Gli anni '50, il dopoguerra e la nonna materna
“Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni affogano,
altri lottano strenuamente per risalirvi sopra.
Gli antichi connotavano il gesto di tentare di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo “resalio”.
Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua
a lottare contro le avversità, la resilienza, deriva da qui”.
(Pietro Trabucchi, psicologo)
Negli anni ‘50 i miei genitori, i nonni materni e io abitavamo tutti insieme e ricordo la vita in famiglia a volte un po’ tesa in quanto mia nonna e mio papà erano caratteri ambedue dominanti e a volte si creava tra di loro qualche screzio.
A Natale grande festa e recita della poesia al nonno Ezio (il secondo marito di Maria) che mi ricompensava con alcune monetine e io ne ero felicissima.
Il Natale era veramente la festa importante dell’anno non soltanto dal punto di vista religioso ma era la celebrazione degli affetti familiari nel senso più vero, profondo e completo.
Ricordo la letterina a Gesù Bambino che scrivevo ai genitori e ai nonni: già la scelta era eccitante, tutta scintillante con polverina dorata; ero emozionata soltanto a toccarla.
Poi la notte del 24 dicembre arrivava il regalo: sinceramente mi sono sempre considerata una bambina fortunata in quanto ricevevo bellissimi regali, semplici come nell’uso di allora, ma che mi rendevano felice: ricordo tra gli altri un modesto pianoforte da tavolo (da bambini) con cui suonavo allegre canzoncine, il Lego, la Bilancia, il Meccano, il Monopoli, il piccolo Prestigiatore, il Musichiere, la Dama, la Tela e anche il semplice Gioco dell’Oca. E ogni anno chiedevo a Babbo Natale sempre un nuovo gioco. Questo continuò per parecchi anni: ero già abbastanza grande ma facevo intendere di credere ancora a questa tradizione e sbirciavo, senza farmene accorgere, mia mamma che la mattina del giorno di Natale si alzava presto per mettere il regalo sotto l’albero. Era una finzione gratificante per me che mi consentiva di rimanere bambina. Infatti non volevo crescere, la mia condizione di bambina mi piaceva: ero figlia unica gelosissima e possessiva nei confronti dei miei genitori ed ero viziata e sempre accondiscesa in ogni mio desiderio.
Anche i compleanni di allora sono un gradevolissimo ricordo: una bella torta, il fotografo per la foto di famiglia, le candeline e i regali. Porto ancora scolpito nella memoria il pallottoliere regalatomi dallo zio Luigi e dalla zia Rosa (gli zii di Sampierdarena) e la crostata della cugina Umbertina (la figlia) con le ciliegine candite ricoperte di zucchero, che mi portavano ogni anno insieme con le candeline rosa che era per me un immenso piacere spegnere con loro. Lo zio Luigi di Sampierdarena, un personaggio della vecchia tradizione genovese, ci faceva ascoltare il registratore a bobina “Geloso” con pezzi precedentemente registrati o con pezzi che registrava al momento.
Io ero molto affezionata allo zio Luigi (il fratellastro di mia mamma) perché oltre a essere una brava e onesta persona era un eclettico: suonava con grande passione il mandolino, registrava la musica e le voci delle persone, aggiustava vecchie cianfrusaglie e creava nuovi oggetti con una grande inventiva, allevava colombi viaggiatori che inviava lontano con messaggi ad altri appassionati, coltivava erbe sulla sua terrazza, e poi amava gli animali in modo profondo.
I suoi beniamini erano i cani in particolare i cockers spaniel e ne possedeva alcuni (tinta miele e neri): uno di questi di colore nero (la Lilla) lo seguiva sempre sull’auto quando andava al lavoro (lui era postino) e faceva la consegna della posta con l’auto. Gli era concesso dall’Amministrazione di tenere Lilla con sé e, nel quartiere di Sampierdarena, tutti lo ammiravano e stimavano.
Io nutrivo per lui molta considerazione anche perché accudiva affettuosamente la moglie Rosa rimasta paraplegica dopo il parto della figlia Umbertina con tutte le problematiche che ne conseguirono per una vita intera.
Luigi però non perse mai il suo buonumore e parlare con lui trasmetteva sempre un gran senso di serenità.
Anche da grande andavo spesso e volentieri a trovarlo perché mi rallegrava stare con lui.
