Un dolce naufragio.
L’infinito di Leopardi tra i Padri e Pascal
di Gaetano Lettieri
«Quando l’anima desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere»1.
«Letto Pascal…»2.
«Isaia mostrava con il nome delle Sirene il piacere dell’udito»3.
Impegnato a rintracciare fonti rilevanti della poetica leopardiana, e in particolare del giovanile L’infinito, tenterò di inquadrare la straordinaria potenza di un immenso poeta e di un originalissimo pensatore4 all’interno di una questione culturale ed ermeneutica di lunga durata, cercando di storicizzare l’esaltazione teologica dell’idea di infinito, documentandone la specifica genesi cristiana, capace, nel corso di un millennio e mezzo, di trasmettersi modificandosi, quindi influenzando in maniera profonda le coordinate spirituali occidentali, dunque le idee di assoluto, «io», desiderio, progresso, godimento. Indicherò due diverse interpretazioni e tradizioni cristiane dell’idea di infinito: una di matrice greca, post-origeniana, «inventata» da Gregorio di Nissa, ma capace di trasmettersi come canone eterodosso e critico lungo tutto il pensiero teologico e il pensiero filosofico occidentali – soltanto lentamente e faticosamente divergenti –, fino a condizionare la genesi del romanticismo inglese e tedesco, sullo sfondo del quale il «classicismo» filosofico-sentimentale leopardiano5, malgrado la sua inclinazione materialistica, non può non essere inquadrato; l’altra eminentemente moderna, ambiguamente sospesa tra ateismo e fede gratuita, scetticismo libertino e nuovo «dogmatismo» cartesiano, arrischiata da Pascal a partire da coordinate agostiniane. Soltanto grazie a questo lavoro di ricostruzione storica sarà possibile valutare se il polimorfo sprofondarsi cristiano nell’idea di infinito – che è un inoltrarsi e un perdersi – abbia potuto influenzare la poetica leopardiana; quindi, se e come rispetto ad esso, in particolare alla variante pascaliana su di lui profondamente influente, Leopardi pensi e canti qualcosa di irriducibile e di nuovo. Ritengo, comunque, che non possano essere trascurati o sottovalutati gli studi cristianistici di Leopardi adolescente, tra i quali ho rintracciato un filo prezioso, che, connettendo miti omerici con loro condanne e mistiche reinterpretazioni cristiane, consente forse di decifrare quel verso che definisce «dolce» il «naufragar» del pensiero nell’infinito mare dell’essere, nel quale Dio stesso pare ormai perduto6.
Si cercherà, insomma, di indicare il fondo concettuale, la scaturigine teologica cristiana dell’idea romantica di infinito, questa certo influente su Leopardi7, mostrando – seppure tramite rapide indicazioni – precisi legami genetici, debiti evidenti, pure all’interno di un processo moderno di secolarizzazione e immanentizzazione del Dio personale e del suo rivelarsi, capace di determinare una nuova idea di assoluto, decisiva nell’approfondire l’interiorità del soggetto e nel lasciar dispiegare il dinamismo del suo desiderio inesauribile, essi stessi teologicamente segnati, malgrado progressivamente sempre più autonomizzatisi rispetto alla loro matrice8. Questo non significa che un altro modello ideale di infinito non possa avere influito sul sensismo estatico e l’Illuminismo tragico di Leopardi. Penso al modello lucreziano9, per il quale il pensiero dell’infinità materiale (dello spazio, degli atomi che casualmente vi si muovono, dell’universo in divenire), nel quale la vanità delle aspirazioni umane fa naufragio, è indicato come il liberante punto di vista filosofico: è comunque «suave», perché capace di abbandonare il desiderio finito, eppure insaziabile infisso nella precaria inconsistenza delle cose; così, seguendo Epicuro illuminatore, in una «voluptas» mista a «horror», lo sguardo mentale si innalza dal vento, dalle piogge e dalle precarie realtà della natura mortale all’«inane», all’«aeternus motus» del tutto nello spazio infinito e sterminato, fino a intravedere le «sedes quietae» di un divino indifferente10. Ma se anche questa prospettiva lucreziana fosse influente su Leopardi, può l’esperienza di «quella inclinazione e spasimo dell’uomo verso l’infinito»11, per quanto radicalmente razionalizzata e materializzata, essere del tutto indifferente a sollecitazioni e riecheggiamenti cristiani e poi romantici, nei confronti dei quali porsi anche in rapporto di scarto o ritrattazione? Tanto più se L’infinito precede insistiti e certo sempre più acrobatici tentativi di compromesso tra il proprio originale «sistema» filosofico e «il Cristianesimo»!12 Inoltre, se Lucrezio godeva nel contemplare, distante e sicuro, il naufragio dei vani desideri altrui nel turbine infinito e «insensato» del cosmo materiale, perché mai Giacomo gode nell’inabissarsi in questo stesso naufragio? Se l’epicureo vedeva nel desiderio insoddisfatto una dolorosa vanità della quale liberarsi, perché il desiderio rimane un centro enigmatico dell’antropologia di Leopardi, teso verso un’idea di infinito che non può essere del tutto immunizzata da aspirazioni cristiane, disilluse forse, eppure capaci di scavare nella radicalità del suo domandare? Inoltre, la dialettica del sublime, che emerge ne L’infinito13, è del tutto immune rispetto a qualsiasi scaturigine teologica? E qual è, allora, il ruolo di Pascal (della sua tragica antropologia del sublime, manifestazione dell’enigma contraddittorio dell’essere, che solo la fede riesce a significare), che ritengo profondamente influente su Leopardi, più di quanto non si sia fino ad oggi riconosciuto? Arretrando cronologicamente, quale dimestichezza questi aveva con testi teologici di età patristica?14 Alcuni di questi hanno potuto influire, anche solo come eco remota, su ispirazione e immagini dei suoi versi, forse dello stesso L’infinito?
