Bici e sport — 13 —
Sulle orme di Felice
Norma Gimondi
Non corro in bici, non ho mai corso: troppo il lavoro in bottega, e negli anni sono riuscito a permettermi solo un aiutante a busta paga.
Alcuni miei colleghi arrivano da un passato di professionismo o semiprofessionismo, mettono pure in piedi una squadra con cui passare le domeniche e tenere alto il giro d’affari. Io, invece, non ho mai avuto gli agganci giusti e mi sono concentrato sulle manutenzioni. Nonostante questo, il mio nome circola ancora tra gli appassionati, tra quelli che dopo i cinquanta – invece di comprarsi un’Harley-Davidson – inforcano una bici dello stesso valore e diventano i maniaci delle tabelle; tabelle cronometriche, alimentari, energetiche.
Quando hanno bisogno di una revisione, di una regolazione speciale, cercano ancora me. Questo mi dà un sacco di soddisfazioni, ci dedico ancora del tempo, ma sento che sto cercando nuovi orizzonti. Per questo mi piace molto conversare con Adriana: una mente sveglia e con gli occhi spalancati sul mondo.
Mi piace da matti lavorarci accanto, lei su una bici, io su un’altra, e magari guardare insieme sul computer la tappa del Giro d’Italia o del Tour de France, e sbolognarci a vicenda l’ignaro cliente entrato proprio a pochi chilometri da quando la corsa è al traguardo.
Che comodità guardare le tappe sul computer portatile! Lo puoi sistemare dove vuoi, rivedere le fasi salienti, così da accontentare subito il cliente, e tornare alla corsa come se niente fosse. In questi momenti di complicità Adriana dà il massimo e mi aggiorna sulle sue scoperte da cibernauta: sulle bici, sui costumi e sui malcostumi del mondo.
Anche guardarle sul televisore però era bello, quel senso di immediatezza e di compresenza col mondo. In passato, nelle tre settimane del Giro d’Italia e nelle tre del Tour de France, mi portavo in bottega il grande televisore in bianco e nero di casa. Dovevo litigare con mamma e papà per riuscire a tenermelo in negozio l’ultima settimana, prima della tappa finale. Quelle prima, ovviamente, le seguivo alla radio.
Forse anche grazie alle bagarre delle grandi corse a tappe il nostro livello di complicità ha raggiunto quello che avevo anni prima con Leonardo. Anche con lui andavo in brodo di giuggiole a seguire le corse e a lavorare nel contempo. Così ho cominciato a sbottonarmi anch’io con Adriana, senza preoccuparmi che mi prendesse per matto e, come con Leonardo, ho cominciato anche con lei a raccontare della mia passione per Gimondi.
Una passione nata da bambino, quando in spiaggia a Chioggia guardavo rotolare le biglie con la faccia del campione sulla pista di sabbia costruita con gli amici. Non me ne sono persa una di corsa, ma mi piaceva anche curiosare su ogni dettaglio della sua biografia, conoscere le prime pedalate della sua carriera, nata – si narra – grazie alla mamma, postina di Sedrina, l’unica donna del paese che all’epoca sapesse andare in bicicletta. Una bici usata per le consegne e che Felice prendeva spesso in prestito.
Un campione rimasto sempre legatissimo alla sua famiglia d’origine, così come alla moglie e alle sue figlie, tanto che qualche anno fa in un’intervista disse: «Ho solo due rimpianti nella vita: aver lasciato spesso sola mia moglie nei primi anni di matrimonio e non aver visto crescere le mie bambine. Sono cose che valgono più di tutte le vittorie del mondo».
In bici con papà
Norma Gimondi, classe 1970, avvocato e vicepresidente della Federazione Ciclistica Italiana dal febbraio 2021, è la prima delle due figlie del campione di ciclismo Felice Gimondi, mancato il 16 agosto 2019. Grande appassionata di ciclismo, forse con il rammarico di non aver tentato la carriera da professionista, ricorda con nostalgia le pedalate con suo padre e oggi si batte affinché si faccia fronte comune per la sicurezza sulle strade.
Norma, la sicurezza dei ciclisti su strada è una delle priorità del tuo mandato nella Fci?
Sicurezza non solo per gli atleti ma sulle strade di tutti i giorni. Da ragazzina pedalavo libera nelle strade del comune di Paladina, dove sono cresciuta sfidandomi con gli amici. Oggi, se dovessi mandare mio nipote di undici anni in bici sulle stesse strade, ci penserei un po’ su. Bisogna trovare una soluzione di concerto con il Parlamento e il ministero dei Trasporti, per rivedere il Codice della strada a favore degli utenti più fragili, introducendo anche misure come la moderazione della velocità soprattutto in ambito urbano, ma anche con il ministero dell’Istruzione, perché bisogna entrate nelle scuole e cambiare la mentalità di quelli che saranno i conducenti delle auto di domani.
