La filosofia e le lettere
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La filosofia e le lettere

Le origini, la modernità, il Novecento

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La filosofia e le lettere

Le origini, la modernità, il Novecento

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Negli otto secoli della sua storia, l'Università di Padova ha saputo svolgere nella filosofia e negli studia humanitatis un ruolo di grande rilevanza. E non solo nella realtà italiana, dove è stata costantemente uno dei centri più importanti, ma anche a livello della cultura europea, all'interno della quale si è sempre inserita con indiscussa autorevolezza. Fin dalle sue origini, nei secoli di passaggio al «mondo nuovo» che nasce con la riscoperta dell'antico, quando il ritorno all'antico è stato apertura al futuro, la filosofia patavina, che faceva tutt'uno con gli studia humanitatis intesi in senso largo e pieno, è stata protagonista sulla scena del pensiero, procedendo con un metodo fondato su una razionalità «laica», libera nelle sue indagini da pregiudiziali di qualsiasi genere, anche da quelle di carattere religioso: una razionalità critica che insegna a ragionare de naturalibus naturaliter, con Pietro d'Abano, con Marsilio, con tutti gli altri grandi «aristotelici» del Rinascimento, fino a Galileo, diventando «luogo» geografico e storico della nascita della scienza moderna. La «filosofia naturale» nata a Padova con la rivoluzione galileiana, che nelle già consolidate tradizioni di ricerca dell'Ateneo trova fertile terreno di crescita, costituirà per tutti i secoli della modernità, facendosi scienza sperimentale della natura, l'orizzonte concettuale fondante l'identità culturale europea. Ma Padova saprà essere centro vivace di elaborazione di cultura umanistica e di pensiero filosofico anche nel Novecento, caratterizzandosi come un Ateneo in cui filosofia e studia humanitatis sono stati coltivati con originalità ed ai più alti livelli. La Patavina Libertas che la Serenissima Repubblica ha garantito al «suo» Studium nei secoli ne farà «l'Università della ragione spregiudicata, della Libertà e del Patriottismo», come la definì Melchiorre Cesarotti nei tumultuosi anni dell'avventura napoleonica. Questo imprinting segnerà anche il destino dell'Ateneo nel periodo non meno drammatico della Resistenza contro il nazifascismo nel Novecento: faro ideale capace di dare la forza morale necessaria alla lotta sarà allora il patrimonio di valori che la tradizione della cultura «umanistica» ha saputo elaborare e trasmettere nei passaggi tra le generazioni, consegnandoli sempre rinnovati nella continuità secolare della sua storia, sino ad oggi.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788855222488
Argomento
Storia

