulmane, ordinava di accendere tutti i forni a pane, per gettarvi i cristiani.
Il fuoco cominciò a lambire il nascondiglio del fornaio, fu costretto a uscire nella notte illuminata dagli incendi. Lo videro. Riuscì a correre fino a una collina poco distante, a rifugiarsi in una caverna profonda. I suoi inseguitori non osarono avventurarsi all’interno. Bruciarono rami d’albero e sterpaglie davanti all’orifizio, per soffocarlo o stanarlo; infine ostruirono l’ingresso con delle grosse pietre. «Tremavo in tutto il corpo, sentivo che la morte si avvicinava. Svenni, mi addormentai, non so. Ma al risveglio mi accorsi che le pietre erano state tolte! Seppi, più tardi» disse ancora il fornaio «che degli zingari, avendo saputo che un giaurro si era rifugiato là dentro, avevano tolto i massi. Non osarono entrare, però, era troppo stretto e buio, ebbero paura».
Il fornaio rimase nascosto nella caverna tre giorni: poi uscì. Il massacro era finito. Il suo villaggio, e tutto ciò che di prezioso e caro aveva al mondo, erano distrutti.

Capitolo secondo

Ancora una decina di chilometri e poi, finalmente, Antchurty. Ancora poche ore, le più lunghe del viaggio. Krikor incitò il mulo. Tormentato dal ricordo degli orrori narrati dal fornaio di Missis, voleva giungere a casa, presto, il prima possibile. La bestia accennò a un galoppo, poi scivolò nel trotto, infine si assestò nel passo di sempre, ottusa, indifferente. Krikor dovette rassegnarsi, sopportare il tormento fino all’ultimo, fino alla porta di casa, il figlio maggiore che gli saltava al collo, sua moglie che gridava di gioia, mentre il peso dell’ansia e delle paure svaniva in un attimo lasciandolo ebbro di una leggerezza infinita.
Vuotato anche l’ultimo brindisi, cercò di riprendere la vita di sempre. Inutilmente. La vita di sempre era un calice spezzato, il timore il pane quotidiano degli armeni. Dopo i massacri di quei giorni, i turchi avevano indossato turbanti bianchi in segno di riconoscimento, e si stavano unendo ai soldati inviati dal sultano di Costantinopoli Abd el-Hamid, per prendersi cura delle regioni orientali dell’impero ed estirpare subito i primi germogli di indipendenza armena.
Quell’anno ad Antchurty la terra accolse semi, e armi. Sotto i cespugli di rovo, ai piedi degli alberi di mele, ai margini dei filari di futuro grano: dovunque si scavò per nascondere fucili e pistole. Quando gli stivali dei soldati giunsero in prossimità del villaggio, a ogni mano abbastanza ferma per sparare fu affidata un’arma. Porte e finestre delle case furono sprangate. L’attesa ebbe inizio. Si fece sera, calò la notte. Krikor e sua moglie avevano messo a letto i bambini, poi si erano seduti accanto al camino, spento per non attirare l’attenzione dei soldati. La Bibbia era aperta davanti a loro, in un silenzio rotto solo dai versi della Genesi sussurrati dalla moglie.
Gli stivali attraversarono Antchurty. Non si fermarono: la colonna proseguì la sua marcia verso il Caucaso, verso Erzurum, Van, Bitlis, Sivas. Il piccolo villaggio non era nell’elenco stilato dai consiglieri del sultano. «Non lo è ancora» disse Krikor a sua moglie, e ai figli «ma lo sarà presto. Aspettiamo che tornino i miei fratelli, poi decideremo sul futuro». I fratelli erano partiti ormai da molti giorni, si erano recati a Erevan per affari. Avevano saputo laggiù del passaggio delle truppe di Abd el-Hamid. Sbrigate rapidamente le loro faccende, si erano affrettati a rimettersi in strada verso casa. Forse si erano imbattuti nei soldati. Forse uno scontro, una parola di troppo, una provocazione raccolta. Non tornarono.
Tornarono i soldati, invece. Per la seconda volta la piccola Antchurty sprangò le porte delle case, e di nuovo Krikor e sua moglie si sedettero, in attesa del nulla, leggendo i Salmi. «Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?» recitava Krikor, quando un rumore sordo giunse dai campi, seguito da un altro, e un altro ancora. La donna fu rapida nell’afferrare il marito per un braccio, a impedirgli di lanciarsi verso l’uscio e uscire verso chissà quale destino. Lo tenne stretto a sé, finché i rumori cessarono, e dalle fessure delle imposte sprangate filtrò nella stanza la luce grigia di un giorno gonfio di nuvole e di amarezza.
Impietosa, l’alba rivelò il disastro. Un paesaggio confuso di alberi mutilati, filari divelti e uomini disperati, si offrì alla vista di Krikor. I campi, i muretti, le zolle ben curate non esistevano più, distrutto il raccolto, cancellati tutti i suoi anni di fatica. Krikor rientrò in casa. Parlò a lungo con la moglie, poi riunì i lavoranti. «Noi partiremo domani mattina» annunciò. «Abbiamo deciso di abbandonare Antchurty. Andremo ad Aleppo. È una grande città, gli armeni sono numerosi. Lavoreremo lì. Chi vuol seguirci, è il benvenuto. Partiremo all’alba».
Nessuno si presentò all’appuntamento. Krikor e la moglie caricarono due muli delle loro cose, chiusero la porta, e si avviarono. All’ultima curva, prima che Antchurty scomparisse alla vista, Krikor si fermò, per salutare la sua vita passata. Prese un pezzo di pane, lo divise con sua moglie e i figli, lanciò le briciole agli uccelli. Un’altra giornata di lavoro era iniziata.