Dopo l’asilo che non amai particolarmente frequentare dalle suore del Convento di Sant’Agata, fui molto contenta di andare alla Scuola Elementare Giuseppe Carbone: amavo lo studio e familiarizzai subito con le mie compagne di classe (allora le classi erano rigorosamente separate). La mattina partivo accompagnata dalla mamma che, viziandomi, portava la mia cartella piena di libri. Io indossavo il mio “montgomery” rosso con un bel cappuccio foderato di tessuto che oggi si direbbe “animalier” e di cui ero orgogliosa. Mi donava perché modestamente avevo un bel figurino.
Nell’abbigliamento preferivo i colori accesi, spalleggiata dalla mamma al contrario di papà che suggeriva sempre capi color cammello, specialmente il classico cappotto invernale: molto elegante e senz’altro meno appariscente.
Io amavo, come mi capita ancora adesso, indossare qualche capo più originale non portato da altre bambine. Il mio individualismo emergeva anche in questo caso.
Era ancora l’epoca in cui ci si recava dal sarto o dalla sarta a farsi confezionare gli abiti su misura.
Il mestiere del sarto era un’attività assai antica a carattere artigianale, basata sulla manualità. Di fatto il sarto era un “professionista” dotato di grande sensibilità e gusto, in grado di realizzare un abito in tutti i suoi passaggi: dal modello al taglio della stoffa, dalle misurazioni e correzioni, alla cucitura, alla rifinitura e alla stiratura.
Ricordo poi la macchina per cucire che funzionava, prima a pedale e successivamente con il motorino elettrico; i gessi per segnare le linee del taglio, le squadre, la riga, il centimetro, la rastrelliera con i rocchetti di filo per cucire, gli spilli, il manichino sartoriale a busto, gli appendiabiti.
Tutte cose veramente di altri tempi che ricordo chiaramente e con un po’ di nostalgia.
Mio padre si recava dal sarto per uomo che gli confezionava gli abiti e il cappotto – il cappotto perché di questo capo se ne facevano uno o due nel corso della vita, con stoffa molto buona e duratura nel tempo oltre che molto calda di pura lana; allora le marche note erano Zegna, Cerruti, Marzotto.
A questo proposito si racconta che Giovanni Gronchi si faceva addirittura rivoltare il cappotto. Io stessa ricordo che, quando le stoffe erano molto buone e durature, il sarto o la sarta consigliavano di rivoltare l’abito: erano veramente tempi che adesso sembrano così lontani!
Mia mamma e io avevamo la nostra sarta per signora che egualmente confezionava abiti su misura con stoffe che sceglievamo in un negozio di tessuti in Via Galata nella zona del Mercato Orientale, negozio che vendeva solamente stoffe per sartorie.
Io indossavo con particolare gioia gli abitini estivi colorati in tessuti come piquet arricchito con pizzo svizzero di San Gallo che la sarta mi cuciva, molto originali con gonne svasate, sottovesti svolazzanti, ruches, balze e jabot. I tessuti con pois bianchi e neri erano i miei preferiti.
Credo che con l’avvento delle confezioni su misura si sia un po’ persa la magia della creatività e dell’attesa di vedere il vestito terminato. Certo la possibilità di scegliere è aumentata, ma l’eccitazione che si provava davanti all’abito appena terminato non è più la stessa.
Scomparve in seguito, almeno per le classi medie, l’uso del vestito “buono” di sartoria, destinato a durare nel tempo e a essere utilizzato in tutte le “grandi” occasioni.
Una delle occasioni in cui indossai uno degli abiti confezionati dalla sarta fu la visita alla nave Augustus in rada a Genova . La motonave Augustus fu un transatlantico costruito, analogamente alla nave gemella Giulio Cesare, con caratteristiche tecniche moderne in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Questa nave passeggeri fu tra i primi transatlantici post-bellici italiani e rappresentò con la Giulio Cesare la rinascita della Marina Mercantile Italiana dopo le distruzioni della guerra a causa delle quali oltre il 90% della flotta italiana andò perduta.
La motonave fu adibita a viaggi passeggeri principalmente per gli Stati Uniti e il Sud America.
La visita fu per me un’esperienza unica. Andai con la mamma e la zia Maria di Roma (sorella del nonno Ezio) che venne a Genova proprio per quell’occasione perché, essendo nativa della nostra ...