Parte terza

L’Ottocento e il Novecento

I. L’Ottocento filosofico padovano: tra «filosofia dell’esperienza», filosofia eclettica e spiritualismo

di Gregorio Piaia

Quale fu la sorte della filosofia all’Università di Padova durante le movimentate, turbinose vicende del periodo compreso fra il 1797 e il 1815? Nel giro di neppure vent’anni i padovani assistettero alla fine dell’ancien régime rappresentato dalla millenaria Repubblica di Venezia, all’intensa ma breve esperienza della municipalità democratica (i francesi entrarono in Padova il 28 aprile 1797), al passaggio ufficiale sotto la dominazione austriaca (febbraio 1798) in seguito al Trattato di Campoformido, alla temporanea occupazione francese nel corso del 1801, all’annessione al napoleonico Regno d’Italia dopo la Pace di Presburgo (26 dicembre 1805), al breve ritorno delle truppe austriache nel 1809 e al loro definitivo insediamento nel novembre 1813. Con la nascita del Regno Lombardo-Veneto nell’ambito dell’Impero d’Austria (7 aprile 1815) si opera un assestamento politico-istituzionale che fino all’insurrezione studentesca e popolare dell’8 febbraio 1848 avrebbe garantito alla città e al suo Ateneo un periodo assai tranquillo, all’insegna del paternalismo asburgico unito a un vigile e occhiuto controllo della condotta di docenti e studenti.
A dire il vero la filosofia non sembra aver risentito molto di questo travaglio militare, politico e sociale, che durante il periodo napoleonico comportò anche la modifica dell’antico ordinamento universitario, imperniato sulle tre Facoltà delle Arti, di Diritto e di Teologia, ora sostituite dalle Facoltà fisico-matematica, medica e legale, mentre gli studi teologici sono confinati nel seminario ecclesiastico. Dopo il passaggio alla dominazione austriaca viene ripristinata la Facoltà teologica e viene istituita la Facoltà «filosofico-matematica», ove trovano collocazione le discipline umanistiche: l’iniziale triennio «filosofico» (ridotto a un biennio a partire dall’anno accademico 1824-25) era propedeutico sia al corso «matematico» (che preparava gli ingegneri-architetti e i periti agrimensori) sia alle altre tre Facoltà padovane (la politico-legale, la medica e la teologica). A partire dal 1842 le Facoltà vennero denominate «Studi» e il corso filosofico e quello matematico vennero a costituire due «Studi» autonomi. La riforma scolastica del 1852 portò la durata degli studi ginnasiali da sei a otto anni, per cui lo «Studio filosofico» perdette la sua funzione propedeutica, ma continuò ad essere attivato per la formazione dei futuri insegnanti ginnasiali e l’approfondimento culturale degli iscritti agli altri «Studi».
Nel primo ventennio dell’Ottocento a Padova la figura più rappresentativa in campo filosofico fu senza dubbio il monaco benedettino olivetano Cesare Baldinotti (1747-1821). Fiorentino di nascita, sul finire del 1796 aveva lasciato l’insegnamento di Logica e Metafisica all’Università di Pavia, ov’era malvisto dal governo della Repubblica cisalpina da poco fondata da Napoleone, e nel 1802 era stato nominato bibliotecario temporaneo dell’Università di Padova. L’anno successivo assunse l’insegnamento di Metafisica (succedendo a Giovanni Luiselli), cui nel 1805 si aggiunse la cattedra di Logica e «arte critica» dopo la morte del titolare Antonio Lavagnoli. Con il passaggio del Veneto sotto il Regno italico questa cattedra fu denominata «analisi delle idee», in linea con la filosofia degli idéologues allora imperante in Francia. Nel 1808 il Baldinotti cessò l’insegnamento per raggiunti limiti di età, ma continuò a godere di grande stima: il giovane Antonio Rosmini, quand’era studente di Teologia all’Università di Padova, lo frequentò per discutere di filosofia e lo inserì come interlocutore in un suo «dialogo sulla metafisica» che abbozzò nel settembre 1817. Com’è stato sottolineato da Gianfranco Radice, a distanza di vent’anni, pur non condividendo più il sensismo al quale era stato inizialmente introdotto, Rosmini nel Rinnovamento della filosofia in Italia menzionerà il Baldinotti quale «filosofo […] molto erudito, del quale […] m’è gratissima la memoria, e gratissimo il ricordare l’affabilità».
