Siamo noi a far ricca la terra
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Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi

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Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi

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Nato a Bologna nel 1950, morto nel 2018 a sessantotto anni, poco dopo l'uscita del suo ultimo, bellissimo disco, Il grande freddo, premiato con la Targa Tenco come miglior album dell'anno, Claudio Lolli è una delle personalità più complesse e poliedriche della scena musicale e culturale italiana degli ultimi cinquant'anni. Poeta, compositore, narratore, professore di lettere; personalità schiva e riservata quanto generosa; faro – suo malgrado – della scena bolognese intorno al '77, ha saputo coniugare cantautorato e sperimentazione musicale, poesia pura e ricerca di forme inedite.Marco Rovelli, forte di una lunga amicizia con Lolli e di uno spiccato talento letterario, ha deciso di raccontare l'amico e l'artista dando voce alle mille vite che ha incrociato e sulle quali ha lasciato un segno profondo, ma anche alle sue canzoni, a una serie di fotografie, chissà se vere o immaginarie, alle sue chitarre. Un coro di voci umane e di oggetti parlanti dalla quale emerge il ritratto di un uomo dolce e schivo, feroce e pacato, alieno ai facili conformismi come dai ribellismi d'accatto, e il ritratto di un'intera generazione, dei suoi sogni e delle sue sconfitte. Una generazione che nessuno meglio di Lolli – da «Borghesia» a «Ho visto anche degli zingari felici», da «Notte americana» a «Nessun uomo è un uomo qualunque» – ha saputo raccontare, con affetto e senza inutili celebrazioni.

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Informazioni

PARTE QUARTA
ANCORA IN VIAGGIO

Paolo Capodacqua

Un giorno del ’92 lo chiamo e gli dico: Claudio, ti va di venire a Fermo per una rassegna che organizza il mio amico Angelo Ferracuti? Vorrebbe che tu parlassi dei tuoi libri, e poi facessi un concerto insieme a me. Mi dice che no, non se la sente di fare un concerto, non ne fa da anni ormai. Ma io mica mi fermo lì. Ma guarda, giusto qualche canzone mia, qualche canzone tua, ti accompagno io con la chitarra, un programma di un’oretta al massimo, una cosa intima, in un teatro. Sì, dice, figurati, lo sai che ti voglio bene, mi piacerebbe suonare con te, ma... Ancora no, non si convince. Quando gli dico che il cachet proposto è assai invitante, e per quel pochissimo impegno, be’, allora cede. Così preparo i suoi pezzi classici, ma anche la poesia di Pavese, e porto armonica e fisarmonica.
Il concerto è il 24 novembre, la stessa data in cui, nel ’78, io adolescente gli ho aperto il concerto mattutino nel tendone del circo. Viene proprio da pensarlo come un segno. Nel pomeriggio del concerto proviamo i pezzi, poi gli faccio sentire un pezzo mio, «Come Fred Astaire»: Bello, dice, è una canzone che sarebbe piaciuto scrivere a me. E poi mi dà dei suoi testi e mi chiede se mi va di musicarli. Uno di quelli, «Io ti faccio del male», lo leggo e sento subito un’armonia, provo il la minore settima, vado sul mi maggiore, e lui mi dice, Bello, sì, vai avanti. E così metto nella borsa quei tre testi: «Canzone di bassa lega», «Come ho fatto a stare senza te» e appunto «Io ti faccio del male».
Alla sera il teatro Helios è pieno, Lolli in scena dopo tanti anni, c’è gente venuta da diverse città, è un evento. Lui si sente stranamente leggero e la nostra amicizia lo contiene, smussa gli spigoli, le asperità, si sente a suo agio come su una poltrona rossa, come davanti a un bicchiere. Dopo che l’ho accompagnato con la fisarmonica si avvicina e mi dà una monetina, come la si dà a un musicista di strada, la gente ride. Porta sul palco l’intimità scherzosa della nostra amicizia, e questo gli apre un mondo nuovo. Un mondo fatto di ironia e leggerezza, dove le canzoni sono circondate da un’atmosfera giocosa, come di un’amicizia corale tra lui, me e il suo pubblico.
E così partiamo. Il secondo concerto lo facciamo a Torino, invitati da Sergio Martin al teatro Juvarra, con Fausto Amodei. Mentre andiamo in treno, lui ascolta nel walkman la cassetta che gli ho portato con i suoi testi musicati, sorride, è entusiasta. Arriviamo, è tutto esaurito, e lui si prova ancora in scena in quella veste nuova, a scherzare sul cantautore triste, a far battute. Andiamo a dormire, nel letto matrimoniale a casa di Sergio, lui continua ad ascoltare la cassetta nel walkman, e io non dormo.
E poi il terzo concerto a Roma, all’Alpheus, organizzato da Cesaroni, ovvero dal Folkstudio. Claudio arriva da me ad Avezzano due giorni prima del concerto, e quella è stata forse l’unica prova seria fatta nella nostra tournée infinita: le nostre due chitarre insieme, e qualche volta solo la mia. E ancora, sul palco, battute su se stesso, sul mondo, su di me, mi presenta come «laureato al conservatorio di Cocullo». Quando, al ritorno da Roma, ci lasciamo ad Avezzano, continua a scherzare e con l’accento di Clouseau mi dice «mon amì, chissà quand ci rivedrem». Quel tormentone di Clouseau è sempre rimasto tra noi, che invece poi non ci siamo mai lasciati: le date cominciano ad arrivare a pioggia, dal Trentino alle isole, situazioni militanti e circoli, feste dell’Unità e di Liberazione, rassegne e festival, teatri, locali... è un continuo, un neverending tour.

