Tornare al centro
eBook - ePub

Tornare al centro

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Tornare al centro

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Dopo il best-seller "Una fede in due - La mia vita con Vittorio", Rosanna Brichetti Messori narra la sua avventura di credente che si è svolta tra due poli entrambi importanti. Tra la cristianità plasmata dal Concilio di Trento, nella quale si è formata, ha vissuto i suoi primi vent'anni e che ora si sta sgretolando, e la cristianità che, tra non poche difficoltà, si sta faticosamente delineando a partire dal Concilio Vaticano II. Un trapasso lungo, spesso doloroso che si sta tuttora compiendo sullo sfondo di una modernità che, proponendo valori e stili di vita opposti a quelli cristiani, sta inducendo, anche in molti credenti, una crisi morale e di fede forse senza precedenti. Coinvolta in queste vicissitudini ecclesiali, di cui ha conosciuto insieme con gli aspetti positivi i rischi e i pericoli, l'Autrice condivide non solo gli eventi che negli anni l'hanno riguardata personalmente, ma anche le riflessioni più generali che tali eventi le hanno suggerito. Per concludere nella speranza che la crisi attuale si trasformi in occasione per la rinascita interiore di ogni credente, affinché la fede di ciascuno e dell'intera Chiesa, passata al vaglio del travaglio in corso, sappia ritrovare pace e unità attorno al suo centro – Gesù Cristo – riscoprendo così quella profondità, quello slancio umile ma vigoroso che renda nuovamente il cristianesimo «Luce per illuminare le genti» (Lc 2, 32).

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Tornare al centro di Rosanna Brichetti Messori in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Teología y religión e Religión. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Ares
Anno
2021
ISBN
9788892981003