La posizione filosofica del monaco Baldinotti non si discosta dal sensismo moderato che dominava in quegli anni nelle università italiane e che era stato accolto senza problemi anche nel mondo ecclesiastico. Non a caso le Istituzioni di logica, metafisica ed etica (Milano 1791) del somasco Francesco Soave, propugnatore di una «filosofia dell’esperienza» che si rifaceva a Locke, a Condillac e agli idéologues ma nel contempo riteneva possibile dimostrare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, godettero di grande e duratura fortuna: lo stesso Baldinotti le utilizzò nei suoi corsi e all’Università di Padova quest’opera fu poi adottata ufficialmente come libro di testo fino al 1837. Già formulata sul piano del metodo nei De recta humanae mentis institutione libri IV (Pavia 1787), la prospettiva filosofica del Baldinotti si coglie appieno nel primo dei Tentaminum Metaphysicorum libri tres, apparso a Padova nel 1817 (gli altri due non videro la luce). Dedicato alla «metafisica generale», questo libro è interessante soprattutto per la sua appendice, ov’è svolto un esame critico della filosofia kantiana. Nell’ottica dell’empirismo, da cui il Baldinotti non si distacca, il trascendentale kantiano (ossia la presenza nel soggetto umano di funzioni conoscitive a priori, valide però solo nell’ambito dell’esperienza) toglie ogni certezza alla conoscenza e alla stessa condotta morale. Di qui le accuse a Kant di soggettivismo e scetticismo, ma anche di astrusità e di ricaduta nell’innatismo, con la conseguente incomprensione della novità introdotta dalla nozione kantiana di trascendentale. Una incomprensione che il Baldinotti condivide con gli altri filosofi italiani di quell’epoca, a cominciare dal padre Soave, e che a Padova si ritrova nel Discorso analitico sulla «Critica della ragion pura» di Kant, una memoria che l’abate Jacopo Bonfadini, docente di Filosofia teoretica e morale dal 1825 sino alla morte (1835), pubblicò nel 1831 sugli Atti della Imperial Regia Accademia di Scienze, Lettere ed Arti.
A questo punto occorre aprire una piccola parentesi. Stando ai nostri ricordi scolastici, gli ultimi due decenni del Settecento e i primi tre dell’Ottocento sono caratterizzati, anzi dominati, dal pensiero di Kant e poi dell’idealismo tedesco con la triade Fichte-Schelling-Hegel. Questo vale però per l’area germanica, giacché in Italia, culturalmente e linguisticamente legata alla Francia, persiste l’eredità del pensiero illuministico, che muovendo da Locke, da Condillac e dagli idéologues (in particolare Destutt de Tracy) e contaminandosi con i pensatori della scuola scozzese (Thomas Reid e Dugald Stewart) diede luogo a diverse modulazioni della «filosofia dell’esperienza». Non v’è quindi da meravigliarsi se nel Veneto del primo Ottocento il pensiero di Kant e di Hegel godette di assai scarsa fortuna. Siamo senza dubbio di fronte a un ritardo storico, ma occorre anche tener presente che la centralità di Kant e del successivo idealismo è stata fortemente accentuata in Italia dalla storiografia filosofica d’ispirazione neoidealistica, e che per altro verso quella che a prima vista appare solo come una sopravvivenza dell’empirismo di matrice lockiana porrà poi le basi, in Francia, per lo sviluppo del positivismo di Auguste Comte.
Prima di Comte si afferma però, sempre in Francia, la filosofia eclettica di Victor Cousin, che tenta di unire insieme le istanze empiristiche e spiritualistiche, la tradizione cartesiana e la filosofia scozzese, nonché la riflessione hegeliana sulla storia. Negli anni trenta l’eclettismo si diffuse a tappeto in Italia, avendo fra i suoi promotori il cremonese Baldassarre Poli (1795-1883), il quale rivendicò anzi una sorta di «primato italico» nella genesi di tale orientamento di pensiero. Noto per i suoi ampi Supplimenti alla traduzione italiana del Grundriss der Geschichte der Philosophie di Wilhelm Tennemann, apparsi a Milano nel 1836, l’anno seguente il Poli fu chiamato all’Università di Padova a insegnare Filosofia teorica e pratica, nonché Storia della filosofia, e ivi rimase fino al 1852, facendo dell’Ateneo patavino un centro di irradiazione nel Veneto della filosofia eclettica grazie anche ai suoi Elementi di filosofia teoretica e morale (Padova 1837, 18442), che presero il posto del vetusto manuale del padre Soave. La venuta del Poli a Padova segnò dunque un salto di qualità, ponendo fra l’altro in primo piano l’insegnamento della Storia della filosofia che, introdotto nel 1822, era stato ricoperto da Antonio Nodari e poi dal già menzionato Jacopo Bonfadini. Non si trattò tuttavia di una svolta radicale, giacché in parecchi studiosi l’eclettismo filosofico faceva tutt’uno con quella «filosofia dell’esperienza» che costituisce una «costante» nei filosofi veneti del primo Ottocento. Ispirandosi a una medietas che è tipica dell’anima veneta, essi coltivano infatti – come ha rilevato Giovanni Santinello – «l’aspirazione a una filosofia dell’esperienza che sia aderente alla realtà, lontana dagli eccessi opposti dell’empirismo angusto e del razionalismo aprioristico e arbitrario».