La fotografia sportiva, 13

La foto è dal basso, c’è un pezzo di palco, è un palco non molto grande, due luci piazzate, Claudio sta cantando e legge dal suo quaderno, Paolo suona e lo guarda, sembrano una compagnia di giro, povera ma molto amata, sono a suonare in un piccolo posto di provincia, nell’ombra della comunicazione mediatica, ma circondati da una comunità di amici.
Paolo suona seguendo Claudio, sulle sue corde vocali fa scivolare quelle della chitarra. Il cantato di Claudio trapassa talvolta nel recitar cantando, una parola perde la sua metrica, conosce un nuovo ritmo e un nuovo senso, e al suo centro si crea un vuoto in cui sprofondare, un interstizio bianco e accecante. In questo vuoto entra il suono, un suono liquido che allarga le parole, le dilata, le restringe, crea varchi al non detto.
In questa comunità di amici, è sul palco stesso che si mette in scena l’amicizia. E, insieme, la casualità del quotidiano. Fin da quando si entra in scena, come di passaggio, appoggiando la bottiglia col vino per terra, gli occhiali sul tavolo, senza alcuna ritualità, la camicia fuori dai pantaloni. E poi parlare, come tra amici. Claudio parla, e tanto. Sono passati i tempi in cui entrava in scena e oltre alle canzoni a volte non c’era nemmeno una parola di saluto.
Si fa, si va. È il viaggio, senza un inizio, senza un percorso preordinato, senza una meta. Che nondimeno ha dei copioni, s’intende: per fortuna e purtroppo. Gesti che si ripetono, battute ricorrenti, scambi e giochi di sguardi, intese e sottintesi, scalette che fanno da palinsesto. Ma poi tutto questo viene e va, all’improvviso. Dipende dalla marea. Si inizia di lì, stasera. Ma poi si comincia a parlare, come attorno a un tavolo (ancora: il tavolo sulla scena è sempre una rappresentazione, e Lolli ne è consapevole come lo era Buñuel); così ci si rappresenta svagati, per poi deviare sul filo dell’emozione, che porta a una riflessione, che a sua volta verrà scalzata dall’autoironia.
Saltare e rovesciare il tavolo, è il gioco che Claudio fa da sempre con se stesso. Scrutarsi, osservare le pieghe di se stesso per trovare un doppiofondo, analizzarsi per smentirsi. Non dare niente per scontato. Se no, arriva il mostro della noia a mangiarti. Ed è meglio soffrire che essere mangiati dalla noia. L’unica possibilità è svagarsi, stra-vagarsi, extra-vagarsi. Vagabondo e stravagante, alla deriva tra un pensiero e l’altro, farsi leggero per sfuggire alla gravità. Leggerezza, leggerezza: è questa la parola d’ordine, il proponimento (buono, e perciò sempre sconfessabile). Saltabeccare da un luogo della vita all’altro, perdersi negl’interstizi tra i pensieri, smarrire l’orientamento, giocare a ritrovarlo.

