Gli ultimi giorni della Comune
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Gli ultimi giorni della Comune

In diretta dalle barricate di Parigi, la cronaca dell'insurrezione che ha cambiato per sempre il volto dell'Europa

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Gli ultimi giorni della Comune

In diretta dalle barricate di Parigi, la cronaca dell'insurrezione che ha cambiato per sempre il volto dell'Europa

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Accadde il 18 marzo del 1871. Il popolo parigino insorse e, respingendo come indegno qualunque tentativo di imporre alla Francia un nuovo regime monarchico, conquistò sulle barricate il diritto di scegliere il proprio destino. Nacque così la Comune di Parigi: un esaltante esperimento rivoluzionario che, sventolando la bandiera rossa, in un pugno di mesi riuscì nell'impresa di sostituire l'esercito con una milizia cittadina, di farla finita con l'ingerenza ecclesiastica negli affari dello Stato, di introdurre il diritto universale all'istruzione e di riconoscere ai funzionari pubblici lo stesso salario percepito dagli operai. Tutto questo fino al maggio del 1871, quando le forze della reazione scatenarono sulla capitale francese un'offensiva senza precedenti. Un bagno di sangue che costò la vita a decine di migliaia di rivoltosi, fucilati dai soldati nemici. Giorni terribili che videro tra i loro protagonisti lo stesso Prosper-Olivier Lissagaray che, ne "Gli ultimi giorni della Comune", racconta la gloria della resistenza di Parigi, le grandi conquiste ottenute dalla rivoluzione e il valore delle donne e degli uomini che donarono la propria vita alla causa della libertà.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788867180394
Argomento
Storia
Capitolo VII
L’ordine regnava a Parigi!
Cavaignac aveva promesso il perdono e poi massacrò. Thiers aveva promesso il massacro e ne satollò l’esercito.
Non vi fu più a Parigi che un solo governo, l’esercito che aveva massacrato Parigi.
«Soldati e marinai, – disse Mac-Mahon – il pubblico applaude al successo dei vostri sforzi patriottici».
La città fu divisa in quattro grandi comandi agli ordini dei quattro generali Vinoy, Ladmirault, Cissey, Douay, e assoggettata al terribile regime dello stato d’assedio. Tutti i poteri devoluti all’autorità civile furono trasferiti nelle mani dell’autorità militare. Tutti i luoghi pubblici dovevano essere evacuati alle undici di sera. I teatri furono chiusi; l’affissione fu sottoposta al comandante in capo. I giornali dovettero ottenere l’autorizzazione per la pubblicazione; fu proibito lo strillonaggio. Manifesti affissi su tutti i muri annunciavano che ogni cittadino in possesso di qualsiasi arma sarebbe stato immediatamente arrestato e tradotto davanti a un Consiglio di guerra; che ogni casa dalla quale si fosse sparato sarebbe stata oggetto di un’esecuzione sommaria, vale a dire di un massacro. Parigi fu sorvegliata come una cittadella. In tutte le strade, in tutte le piazze, in tutti i crocicchi, i soldati erano accampati e le sentinelle vegliavano giorno e notte. Soltanto gli ufficiali dell’esercito, in uniforme, potevano circolare liberamente. Nessun lasciapassare fu concesso ai civili. La guardia nazionale fu disarmata e sciolta. L’entrata nella città divenne difficile e l’uscita impossibile. Poiché gli ortolani non potevano circolare liberamente, i viveri cominciarono a mancare.
Chiuso in tal modo questo immenso cerchio, l’esercito, aiutato dalla polizia, spingeva la selvaggina ai mattatoi. Quale altro nome si può dare a quelle corti marziali che spacciarono immediatamente, senza controllo, migliaia di esseri umani, senza nemmeno degnarsi di constatare la loro identità? Noi prendiamo, del resto, l’impegno di riportare solo i fatti dei quali siamo stati testimoni, o quelli che ci provengono da testimoni oculari, o quelli che sono stati riportati dai giornali dell’ordine, gli unici autorizzati a Parigi. Poiché le crudeltà dei Versagliesi sono state raccontate dai loro amici, siamo ben costretti a credervi.
Ecco, per nostro conto, quello che abbiamo visto.