Capitolo terzo

Due settimane durò il viaggio verso Aleppo. In Krikor era fresco il ricordo del pellegrinaggio a Gerusalemme, ma sua moglie e i due ragazzi mai prima di allora si erano allontanati dalla piccola Antchurty. Per la prima volta attraversarono la steppa, qua e là vestita di isole verdi, folte e compatte; le vallate strette fra terrazze naturali grigio chiaro, granulose, calcaree, sostituivano, piano piano, le ciotole morbide e sanguigne di roccia anatolica. E la gente dei khan: arabi del deserto magri e sottili, contadini delle pianure dell’Eufrate, e circassi, dagli occhi chiari e la pelle rosea, tutti così diversi dal popolo di Antchurty.
Dopo due settimane di stupori, immagini e sensazioni, un pomeriggio Aleppo si distese ai loro piedi. L’aria tersa svelava fortificazioni e case, i minareti e la ruga cupa del fossato. I raggi del sole calante scolpivano ombre nelle mura e nelle cupole, disegnando contro il cielo la sagoma della Cittadella: un fiore di pietra bianca, rosato dal tramonto. Krikor, la moglie Turvanda e i figli restarono immobili, a bere con gli oc...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo primo
  2. Capitolo secondo
  3. Capitolo terzo
  4. Capitolo quarto
  5. Capitolo quinto
  6. Capitolo sesto
  7. Capitolo settimo
  8. Capitolo ottavo
  9. Capitolo nono
  10. Capitolo decimo
  11. Capitolo undicesimo
  12. Capitolo dodicesimo
  13. Capitolo tredicesimo
  14. Capitolo quattordicesimo
  15. Capitolo quindicesimo
  16. Capitolo sedicesimo
  17. Capitolo diciassettesimo
  18. Capitolo diciottesimo
  19. Capitolo diciannovesimo
  20. Capitolo ventesimo
  21. Capitolo ventunesimo
  22. Capitolo ventiduesimo
  23. Capitolo ventitreesimo
  24. Capitolo ventiquattresimo
  25. Capitolo venticinquesimo
  26. Capitolo ventiseiesimo
  27. Capitolo ventisettesimo
  28. Capitolo ventottesimo
  29. Capitolo ventinovesimo
  30. Capitolo trentesimo
  31. Capitolo trentunesimo
  32. Capitolo trentaduesimo
  33. Capitolo trentatreesimo
  34. Capitolo trentaquattresimo
  35. Capitolo trentacinquesimo