Flavio Carretta

Ho conosciuto Claudio che suonava a Montebelluna con Capodacqua, vado dietro le quinte e gli chiedo se viene ad Arcade, nel trevigiano, una serata per ricordare un vecchio compagno, Roberto Poletti, e raccogliere fondi per le scuole di Cuba, ci saranno anche Gualtiero Bertelli e Alberto D’Amico. Certo, vengo. Essendo a rimborso spese, viene da solo, con le basi. La serata è un successo, mi chiedono di organizzare altre cose, io vado a Bologna e organizzo un suo concerto con Capodacqua. Poi è un domino, ne vengono fuori cento altri, diciamo che divento il loro impresario. Ma prima di tutto siamo amici.

Paolo Capodacqua

Non l’ho mai scambiato per un impresario, ha detto Claudio di Flavio, che per il primo concerto organizzato va a casa sua e gli porta in anticipo un assegno con metà del compenso, una cosa non molto consueta per gli impresari... Decine e decine di viaggi, l’auto da guidare la notte, Flavio che porta Claudio a Bologna e poi se ne va in Veneto, uno che c’è sempre, che si spende non per avere una percentuale, ma perché così si alimenta la fiamma di ciò in cui crediamo, perché per lui organizzare concerti di Claudio è continuare a lottare, una battaglia politica e civile.

Francesco Conversano

Con Claudio ci vediamo sempre spesso, si beve, si chiacchiera. Tante volte viene con me, andiamo in Puglia, a Monopoli, dove ho ancora una casa, e nelle peggiori osterie passiamo ore magnifiche. Ma non mettiamo mai insieme le nostre corde. Io faccio documentari su documentari, lui suona e scrive. Ci basta incrociare le nostre vite. L’unica volta che facciamo una cosa insieme è quando per divertimento incido un cd con degli amici, e lui mette la sua chitarra in un pezzo dei Kinks e in uno di Eric Burdon. Era tornare agli anni Sessanta, quelli con i quali bisogna farla finita, ma poi è inevitabile tornarci, perché da lì è partito il viaggio.

Paolo Capodacqua

1994, è finita la prima repubblica, siamo tutti felici, non volevamo morire democristiani, forse si apre un mondo nuovo. E invece, Berlusconi vince le elezioni. In questa catastrofe, la nostra comunità di amici è ancora più salvifica. E Claudio può permettersi di guardare il mondo distaccandosene un po’. Così, quando suoniamo «Borghesia», a fine concerto, Claudio aggiunge una parolina al testo: non più «il vento ti spazzerà via, ma «il vento forse ti spazzerà via». La borghesia, dice Claudio, e una borghesia piccola culturalmente come quella di Berlusconi, gestisce il potere tramite una devastazione assoluta e inevitabile. Una devastazione che nasce da una totale assenza di humus culturale; la presenza di padroncini e fabbrichette, invece, si sente eccome. E allora, dice, non so in cosa possiamo sperare. Per fortuna, c’è la musica che salva.