La domenica mattina 28, alla barricata della piazza Voltaire, una cinquantina di guardie fatte prigioniere furono immediatamente fucilate. Spinti non da un’indegna curiosità, ma dall’aspro bisogno di vedere la verità, andammo vicino ai cadaveri stesi sul marciapiede del municipio, col rischio di essere veduti. I soldati, per disonorare le loro vittime, avevano messo sui loro petti delle scritte dove si leggeva: Assassini, Ladri. Una donna giaceva là quasi nuda. Dal suo ventre, aperto da un’orrenda ferita, le budella uscivano e si riversavano sul marciapiede. Un fuciliere di marina si divertiva a dividere queste interiora con la punta della baionetta e a vuotare così, fra le risa dei suoi camerati, il ventre di quella disgraziata. Nella bocca di qualche cadavere i salvatori di Parigi avevano ficcato dei colli di bottiglia e sul loro petto avevano scritto: Ubriaco.
Circa tremila federati catturati la notte precedente ai Père-Lachaise erano stati condotti alla prigione della Roquette. Nessuno di essi ne uscì. Dal mattino fino alle quattro di sera, fuori della prigione si continuarono a udire le esplosioni. Per più di un’ora noi le ascoltammo davanti alla porta confusi nella folla. Il suono non era sempre quello della fucileria; si distingueva nettamente il tambureggiamento delle mitragliatrici. Alcuni artiglieri uscendo ci confermarono l’orribile verità. I prigionieri venivano liquidati a gruppi di cinquanta e di cento uomini.
Poiché i plotoni d’esecuzione erano spossati dalla stanchezza e miravano male, gli ufficiali avevano fatto avanzare le mitragliatrici, per umanità, come dicevano. L’interrogatorio si riduceva a una sfilata davanti alla corte; infatti tutti i prigionieri catturati al cimitero erano destinati alla morte e rinchiusi separatamente come delle greggi. Gli artiglieri che parlarono davanti a noi, scuotevano sul marciapiede le scarpe gocciolanti di sangue; parecchie donne persero i sensi. Il sangue colava a fiotti nei ruscelli interni della prigione. Un ufficiale uscì vacillando e con gli occhi stravolti; la strage gli aveva dato le vertigini. Dai corpi ammonticchiati venivano dei rantoli, poiché non tutti erano stati uccisi al primo colpo e non c’era tempo per dar loro il colpo di grazia. Si sparò ancora qualche caricatore di pallottole su questi mucchi sanguinolenti, ma, malgrado tutto, i soldati udirono per tutta la notte i lamenti disperati degli agonizzanti.
Quale storico potrà ancora parlare dei massacri di settembre come di un primato di orrore? Soltanto le grandi stragi della Bibbia, le orge di sangue del re del Dahomey possono dare un’idea di questi massacri di proletari. La notte di San Bartolomeo che uccise 2000 protestanti, il 2 dicembre, in cui circa millecinquecento persone furono stese a terra, lo stesso giugno del ’48 potrebbero costituire appena dei particolari di questo quadro gigantesco. Infatti la prigione della Roquette non era che un episodio del dramma che si compiva in quel momento in tutta la città di Parigi.
Tentammo di uscire dal faubourg Saint-Antoine, ma non potemmo, perché esso era sbarrato. Da venerdì sera i soldati vi facevano perquisizioni di uomini e di armi. La bandiera tricolore, la bandiera del massacro, penzolava da quasi tutte le finestre di tutte le case; il cuore si gonfiava di disgusto; si sarebbe detto di essere a una festa nazionale. I Prussiani potevano essere ben contenti, dato che venivano annientati coloro che erano stati gli unici loro nemici risoluti durante l’assedio12. In via della Roquette, all’entrata del faubourg e in tutte le vie adiacenti le case forate e bruciacchiate crollavano sul selciato. Alcune di esse, di cui non restavano che pezzi di muro, assomigliavano a scheletri giganteschi che guardassero i cadaveri stesi ai loro piedi. Di questi ve n’erano in tutte le strade, in tutti gli angoli. Li si tirava fuori da tutti i magazzini, giù dalle barricate, dove qualche ferito si era arrampicato cercando un angolo oscuro per morire. In via Basfroid i cadaveri ingombravano la strada, stesi l’uno di fianco all’altro, rigidi, con le loro facce bianche rivolte in alto, e guardavano i passanti con i loro occhi morti aperti. Il loro numero era così considerevole che, in certi quartieri, le strade sembravano coperte di neve. Parecchi erano là da due giorni. Era stato proibito di toglierli. Col rischio di infettare i quartieri, Thiers aveva voluto produrre negli animi un salutare terrore con questo spettacolo. In tutti i ruscelli, a tutti gli angoli delle strade, i fucili, le giberne, le uniformi si ammonticchiavano, buttati dalle finestre o portati dagli abitanti atterriti. Sulle porte le donne sedute, immobili, con la testa fra le mani, guardavano davanti a se stesse senza vedere. Quante di esse attendevano in tal modo il ritorno del marito o del figlio, che in quel momento veniva tradotto davanti alla Corte marziale!
