Prefazione
Quello che state per aprire è un saggio storico, documentatissimo peraltro, con una bibliografia attenta e vasta, con preziose fonti inedite, come i saggi dovrebbero avere. Ma non per questo è scritto per gli addetti ai lavori. È invece un libro che scorre via, catturando l’attenzione del lettore curioso, poiché non solo ripercorre quanto accaduto dopo la breccia di Porta Pia, nove anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, ma ha il merito di leggere una storia dietro la storia, come se avesse discosto un tendaggio per scoprire un affresco. Così è questo saggio, perché l’autore sa che la Storia è fatta di tante storie, di vita quotidiana, di cronaca, di fatterelli che gli specialisti trasformano in eventi, di piccoli appunti che si tramutano in diari. Si prenda la descrizione del valoroso comportamento degli “zampitti”, i ciociari con le umili ciocie ai piedi. Reclutati per la repressione del brigantaggio, ma così somiglianti a quei briganti cui davano la caccia, malvisti dai bulletti di città, così diversi dai gallonati e doratissimi giovani della Guardia Nobile papalina, furono gli unici a battersi valorosamente contro le truppe regie. Gli ultimi della truppa pontificia a tornare a casa, dopo due anni di lavori forzati.
Scritte con uno stile letterariamente originale, con linguaggio mai banale, sempre ricco e suggestivo, le pagine scorrono come una macchina del tempo: il plebiscito che seguì la presa di Roma, la divisione tra aristocrazia nera, aristocrazia bianca e la vincente “aristocrazia dei milioni”. Benedizioni papali e pasque laiche, cacce alla volpe nelle tenute reali e feste da ballo con “vermutte”. Il principesco distacco dei regnanti piemontesi, nuovi padroni di casa, e la popolaresca vivacità romana, i travet della nuova Italia unita e gli sfaccendati che rimpiangevano la carità del papa-re. Il pontefice, il re e Roma: è in questo trittico che si dipana la storia di fine Ottocento. In mezzo, la città eterna, che l’autore ama e conosce al presente e al passato, non soltanto sfondo scenografico della storia ma complice o avversaria, capace di nascondere, svelare, aiutare o punire. Con i vicoli, le chiese e le piazze, con il Tevere poi imbracato dai muraglioni piemontesi, con i palazzi curiali, il Quirinale e San Pietro. È la Roma dei mestieri antichi: «Il barozzaro, i pecorari, lo scrivano pubblico, il barbiere della meletta...». Quella dove “romani de Roma” e nuovi arrivati si guardano diffidenti in mezzo a miseria e difficoltà economiche, al caro-vita, al sovraffollamento e a un boom edilizio che cela speculazioni e arricchimenti formidabili. Una città in piena crisi economica, con 252 cantieri su 340 chiusi nel giro di venti mesi, centinaia di mendicanti per le strade e le cariche di polizia contro i lavoratori.
Sergio Valentini sa bene che i punti esclamativi e la retorica nascondono sempre qualcosa. Grazie a questa onesta impostazione, disincantata e colta, il saggio ci aiuta a capire qualcosa in più del presente, indicandoci con ironia perché siamo quello che siamo. Dietro il roboante e guerresco suono della fanfara, c’è sempre qualcuno che stona, e in queste pagine ricche di aneddoti e di ricostruzioni puntigliose, a volte mai raccontate, ci sono le radici dell’Italia che si appresta a festeggiare 150 anni di unità. Un’unità faticosa, voluta o contrastata spesso con l’identica sincerità e con il medesimo entusiasmo, ma unità che seppe superare le difficoltà. Che resse alle non poche spallate, unità non come valore formale, ma come rivendicazione di libertà e di giustizia, di eguaglianza di diritti e doveri.
Certo, le parole del patriota Montecchi, che nel giorno del plebiscito erano cariche di speranza – «d’ora innanzi gli interessi del popolo non saranno più abbandonati agl’intrighi delle consorterie, ma discussi e propugnati alla luce del sole, in mezzo al popolo e col popolo» – oggi suonano cariche di un’illusione amara, gattopardesca. Sfiducia, insomma, per un’Italia che non riesce ad avere una morale civile condivisa, che non possiede un senso del bene comune, che ignora che l’interesse individuale non può fare a meno di quello generale. Eppure anche speranza per un Paese che, ieri come oggi, deve trovare la cifra del proprio vivere civile, speranza perché quegli ideali risorgimentali sono ancora davanti a noi, da tradurre al presente. Un vecchio e deluso Garibaldi si dimise da deputato scrivendo: «Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno ed umiliata all’estero ed in preda alla parte peggiore della nazione». Quante volte avremmo potuto ripetere queste amare parole, eppure su quel sogno ci sono, ci siamo, milioni di italiani pronti a scommetterci ancora.
Walter Veltroni
Una città ingovernabile
Si era appena insediato e: «Questa è una città ingovernabile», disse ai suoi della Giunta Provvisoria di Governo della città di Roma il generale Raffaele Cadorna, comandante delle truppe di Sua Maestà il Re d’Italia che l’avevano conquistata. Non se ne faceva un vanto il generale, conquistatore per suo dovere di soldato, ma sotto sotto amareggiato per avere recato offesa al buon Dio, e pure a Papa Pio IX suo vicario in Terra.
La Roma del 1870: 226.000 abitanti dell’ultimo censimento, un 100.000 dei quali fino ad allora aveva campato dell’elemosina del papa-re cui si dichiarava incrollabilmente fedele; una spregiosa aristocrazia che, legata al Vaticano, non s’arrischiava ancora a prendere posizione; liberali di vecchia, provata fede; neoliberali di recente, dubbia, chiassosissima fede; liberi pensatori che si atteggiavano a conquistatori di Roma; neogiacobini sempre arrabbiati che maltrattavano tutti i preti, seminaristi e studenti di collegi stranieri in cui gli capitasse di imbattersi.
Tutto era successo in poche ore, dalla breccia di Porta Pia all’ingresso in Roma del IV C...