1. Quando credere era quasi scontato

Il mio racconto inizia da lontano, dalla mia prima infanzia e giovinezza. Se ripenso a quel tempo, cioè ai miei primi vent’anni, e rinnovo i ricordi che riguardano la fede, mi ritrovo dentro il cuore due sentimenti apparentemente contrastanti tra loro. Il primo riguarda il fatto che tutti venivamo al mondo e crescevamo dentro la fede spontaneamente, quasi per obbligo. Quella cristiana, infatti, era la cultura non solo dominante, ma addirittura l’unica esistente, almeno nella nostra Italia e in particolare nella provincia «bianca» in cui vivevo. Quando nascevi eri certo di essere battezzato e poi di accedere all’istruzione religiosa necessaria – il famoso catechismo, insegnato non solo con serietà ma anche con una certa severità – per ricevere i sacramenti della Penitenza, della Eucaristia e della Cresima. Così come eri certo che, se ti fossi sposato, sarebbe stato in Chiesa e che, alla fine della vita, a meno che tu non fossi stato un suicida, saresti stato accompagnato al camposanto da un funerale religioso.
Ti aspettava, dunque, una vita fortemente «inquadrata», nella quale venivi incanalato con tappe previste e sicure. Alle quali non pensavi neanche di doverti o di poterti sottrarre.
Capisco che con la sensibilità di oggi, tutto ciò possa sembrare una sorta di opprimente costrizione. Una specie di grande gabbia entro la quale la libertà individuale, le scelte singole, rischiavano di uscirne sacrificate, quando non del tutto soffocate. Eppure, se vengo al secondo sentimento che emerge dalla mia memoria, non rivivo una sensazione di questo tipo. Ricordo piuttosto una sorta di fede diffusa che compenetrava la vita e, di conseguenza, una visione del mondo sacrale che si estendeva a tutti gli aspetti dell’esistenza. Voglio dire che allora appariva naturale, cioè un dato scontato, il fatto che Dio esistesse e che ogni uomo fosse una sua creatura. E che dunque apparisse normale e giusto che fosse la sua legge – quel Decalogo, completato dal Vangelo, fatto proprio dalla Tradizione della Chiesa – a guidarla, dal momento che in questa prospettiva ogni vita assumeva un valore soprannaturale, inviolabile, eterno. Da tutto ciò non poteva non derivare anche un diffuso atteggiamento di fiducia e di abbandono alla Provvidenza – proprio così, con la maiuscola – intendendo alludere a quel Dio che, avendo creato il mondo e l’uomo per amore, avendo inviato il suo Verbo a riscattarlo dopo la caduta, non poteva guardare, se non con benevolenza, alle sue creature, accompagnandone attivamente il cammino.
Tutto questo si faceva evidente in molti modi. Certamente nella pratica religiosa che era altissima e che, se probabilmente in una parte di coloro che si recavano in chiesa era consuetudine, rispetto formale, forse anche praticamente un obbligo richiesto dal contesto sociale, in altri era sincero atteggiamento del cuore. In ogni caso, i confessionali erano assai frequentati, anche perché era ben chiaro il principio che ci si accostava all’Eucaristia – digiuni dalla sera precedente – solo se non si erano commesse colpe gravi e che, comunque, era bene lavarsi ogni tanto la coscienza anche da quelle più lievi. Certamente la Messa, soprattutto domenicale, era la funzione più importante. Ma un posto rilevante aveva anche l’Adorazione eucaristica, mentre nel corso dell’anno erano numerose le novene legate a feste particolari, anche perché ogni paese aveva il suo santo protettore, di cui celebrava anche civilmente la festa con una sagra, nell’anniversario della nascita al Cielo.
Il mese di maggio, poi, era interamente dedicato alla devozione a Maria, sempre tuttavia presente anche nel resto dell’anno. Questo perché la rete fittissima di santuari e di templi a lei dedicati, quasi sempre collegati a eventi straordinari come apparizioni o guarigioni miracolose, ne permetteva il ricordo continuo. Giugno, invece era dedicato al Sacro Cuore di Gesù.
Altra consuetudine comune era quella di far battezzare i bambini il più presto possibile. Con semplicità: una festicciola in famiglia con qualche torta fatta in casa e del buon vino. Si voleva farli entrare con sollecitudine nella Chiesa, Corpo Mistico di Cristo.
Pure alla malattia e alla morte si guardava con un occhio che definirei «paziente» poiché si accettava certamente assai più di ora – anche perché minori erano le possibilità di cura e di guarigione – che questi eventi facessero parte di una vita che si credeva fermamente continuare altrove. Ricordo come il linguaggio comune fosse intriso di espressioni impregnate di fede: «Bisogna rassegnarsi, ciascuno in questa vita ha la sua croce»; oppure: «Se ciascuno andasse in piazza con la sua croce alla fine, confrontandosi, non la cambierebbe con quella degli altri». Così, salvo casi particolari, era consuetudine chiamare il sacerdote quando si aveva in casa un malato grave e, alla fine, provvedere che avesse il «viatico», cioè Gesù che, sotto la specie eucaristica, lo avrebbe accompagnato nell’ultimo tratto di strada fino alla morte. Curando al contempo che gli fosse somministrata quella che allora era chiamata «estrema unzione».
Se poi scendo nei ricordi personali, in alcuni flash ritrovo quell’atmosfera sacra di cui ho parlato e all’interno della quale, pur con tutti i limiti che la caratterizzavano, potevi fare esperienze di Dio che non ho mai dimenticate.