Quello della sicurezza su strada è un tema che dovrebbe riguardare tutti?
Dovremmo dialogare di più tra noi, anche perché ultimamente ci sono stati gravi incidenti che hanno coinvolto dei corridori durante gli allenamenti. Non possiamo fare distinzioni tra ciclista professionista, ciclista della domenica e chi usa la bici per andare a fare la spesa in città. Siamo tutti sulla stessa strada, tutti esposti al medesimo pericolo. Sotto questo profilo, è necessario fare fronte comune e lottare tutti insieme per avere maggiore sicurezza sulle nostre strade. Servirebbe un tavolo per dialogare non solo con la federazione, ma anche con le associazioni che operano già in questo settore.
Usi la bici come mezzo di trasporto?
Tre anni fa ho acquistato una e-bike e quello doveva essere il mezzo di trasporto per arrivare la mattina in studio. Ho tentato un paio di volte, ma mettendomi sulla strada alle otto del mattino, ho capito che sarebbe stato assai rischioso arrivare in studio e tornare a casa incolume. C’è troppo traffico e soprattutto negli orari di punta rischi di non essere visto. C’è la fretta di uscire dallo stop, di passare con il giallo, e lì il ciclista ha la peggio, perché basta davvero poco e rischi di farti male. Quindi ho lasciato stare, malgrado il mio studio disti da casa sette chilometri, una distanza più che accettabile, ma in questo momento non ci sono le minime condizioni di sicurezza per viaggiare tranquillamente e utilizzare la bicicletta come mezzo di trasporto. Questo vale per Bergamo, ci sono altre realtà – come Mantova, una città dove mi sono recata molte volte per lavoro – dove la cultura di chi è al volante è diversa. C’è infatti molto più rispetto e tolleranza nei confronti del ciclista e molti si muovono in bicicletta, soprattutto quelli che lavorano o studiano a una distanza di tre o quattro chilometri. Nelle nostre valli e in città la scelta della bici è un po’ più impegnativa.
Quando invece usi la bici per fare sport?
Lì mi sento più sicura perché in quel caso ho gli abiti giusti quelli che mi consentono movimenti più adeguati, indosso il casco, non ho né borsa né zaino, e mi sento più libera e sicura. Io, durante la settimana, esco in bicicletta il sabato e la domenica pure e, se posso, anche nei pomeriggi al di fuori del lavoro. Pertanto, percorro circa 150/160 chilometri la settimana: mi fa stare bene perché è un esercizio fisico, aerobico, che aiuta a scaricare le tensioni a livello circolatorio. Io poi sto davvero molto meglio, mi aiuta a scaricare lo stress. Mi accorgo che se non vado in bicicletta da una settimana sono molto più nervosa, più introversa. Andare in bicicletta mi mette il buonumore, sono più allegra, più pacata e anche più riflessiva.
Hai avuto una passione per altri sport, per altre discipline?
No, sin da bambina nel cortile di casa giravo con una biciclettina con le rotelle, mi ero massacrata l’interno delle caviglie a forza di pedalare. Per me la bicicletta è sempre stato l’unico sport, avrei voluto farla a livello agonistico, ma all’epoca mia madre disse: «No, ho già tuo padre tutto il giorno sulla strada ad allenarsi, non voglio avere una figlia che imbocca questa professione».
Altrimenti l’avresti fatto?
Sì, è qualcosa che ho lì… diciamo che non sono riuscita a realizzarla.
Con rammarico?
Esatto, però poi sono stata contenta. La scena più bella che ti posso raccontare è di qualche anno fa, quando mi sono presentata al campionato italiano degli avvocati a Torino. Non avevo anticipato nulla né a mio padre né a mia madre, ho detto loro: «Oggi vado a fare un giro in bicicletta». Sono partita con un mio amico e sono arrivata a Torino. Il mio amico mi ha aiutata a montare la bicicletta, ho preso parte alla manifestazione e l’ho vinta: si passava sul colle di Superga. Era maggio, sono tornata a casa con la mia coppa e la maglia tricolore. Mio padre e mia madre mi hanno guardata allibiti. Lui si è girato verso la mamma: «Te l’avevo detto che dovevamo farla correre».
E mia madre, ridendo: «No, va bene così, abbiamo un avvocato, che poi sia campione italiano di ciclismo non m’interessa, ma abbiamo in casa un avvocato!».