Vanni Balestra, o Ulisse

Sono sempre Vanni, ma adesso potete chiamarmi Ulisse. Chi l’avrebbe detto che avrei avuto anch’io un doppio con cui parlare. Per quanto, certo, in quel doppio c’è anche il doppio di Claudio.
Da quando sono andato a Milano, con Claudio non ci siamo visti e sentiti molto, e una volta che sono a Bologna ci incontriamo per caso in via Indipendenza. Andiamo a bere qualcosa in un’osteria e passano ore, abbiamo un sacco di cose da raccontarci. Io gli dico delle mie relazioni d’amore complesse, un groviglio da cui non so districarmi, la mia vita in questo periodo assomiglia a una sbronza. ...e poi le donne, ah! le donne, che affare, ce ne vorrebbero tre o quattro per ciascuno... E andiamo avanti a bere. E si mischiano i mondi, il mio e il suo, e viene fuori quest’essere anfibio su cui scrive una canzone, o per dir meglio è lui che nasce dalla canzone, quest’essere che contiene Claudio e me.
Ricordate, no?, avevo fatto la scuola per marconista, volevo partire per i mari, lasciarmi la terra alle spalle. Adesso sono qui, seduto all’osteria, con Claudio che mi ascolta. Ecco, è seduto davanti a noi come Ulisse, col suo giaccone da marinaio e quel sorriso da gioconda un poco troia precipitata dal Louvre in questa specie di guaio perché il destino, il fato, è cambiato, e oggi gli dei ci sono nemici e certamente non basta più viaggiare per sembrare degli zingari felici. Non sono andato per i mari, e attorno a me non ci sono più zingari felici, e in mezzo al mare non c’è più nessuno, ma la mia vita resta comunque un fatto di tempeste: perciò sì, confesso che sono io il navigatore solitario che discende in canoa le intermittenze del cuore.
È evidente, la storia mia è la storia di tutti gli zingari, della fine di un’utopia, della perdita dell’innocenza: vieni via Ulisse, in mezzo al mare non c’è più nessuno; e sono orgoglioso che Claudio abbia ricamato su di me la metafora della nostra generazione. Poi mica tutto corrisponde, e vorrei ben vedere, c’è l’invenzione letteraria (del resto mi fa chiacchierare di Omero, Dante e Tennyson, di tutti coloro che hanno parlato di Ulisse, è un segno indicatore dell’invenzione). E mica devo pensarci prima di dire che ho due figli, io con loro ci vivo! Ma rende bene l’esitazione esistenziale che ho addosso, di uno che rimanda a domani il senso del tempo.
E quando canta la storia della galera, forse ha ancora in mente quando ero andato in Sardegna nel periodo in cui lì c’era il processo ad alcuni delle Brigate Rosse, mi fermano, mi portano in questura, fanno tutti i controlli e gli risulta che sono di Potere Operaio. Mi perquisiscono e mi trovano delle cassette con i segnali Morse e il tasto che si usa per le trasmissioni, era il periodo in cui studiavo per l’esame da radiotelegrafista, ma loro chissà che si immaginano. Mi tengono tutto il giorno sotto torchio, finché a notte mi lasciano andare. Una storia ordinaria, in quegli anni, non so se si è riferito a quella. Di certo ricorda bene gli espropri proletari che facevamo: era bello rubare nei supermercati in barba al principio della proprietà.
E di certo quando scrive la canzone ha ancora bene in mente la storia di quel brutto incidente, rivedere lei in camice al pronto soccorso come se gli anni non fossero niente, rivedere lei e sentire tornare la meraviglia di quel tempo antico. Era stata una storia importante, di molti anni prima, e l’avevo rivista una volta che ero finito in ortopedia al Rizzoli e la ritrovai lì come infermiera. Ma poi Claudio monta questa storia del passato con le ciliegie sull’albero del presente, perché quando torniamo a incontrarci viene a trovarmi nella casa dove abito, a Castel D’Aiano, dove c’è un bellissimo albero di ciliegie. È un grande montaggio della mia vita, compreso il grande digiuno, ovvero un’altra storia d’amore che è sparita. E Claudio allora invoca una donna magica, unica infermiera che ti lecca nel cuore e cuce le ferite, un luogo dell’anima in cui ritornare a dipanare l’imbroglio delle nostre vite.
E all’osteria beviamo, beviamo parecchio, e alla fine a Claudio sgorgano le lacrime, ché il vino e le storie d’amore sono un mix fatale.
Vieni via Ulisse, siamo in mezzo al mare, qui non c’è più nessuno.