Come quando, ancora a Malè, nelle montagne trentine, dove sfollammo per il periodo della guerra, a fine conflitto l’intera comunità si tassò per comprare una statua della Madonna di Lourdes. Volevano farle una nicchia in legno entro la quale collocarla, per poi fissarla su di un grosso albero tra la fine del borgo e l’inizio del bosco. Era un segno di ringraziamento per i reduci ritornati, un conforto per i genitori di quelli caduti, un’espressione di gratitudine perché il paese, che si credeva sicuro, aveva rischiato, proprio negli ultimi mesi di guerra, di essere raso al suolo dagli americani che inseguivano i tedeschi in ritirata. L’aveva salvato una nevicata di dimensioni assolutamente inconsuete per quella fine maggio in cui era avvenuta, che aveva impedito agli aerei di alzarsi in volo. Ebbene, non potrò mai dimenticare l’intensità di quella cerimonia, la lunga fila di gente – praticamente tutti gli abitanti – che dai piedi del monte giungeva fino alla piazza del paese, che recitò in raccoglimento il Rosario, che cantò a voce spiegata i canti mariani che risuonavano nella valle e che, infine, si inginocchiò là dove si trovava, sulla terra o sui sassi, per ricevere la benedizione. Molti piangevano e io, piccola e inconscia, con loro. Ora che so di più, capisco che là, in quel momento, c’era con ciascuno di noi una presenza che confortava e riscaldava, e che il cuore coglieva e accoglieva.
O come quell’altra volta in cui, eravamo già rientrati a Treviglio e io frequentavo le medie presso un collegio di suore. Avevo dovuto seguire un po’ di malavoglia il corso annuale – non formalmente ma di fatto obbligatorio – di esercizi spirituali. Tre giorni, dopo i quali ci ritrovammo tutte – alunne esterne e interne, più di quattrocento ragazze – nel grandissimo salone, trasformato per l’occasione in chiesa, per il rito finale di chiusura. Rammento come, un po’ annoiata, attendessi con impazienza che tutto finisse per ritornarmene a casa quando, per l’esposizione del Santissimo Sacramento, venne intonato, naturalmente in latino, l’Adoro te devote, il famoso inno eucaristico scritto da san Tommaso d’Aquino. Ci inginocchiammo e io, per qualche istante, all’improvviso dimenticai tutto e, come rapita, anche questa volta avvertii una sorta di presenza che mi rese immensamente felice, facendomi battere il cuore all’impazzata.
Anche nella mia famiglia, nonostante i suoi limiti, Dio non era assente. I miei non erano particolarmente zelanti, però frequentavano regolarmente la Messa domenicale. E mio padre, come prescrivevano i cosiddetti «precetti della Chiesa», si confessava e si comunicava «almeno a Pasqua».
Si riproponeva immancabilmente una sorta di avventura alquanto enfatizzata, di cui si cominciava a parlare qualche giorno prima. Un che di straordinario e importante al quale spesso, da piccola, cercavo anch’io di partecipare. La meta era sempre il santuario di Caravaggio, distante pochi chilometri da Treviglio, e poiché mio padre non guidava, si andava con un impiegato della nostra azienda di legnami, l’unico che avesse la patente. I due uomini si mettevano in coda davanti a uno dei tanti confessionali, un po’imbarazzati – a dire il vero – per un gesto che di certo non era loro abituale, ma seri e raccolti fino al loro turno. Una volta finito il rito si recavano a un altare dove, periodicamente nel tempo pasquale, un sacerdote distribuiva l’Eucaristia.
Io guardavo tutto da lontano e aspettavo tranquilla perché sapevo che presto saremmo usciti e avremmo fatto colazione in un bar vicino. Questa colazione fuori casa era allora un evento insolito e io ne approfittavo per farmi comprare un buonissimo panino con il salame (alimento vietato da mia madre, un po’ salutista). In genere, poi, in una delle bancarelle sempre presenti sul viale del santuario, ci scappava anche un qualche giocattolo, una girandola colorata o una bambolina. E benché i miei fossero di solito piuttosto severi, in quelle occasioni riuscivo sempre a ottenere un dono, perché papà era stranamente disponibile.
Mi rendo conto come tutto ciò non fosse il massimo sul piano religioso, ma era comunque un’e­spres­sione di fede. Il riconoscimento che esisteva Qualcuno al di sopra di noi a cui ogni tanto occorreva rendere conto di come ci si comportava nella vita. E che c’era una Chiesa che se ne faceva tramite.
La mamma, invece, esprimeva la sua religiosità soprattutto nella devozione ai santi. Anzitutto a Rita da Cascia, la santa degli impossibili, della quale io portavo, come terzo, anche il nome – Rosanna, Candida, Rita appunto – a cui attribuiva l’esito felice della mia nascita prematura e molto travagliata. Poi a padre Pio, allora ancora vivente, di cui in cucina aveva appesa la fotografia e al quale affidava in particolare mio fratello. Sosteneva di averne inteso, in alcune occasioni, il famoso profumo che accompagnava il suo intervento prezioso. Infine, san Gaspare del Bufalo, praticamente sconosciuto in settentrione, che lei aveva incontrato tramite un giornalino inviato, per chiedere offerte, dalla congregazione da lui fondata. Li nominava spesso, lei un po’ sola, quei tre amici che certamente l’avevano aiutata anche ad affrontare per ben due volte un tumore al seno, la prima quando aveva solo quarantadue anni.
Non posso poi dimenticare quando radunava me, mio fratello e altri presenti per recitare la supplica alla Madonna di Pompei, della quale era molto devota. Ci inginocchiavamo raccolti attorno alla grande radio di legno che la trasmetteva. La cosa si è ripetuta così tante volte che la supplica, alla fine, l’ho imparata a memoria e pur con qualche lacuna me la ricordo ancora.
Così anch’io crescevo in una atmosfera che, se non era l’ottimo, tuttavia era intrisa di soprannaturale, apprendendo a poco a poco che la vita ha qualcosa che la trascende e non si esaurisce nello scorrere della routine quotidiana.