Un avvocato comunque serve sempre…
Mia madre, infatti, ha sempre sostenuto: «L’avvocato lo fai per tutta la vita, l’atleta ha una carriera limitata e poi ti devi rimettere sempre in discussione. Se non hai studiato, diventa un problema, perché il ciclismo femminile anche oggi non dà grandi prospettive. Questo è l’approccio che ho avuto con il ciclismo: un papà che avrebbe voluto e una mamma che invece ha ostacolato.
Che ricordi hai della tua prima volta in bicicletta e delle pedalate con papà?
Papà aveva portato a casa questa biciclettina blu con le rotelle, me la ricordo ancora, e mi ha insegnato a pedalare togliendole una alla volta. A un certo punto mi sono sentita grande e forte, come gli adulti, sono partita e non mi sono fermata più. Quando ho iniziato l’università e quindi le mie velleità agonistiche le avevo chiuse in un cassetto, papà ha cominciato a propormi di uscire in bicicletta con lui. Facevo un sacco di fatica, perché le cose che per lui erano normali, per me erano difficilissime, anche solo stargli dietro era un’impresa. Lui si metteva davanti a macinare e io a ruota. Dovevo proprio fissarla quella ruota, che ogni tanto si allontanava e quindi dovevo stringere i denti per tornare sotto, facendo finta di non fare fatica.
Lui mi diceva sempre: «Stai a ruota e non staccarti, perché poi fai il triplo della fatica! Ma il problema infatti era che quando mi staccavo dalla ruota per tornargli sotto, facevo cinque volte fatica: era davvero dura. Una sera d’estate non tornavamo più a casa, perché mi aveva portato in una salita dove non riuscivo più ad andare né avanti né indietro, a volte mi portava oltre i limiti. Forse ha voluto in quel modo farmi capire che si possono scalare tutte le vette, l’importante è andare regolari, fare i fuori giri, non mettere mai il piede a terra e questo ti dico è l’insegnamento che mi ha sempre ripetuto: «Non fermarti!».
Anche quando mi vedeva faticare, la frase era: «Non fermarti, continua a pedalare».
Questo poi ti è servito anche per altri aspetti della tua vita?
Sì, penso che la bicicletta sia un grande insegnamento. Con la bici impari a conoscerti perché sei da sola, la fatica la senti e fa parte di questo sport. Nel ciclismo non puoi nasconderti, mentre in altri contesti della vita puoi indossare una maschera. Impari quali sono i tuoi limiti, impari a porti degli obiettivi e a confrontarti con gli altri. Impari anche il rispetto dell’altro: capisci che ciascuno di noi ha la sua velocità, ha il suo motore. Devi accettare anche la sconfitta, cercando però di trovare sempre un miglioramento in quello che fai. Se fai le cose con determinazione, con professionalità e con serietà, anche quello che ti sembra abbia il motore più forte del tuo, prima o poi riesci a batterlo, e questo la bicicletta te lo insegna.
Che ricordi hai delle ultime pedalate con papà?
Negli ultimi due anni della sua vita era più affaticato. Io pedalavo davanti e lui dietro e quando andava in difficoltà, cambiava rapporto senza fare rumore, perché non mi accorgessi che stava facendo fatica.
Tuo padre è sempre stato molto presente, nonostante viaggiasse molto.
Ha vinto l’ultimo Giro d’Italia nel ’76 e ha concluso la sua carriera da professionista nel ’79, quando io avevo nove anni. Considera che all’epoca la stagione ciclistica iniziava a fine febbraio e terminava a metà ottobre, tra Giro di Italia, Tour de France, La Vuelta, quindi nei mesi in cui correva, a casa non c’era. Durante la stagione agonistica, era una presenza più che altro indiretta, anche se la mamma riusciva a farlo sentire molto presente. D’inverno, invece, era un papà estremamente presente, perché, a differenza degli altri, si allenava la mattina ma nel pomeriggio era con noi, quindi lo vivevamo molto di più di quanto un mio coetaneo potesse vivere suo padre, faceva una vita normale. Di “anormale” aveva il fatto che usciva la mattina vestito con la tuta da ciclista, prendeva la bicicletta e alle quattro del pomeriggio era tutto per noi. Poi, quando ha terminato l’attività agonistica, è sempre stato coinvolto nel ciclismo come team manager e via dicendo e quindi ha continuato a essere un uomo che viaggiava per ciclismo, fino ad arrivare a dire, intorno ai sessant’anni: «Quello che dovevo fare l’ho fatto, dedico il mio tempo alla mamma e a voi». Quindi l’abbiamo vissuto così, è stata una figura fondamentale per tutti noi, in tutti i sensi, e ancora oggi è una mancanza che sentiamo quotidianamente. Anche quando, a febbraio, c’è stata la mia proclamazione ...