1. Gregorio Nisseno: l’«invenzione» dell’infinità di Dio e dell’infinito progresso beato della mente.
Troppo spesso le trattazioni storiche dell’idea di infinito ne trascurano la profonda, eversiva riconfigurazione cristiana avviata sin dal periodo patristico e intenta a ritrattare in sé il pensiero platonico del bene e delle idee, risolti nell’infinita potenza creativa del Dio biblico, capace di imprimere nell’uomo finito, creato a sua immagine, un’orma dell’infinità. Ruolo chiave assume, in proposito, Gregorio di Nissa (335-395 ca.)15, uno dei tre grandi Padri cappadoci16, attivi nella seconda metà del IV secolo e decisivi nella definizione antiariana del dogma trinitario prima e dopo il Concilio di Costantinopoli del 381. Pensando il Dio cristiano come infinità assolutamente attuale, egli restituisce intelligenza e desiderio dell’uomo quali finiti dinamicamente infiniti, quindi, secondo una relazione analogica, come infinità potenziale, sempre imperfetta, asintoticamente approssimantesi all’Atto infinito che la crea e la contiene come sempre più partecipe dell’essere trascendente. Si compie, così, la violazione cristiana dell’esorcismo aristotelico dell’infinito, per il quale l’ἄπειρον è sì principio divino, immortale, indistruttibile, ma di fatto «impensabile» o pensabile unicamente come concetto di indeterminato negativo, incompleto e potenziale, dunque come illimitato sempre eccedente (ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcos’altro), «inesistente» e dissolvente rispetto al potere di comprensione determinata17. Prima l’ebreo Filone, poi gli gnostici, Clemente di Alessandria18, Ilario di Poitiers, in ambito cristiano, infine Plotino, in ambito pagano, avevano cominciato a mettere in connessione il pensiero dell’assoluto principio divino con quello di infinito, ma in maniera ancora estrinseca, non concettualmente approfondita19. Per il massimo pensatore cristiano di lingua greca, Origene, Dio non può pensare né creare l’infinito, in quanto soltanto il finito è ontologicamente determinato, intellegibile, inscritto all’interno di un’armonia definita.
L’infinità di Dio diviene, invece, il centro del sistema teologico gregoriano, segnando una svolta nella razionalità occidentale, capace di rivoluzionare la nozione di verità e quella del desiderio (ἡ ἐπιθυμία) creaturale, capace di ritrattare in sé la dottrina dell’eros platonico, subordinata a quella biblica del dono di grazia20. L’infinità divina è eccedente pienezza ontologica, vita eterna interminata perché senza inizio e senza fine21: in quanto essere semplice, l’Infinito, l’Illimitato, l’Aperto o l’Immane (τὸ ἄπειρον, τὸ ἀόριστον, τὸ ἀχανές) non ammette più e meno, accrescimento e diminuzione, non è quindi affatto infinito privativo, quanto piuttosto assolutamente negativo rispetto a qualsiasi limite22. La fede biblica di Gregorio concepisce comunque l’Infinito come inesauribile volontà personale di manifestazione, libero e amoroso desiderio di comunione infinita in sé (trinitariamente) e fuori di sé (nel donarsi alla creatura). L’onnipotente volontà di Dio che è amore23, la sua infinita potenza creatrice soggioga il monstrum dell’infinito indeterminato24, della privativa illimitatezza e ulteriorità dello smisurato, convertendolo in smisurata «proprietà» positiva e donativa dell’assoluta trascendenza ontologica25. Una differenza insuperabile, un baratro, un muro ontologico – spazio/abisso (μέσον), intervallo/barriera/distanza (διάστημα) – separa l’increato Infinito da ogni creatura finita, la quale partecipa all’essere soltanto attraverso il suo limite (πέρας), che è differenza temporale e (nel caso delle realtà corporee) spaziale, insomma posizione circoscritta in distensione e discrezione finite, che determinandola la negano, rivelandone parzialità, termine, contingenza e fine26.
Con...