Tanto più che i miei erano brave persone, serie, oneste come allora «usava». Ci si sposava per la vita, con la consapevolezza che si trattava di un vincolo indissolubile perché sacro, dando origine a una famiglia con legami forti in cui era scontato, non solo l’affetto reciproco, ma anche il dovere di un aiuto sia verso i genitori, sia dei fratelli tra loro. La famiglia era un gruppo solidale che affrontava compatta gioie e dolori.
Io stessa, da ragazza, ho condiviso questo tipo di attese che trovavo simili nelle mie coetanee: sposarsi significava fare una scelta una volta per tutte, in un impegno totale e radicale dal quale ti aspettavi una risposta altrettanto seria. Credevo nell’amore, ma realisticamente sapevo che avrei dovuto affrontare anche dei sacrifici, qualche momento difficile. Tuttavia contavo su una continuità affettiva che mi avrebbe appagata fino alla fine.
Vivevo in un ambiente che non demonizzava il lavoro femminile extra domestico benché, consapevole dell’importanza della donna nella vita familiare, pensavo di viverlo dividendomi con equilibrio con gli impegni casalinghi. Questa prospettiva di matrimonio unico e indissolubile non solo non mi incuteva paura, anzi era tranquillizzante, unificante. Intravvedevo impegno, serietà, anche una certa dose di prevedibile sofferenza, ma attendevo da tutto questo risultati positivi, in un’esistenza ricca di senso.
Pertanto, se oggi si parla, anche e soprattutto con riferimento alla dimensione affettiva, di rapporti liquidi, cangianti, mutevoli, instabili, direi che con riferimento al tempo di cui sto narrando, si potesse parlare proprio dell’esatto contrario e cioè di rapporti stabili, solidi, duraturi. Naturalmente neanche allora era un idillio continuo; tradimenti, adulteri e altre cose di questo tipo non mancavano certo. Tuttavia – poiché si trattava anche di reati per i quali, se colti sul fatto, ci si poteva ritrovare con una denuncia penale – lo spirito di famiglia finiva, normalmente, per prevalere.
Questa visione del mondo influiva naturalmente anche in molti altri aspetti della vita. Certamente non tutti erano dei santi, tribunali e patrie galere lavoravano parecchio anche allora. Eppure, c’era qualcosa che penetrava la coscienza – certamente dei credenti ma, credo, anche dei tiepidi o addirittura dei non credenti – e dava origine a modi di vivere che, anche se in modo non sempre esplicito, facevano riferimento a valori che erano diventati in un certo senso comuni. «Non possiamo non dirci cristiani», aveva scritto al proposito il pur agnostico Benedetto Croce. Come dire: il cristianesimo si è fatto non solo legge interiore, ma civiltà, legge di vita – e anche, aggiungiamo, per molti aspetti legge dello Stato – penetrando a tal punto la storia e la cultura da influenzare tutto e tutti.
Mio marito Vittorio, mio coetaneo, avendo avuto come professori nell’Università di Torino alcuni grandi e famosi laicisti come Norberto Bobbio, Galante Garrone, Luigi Firpo, ha lo stesso ricordo, cioè quello di gente che viveva «come se Dio esistesse». A differenza di oggi in cui, per riportare un’espressione cara a Benedetto XVI, persino alcuni credenti, oltre alla società in generale, vivono «come se Dio non esistesse».
Anche coloro che si rifacevano alla ideologia marxista, che in Italia riprese vigore al termine della Seconda guerra mondiale dopo il crollo del fascismo, quei «comunisti» che prosperavano soprattutto in alcune regioni del Centro, pur proclamandosi atei, erano assai rigorosi, quasi osservanti cattolici sulle questioni morali. Si spiegano così il disagio profondo e la vergogna che provocò tra gli adepti la separazione di Palmiro Togliatti, il loro capo, dalla prima moglie, Teresa Noce, per unirsi alla compagna Nilde Iotti.
Tutto bene, dunque? Apparentemente, sì, almeno nelle linee generali. Ma come ogni tentativo di costruire il Regno di Dio in terra, anche questa «forma di cristianità» aveva i suoi limiti, le sue debolezze che si sarebbero presto evidenziate. L’unanimità di pensiero, che aveva trasformato il Vangelo in valori condivisi e in gran parte rispettati anche dallo Stato e dalle sue leggi, aveva certamente plasmato la società ordinandola alla fede e al bene. Tuttavia, si prefiguravano alcuni rischi. Anzitutto una certa intolleranza verso i non allineati, i quali, dalle élites alla gente comune, finirono sempre più numerosi a rifugiarsi nelle ideologie di matrice illuminista e marxista e a chiedere, di conseguenza, uno spazio sempre maggiore in seno alla società. Soprattutto il rischio che la fede perdesse quella freschezza, quella profondità e forza che le derivano dall’essere frutto di un incontro libero e consapevole con il divino. Con il pericolo che la fede stessa si trasformasse in un formalismo o, peggio ancora, in un moralismo per soddisfare il quale era sufficiente il rispetto esteriore di certe regole.
Ho lasciato intendere che ci possano essere diverse «forme di cristianità». Forse giova chiarire questo concetto. È bene ricordare che la Chiesa è chiamata a interagire con il mondo – è il suo scopo, la sua missione – in ogni epoca storica, mantenendo disponibile e vivo il messaggio evangelico p...

Indice dei contenuti

  1. L'autore
  2. Prologo
  3. 1. Quando credere era quasi scontato
  4. 2. Un risveglio del cuore
  5. 3. Il rischio di perdere di nuovo la strada
  6. 4. Le radici storiche dei problemi di oggi
  7. 5. Un Modernismo nei fatti?
  8. 6. Se si rompe l’equilibrio tra fede e morale
  9. 7. Quando il «Credo» diventa esperienza interiore
  10. 8. Piaghe ancora aperte
  11. 9. Signori della fede?
  12. 10. Speriamo, preghiamo e offriamo
  13. Epilogo
  14. Indice