Alla caserma Lobau, alla Scuola militare, al Luxembourg, alla prigione di Saint-Lazare e in venti altre località, il fuoco di fucileria continuava senza sosta.
Abbiamo detto che le corti marziali si erano installate in tutti i quartieri, man mano che questi venivano occupati. Esse erano presiedute da un ufficiale superiore. La storia ha conservato i processi verbali del famigerato tribunale installato nel ’92 in via l’Abbaye. Si sa che il presidente Maillard interrogò ogni prigioniero, benché fossero tutti perfettamente conosciuti. Si sa che vi furono delle specie di arringhe, delle spiegazioni molto lunghe, in seguito alle quali parecchi furono rilasciati. I difensori dell’ordine nel 1871 non fecero tante cerimonie e procedettero al loro feroce bisogno da veri macellai. Non vi furono né registri né processi verbali. Gli accusati sfilavano ordinatamente davanti alla corte, un gruppo di quattro o cinque ufficiali eccitati e ubriachi, con le mani contratte, i gomiti sulla tavola e talvolta col sigaro fra i denti. Si cominciava dal primo della fila; l’interrogatorio durava in media un quarto di minuto. «Avete preso le armi? Avete servito la Comune? Mostrate le mani». Alla minima esitazione, o se l’andatura dell’accusato tradiva il combattente, o se la sua faccia era antipatica agli onorevoli magistrati, o anche se si difendeva con troppa energia, lo si dichiarava classificato, senza altra spiegazione, senza domandargli né l’età, né la professione e nemmeno il nome. «Voi?» si diceva al vicino; e così di seguito fino alla fine della fila, talvolta senza lasciare a quei disgraziati nemmeno il tempo di rispondere. Quando, supponendo l’impossibile, l’innocenza di un prigioniero fosse apparsa clamorosamente evidente o si fosse voluto lasciarlo parlare, egli veniva dichiarato ordinario, vale a dire mandato a Versailles. Nessuno veniva liberato.
I classificati venivano consegnati ai soldati, i quali li portavano nelle vicinanze. Dal Châtelet, per esempio, erano condotti alla caserma Lobau. Là, appena erano entrati nella corte e le porte erano state chiuse, sparavano loro addosso senza nemmeno sprecare il tempo di allinearli davanti a un plotone d’esecuzione. Alcuni di quegli infelici scappavano, correvano lungo i muri come belve che girassero torno torno la loro gabbia; i soldati davano loro la caccia e li fucilavano dalle finestre a rischio di ferirsi fra di loro.
Il contegno dei federati era ovunque ammirevole. Nessuno chiedeva grazia. Molti incrociavano le braccia, comandavano il fuoco, benché i soldati sparassero senza comando appena i prigionieri si trovavano alla portata dei loro fucili. Su una barricata del faubourg du Tempie un bambino di dieci anni si era segnalato fra i difensori più accaniti. Quando la barricata fu presa tutti i sopravvissuti furono fucilati. Quando venne il turno del bambino, egli chiese all’ufficiale una dilazione di tre minuti.
Sua madre abitava là di faccia. Egli voleva portarle il suo orologio d’argento «perché almeno ella non perdesse tutto». L’ufficiale, involontariamente commosso, lo lasciò andare, pensando di non rivederlo più. Lo si vide ritornare due minuti dopo. Attraversò correndo la strada gridando: «Eccomi!». Saltò sul marciapiede e andò in fretta ad addossarsi al muro, davanti ai fucili dei soldati stupefatti.
Un giornale belga, l’«Étoile», che non aveva mai cessato di coprire di ingiurie la Comune e i suoi difensori, non poté tuttavia fare a meno di riconoscere l’eroismo di quei briganti, di fronte alla morte.
«Quello che non ho ancora visto segnalare, – diceva il suo corrispondente – è un fenomeno morale che si è rivelato dopo la disfatta dell’insurrezione. Mi riferisco al fatalismo e alla rassegnazione alla morte, da cui sono posseduti gli insorti combattenti. Senza dubbio vi sono stati quelli che all’ultimo momento hanno avuto paura e hanno fatto tutto quello che hanno potuto per scampare alla morte; ma la maggioranza di coloro che si sono battuti con accanimento e che sono stati catturati con le armi in mano sapevano bene quale sorte li aspettasse. Sembra che una logica inesorabile li spingesse. Essi avevano ucciso, per vincere una partita; la partita era perduta ed essi sentivano di dover essere uccisi a loro volta. La maggior parte hanno affrontato la morte, come gli Arabi dopo le battaglie, con indifferenza, con disprezzo, senza odio, senza collera, senza ingiuria per i loro esecutori.