Per quanto fosse un convinto assertore delle origini remote del cosiddetto «Eccletismo universale italiano», che in competizione con il Cousin viene fatto risalire niente meno che agli antichi Pitagorici e quindi alla mitica filosofia italica, il Poli non tradusse sul piano politico questo suo sentimento di orgoglio nazionale, rimanendo defilato durante i moti del 1848 che videro impegnati anche molti docenti universitari. Egli dovette anzi godere della piena fiducia dei governanti austriaci, dato che ricoprì la carica di rettore nell’anno accademico 1849-50, quando l’università rimase chiusa in seguito ai moti rivoluzionari, e nel 1852 fu nominato direttore generale dei ginnasi veneti, divenendo poi, nel 1857, consigliere scolastico e ispettore generale presso la Luogotenenza di Milano. A partire dal 1852 gli insegnamenti di Filosofia e di Storia della filosofia, cui fu poi aggiunta la Pedagogia, furono assegnati per supplenza all’ormai anziano abate Antonio Rivato (1787-1876), direttore provvisorio del Ginnasio liceale «Santo Stefano» (poi «Tito Livio»), il quale superò indenne la svolta storica del 1866, quando il Veneto, insieme con il Friuli e la provincia di Mantova, entrò a far parte del Regno d’Italia.
Questa sorta di monopolio filosofico dell’abate Rivato, che, divenuto professore ordinario nel 1857, continuò imperterrito a insegnare la filosofia eclettica che aveva illustrato nel periodo 1828-36 in una serie di memorie presentate all’Ateneo di Brescia, cominciò a incrinarsi nel 1867, quando nella Facoltà filosofica l’insegnamento di Filosofia teorica fu assunto da Francesco Bonatelli, che aveva ottenuto il trasferimento dall’Università di Bologna, mentre il Rivato continuò a insegnare Storia della filosofia e Pedagogia. Con la parificazione dell’Ateneo patavino all’ordinamento universitario del Regno d’Italia (1873) il Bonatelli risulta, oltre che ordinario di Filosofia «teorica» (o teoretica), incaricato di Antropologia e Pedagogia, mentre la Storia della filosofia è assegnata per incarico ad Alessandro Paoli, docente liceale, e viene istituito l’insegnamento di Filosofia della storia, affidato, pure per incarico, a Pietro Molinelli, preside del Liceo «Tito Livio». All’ottantenne abate Rivato rimase solo la Filosofia morale, che negli anni precedenti era stata introdotta nella Facoltà giuridico-politica e che ora trova posto fra le discipline della neonata Facoltà di Lettere e Filosofia.
Francesco Bonatelli (1830-1911) era nativo di Iseo in provincia di Brescia e sin da giovane aveva manifestato un forte ardore patriottico, tant’è vero che nel 1848, quand’era studente liceale, riparò per un certo periodo in Svizzera per timore della polizia austriaca e più avanti, nel 1853, fu sospeso temporaneamente dall’insegnamento per motivi politici. Forse per rieducarlo le autorità austriache lo inviarono a studiare a Vienna nell’ottobre 1855, da cui però fece ritorno dopo alcuni mesi per motivi di salute. La pur breve esperienza viennese non fu comunque senza influssi sulla sua formazione filosofica, iniziata all’insegna dello spiritualismo di Antonio Rosmini e di Terenzio Mamiani. A Vienna il giovane Bonatelli ebbe infatti modo di conoscere il pensiero di Johann Friedrich Herbart (1776-1841) e della sua scuola (in cui un ruolo centrale è giocato dalla psicologia speculativa ma anche sperimentale), e del medico e filosofo Rudolph Hermann Lotze (1817-1881), che propugnava una mediazione fra lo spiritualismo teistico e il meccanicismo proprio della scienza moderna, al fine di evitare gli esiti unilaterali sia dell’idealismo postkantiano sia del materialismo filosofico, che aveva il suo portabandiera in Jacob Moleschott (1822-1893).