Anna di Francia

I poeti aprono sempre la loro finestra, anche se noi diciamo che è la finestra sbagliata. E fuori dalla finestra, i poeti non cessano di vedere il loro fantasma. Una figura evanescente, sfuggente, mobile, che estrae il canto dalle viscere. E per quanti poeti questo fantasma è stato una donna! Anzi, la Donna. Che ci sia o non ci sia, non importa. Questa donna, per Claudio, sono sempre io, che torno in mille metamorfosi. Ma le immagini, come i sogni e le ossessioni, sono, al fondo, sempre le stesse.
Claudio mi richiama, mi rivede perché ha bisogno di guarire le sue ferite, di scacciare il suo demone nero. E di cantare l’amore.
Come ho fatto a stare tanto senza te? La mia rabbia, la mia libertà dov’erano finite? Più ci penso più mi rendo conto che tu sei lo specchio che mi allarga le ferite, tu sei l’aria che non riesco a respirare, la paura di una morte un po’ improvvisa.
I poeti, che strane creature. Sono quelli che vedono sempre l’amore come il rovescio della morte. E viceversa, naturalmente. La paura della morte, quella di un uomo solo, spaventato, nei caffè, davanti a tutta la solitudine del mondo, la può dissolvere solo la traccia luminosa di me che attraverso una piazza, una vita. Quel demone nero che assedia il poeta può essere dissolto solo da un abbaglio di luce. Quell’abbaglio che viene cantato in «Come ho fatto a stare tanto senza te», «Io ti faccio del male», «Dita».
Mi chiama, mi sottraggo, mi richiama. Io ti faccio del male anche se ti amo, ci sono troppi spigoli nei miei giorni, così ferisco i tuoi riposi, i tuoi sonni, con parole insistenti, col bisogno che torni. Ha bisogno di me per soffiar via l’inferno dalla fronte, per far quello non gli basta la bottiglia piatta sempre in tasca. E allora mi insegue, feroce, con addosso l’energia artificiale dei vinti. Anche se sa bene che il tempo passato con me è un tempo finto. Finto come le dita di Dio stamattina nel cielo che mi stanno disegnando una buona giornata. Gli basta, al poeta della finestra, immaginare di essere un bambino, e volare come una lettera magica nel mio cielo straniero.
Perché tocchiamo sempre quello che non ci appartiene.

Ignazio
(«Ignazio»)

I poeti che smontano e rimontano la realtà non mi hanno mica reso un bel servizio. Ignazio è un barista di un bar pasticceria di via Indipendenza dove a Claudio capita di andare, è rimasto colpito dal nome e dalla faccia, ma ci ha scambiato poche parole. E poi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Avvertenza
  4. / Di come Claudio ripensa fra sé e sé all’intervista appena rilasciata per telefono a Toni Jop il 13 novembre 2017
  5. SIAMO NOI A FAR RICCA LA TERRA
  6. Parte prima. 1976: l’anno degli Zingari
  7. Parte seconda. Il ’77: memorie dal futuro
  8. Parte terza. Il ritorno alla normalità – L’eterno presente
  9. Parte quarta. Ancora in viaggio
  10. / Epilogo (Io e i figli di Claudio)