Cattolico convinto e fervente, il Bonatelli si inserì in questa linea di pensiero, accettando il «meccanesimo» psichico degli herbartiani con le sue rigorose leggi associative, ma rivendicando nel soggetto umano il carattere primitivo e originario della coscienza, che non è deducibile da altro né è riducibile alle semplici combinazioni del materiale psichico. Questa posizione teorica appare già ben definita in Pensiero e conoscenza, che risale all’insegnamento bolognese (1864) e poi nel volume La coscienza e il meccanesimo interiore (Padova 1872), composto nei primi anni dell’insegnamento patavino. Massimo Ferrari ha osservato come in queste due opere, contrassegnate da «una sottile analisi fenomenologica, condotta con indubbia maestria», e dalla diffidenza verso le «sistemazioni esaustive», emerga con chiarezza un dualismo di fondo (coscienza-meccanismo, conoscenza-sensazione, ideale-reale) che è riconducibile a un «sostanziale residuo platonico» ed è finalizzato alla salvaguardia dei valori spirituali e religiosi.
La venuta a Padova del giovane Bonatelli comportò dunque un salto di qualità nell’insegnamento filosofico, che subì un repentino quanto opportuno aggiornamento dopo un periodo di asfittica ibernazione. Un cambiamento certo profondo, che segnava fra l’altro l’irruzione di quella filosofia tedesca ch’era stata a lungo osteggiata, ma tuttavia non radicale e che mantiene una certa continuità di fondo, giacché il Bonatelli, pur non essendo un ecclesiastico come il Rivato, era assai sensibile alla dimensione religiosa. La posizione del nuovo docente è bene espressa nella prolusione ch’egli pronunciò all’esordio del suo insegnamento patavino, che si protrasse sino alla morte (1911). Entrando subito in medias res, il Bonatelli pone in risalto il mutato clima culturale rispetto agli ardori e alle titaniche aspirazioni dell’età romantica, che ormai appartiene al passato, e mostra di condividere senza esitazioni il metodo positivo:
Il tempo delle epopee, come è passato forse irrevocabilmente per la poesia, così è trascorso non meno per la scienza. Alle splendide e geniali creazioni dell’individuo, che da un frammento della realtà osava divinare la forma e l’organamento del tutto, è succeduto o deve succedere il lavoro paziente dei molti, che accumulando e ordinando i materiali, cercando faticosamente gli adattamenti e le connessioni reciproche di questi, lasciando aperte quelle lacune che non si potrebbero riempire se non con elementi forniti dalla fantasia fino a che l’avanzare delle indagini riveli nuovi elementi e nuovi nessi, ricostruendo insomma e non costruendo, vuol fare della scienza quello che è sua prossima e diretta destinazione cioè a dire l’immagine dell’essere riflessa entro lo spirito umano (Francesco Bonatelli, La psicologia nel sistema della scienza, Tip. di Giovanni Borgarelli, Torino 1868, p. 4).
A questo cambiamento irreversibile deve adeguarsi anche la filosofia, che non è più la regina delle scienze e non può limitare il suo campo d’indagine alle pure «verità di ragione» ovvero ai «principii assoluti a priori», in sé astratti se disgiunti dal «materiale empirico». D’altro canto i «prodotti psichici» che derivano dall’esperienza debbono essere sottoposti alle «norme assolute della ragione», altrimenti non si va oltre la «sfera dell’esperienza belluina». Ne consegue che, sebbene il campo delle discipline sperimentali resti distinto da quelle filosofiche, fra queste ultime un ruolo centrale (e non solo propedeutico, com’era nella tradizione) viene assunto dalla logica e dalla psicologia, in quanto occupano una posizione mediana fra l’empirico e il razionale, ossia tra i fatti e le norme (ibid., pp. 5-7). I «fatti psichici» non sono come tutti gli altri fatti e la psicologia è chiamata ad andare oltre la semplice esperienza, sino a «render ragione dell’esperienza medesima», il che significa innalzarsi necessariamente a un piano metafisico. All’obiezione che tutte le scienze, se non vogliono ridursi a una pura descrizione, vanno oltre i dati sperimentali senza per questo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Presentazione. di Rosario Rizzuto e Annalisa Oboe
  6. L’«Università della ragione spregiudicata, della Libertà e del Patriottismo». di Vincenzo Milanesi
  7. Parte prima. Dai primi secoli alla modernità
  8. Parte seconda. Da Galileo all’età del Romanticismo
  9. Parte terza. L’Ottocento e il Novecento
  10. Bibliografia ragionata
  11. Elenco delle illustrazioni
  12. Gli autori