Tutti i soldati che hanno preso parte a queste esecuzioni, che io ho intervistato, sono stati unanimi nei loro racconti. Uno di essi mi diceva: “Abbiamo fucilato a Passy una quarantina di quelle canaglie. Sono morti tutti da soldati. Gli uni incrociavano le braccia e tenevano la testa alta. Gli altri aprivano le giubbe e ci gridavano: Fate fuoco! Non abbiamo paura della morte”.
Un soldato di marina, un buon militare, molto coraggioso e molto umano, mi raccontò la faticosa e sanguinosa peregrinazione che aveva fatto attraverso tutto il faubourg Saint-Germain, il Panthéon, il ponte d’Austerlitz e il quartiere Saint-Antoine. “Noi abbiamo un colonnello – mi diceva – che è un uomo eccellente e che non ama il sangue. Abbiamo ucciso soltanto quelli che avevano voluto ucciderci. Gli altri li abbiamo fatti prigionieri. Neanche uno di quelli che abbiamo fucilato ha mosso ciglio. Mi ricordo soprattutto di un artigliere il quale, da solo, ci ha fatto più male di un battaglione. Egli serviva da solo un pezzo d’artiglieria. Per tre quarti d’ora egli ci sparò a mitraglia uccidendo e ferendo non pochi dei miei camerati. Infine fu sopraffatto e noi discendemmo dall’altra parte della barricata. Lo vedo ancora. Era un uomo massiccio e grondava di sudore per il servizio che aveva fatto per una mezz’ora. ‘È il vostro turno – ci disse –. Io merito di essere fucilato, ma morirò coraggiosamente’”.
Un altro soldato del corpo del generale Clinchant mi raccontava come la sua compagnia aveva portato sui bastioni ottantaquattro insorti presi con le armi in mano. “Essi si sono messi tutti in fila – mi diceva – come se andassero a un esercizio. Neanche uno si scompose. Uno di loro che aveva un bel volto, che portava un paio di pantaloni di stoffa fine infilati negli stivaletti e una cintura da zuavo alla vita ci disse tranquillamente: ‘Cercare di mirare al petto e risparmiatemi la testa’. Noi abbiamo sparato tutti, ma l’infelice ha avuto la testa portata via a metà”.
Un funzionario di Versailles mi fece il racconto seguente: “Nella giornata di domenica ho ratto una escursione a Parigi. Mi dirigevo vicino al teatro del Châtelet verso il mucchio di rovine fumanti dell’Hôtel de Ville, allorquando fui circondato e trascinato da un torrente di folla che seguiva un convoglio di prigionieri. Li ho contati, erano in numero di ventotto. Ho ritrovato in essi gli stessi uomini che avevo visto nei battaglioni dell’assedio di Parigi. Quasi tutti mi sono parsi essere operai. I loro visi non tradivano né disperazione, né abbattimento, né emozione. Essi marciavano in avanti con passo fermo, risoluto e mi apparivano tanto indifferenti alla loro sorte, che pensai che fossero stati catturati in una retata e si aspettassero di essere rilasciati. Mi ingannavo completamente. Quegli uomini erano stati catturati al mattino a Ménilmontant e sapevano dove venivano condotti. Arrivati alla caserma Lobau, i cavalieri che precedevano la scorta fecero fare un semicerchio e impedirono ai curiosi di avanzare. Le porte della caserma si aprirono completamente per lasciar passare i prigionieri e si richiusero subito. Non era passato un minuto e io non avevo ancora fatto quattro passi, che un terribile fuoco di plotone rimbombò al mio orecchio. Si fucilavano i ventotto insorti. Sorpreso da quella orribile detonazione provai una commozione che mi diede le vertigini. Ma ciò che aumentò il mio orrore dopo il fuoco del plotone, fu il rumore successivo del colpi isolati che dovevano finire le vittime. Fuggii spaventato. Intorno a me la folla mi sembrava impassibile. Da due mesi era abituata a quelle scene orribili”».
Al Luxembourg, alla Scuola politecnica, alla Scuola militare, al parco Monceau, a Belleville, a Montmartre, nei dintorni di Parigi, a Montreuil, a Neuilly, a Bicêtre, eccetera, insomma ovunque le corti marziali furono installate, il massacro continuò e si compì, addirittura fino ai primi giorni di giugno, in massa in nome della società, nei particolari a profitto di certe vendette private. Nel campo dei Navets d’Ivry, ottocento prigionieri, condannati dalla corte che aveva sede al forte di Bicêtre, furono uccisi a colpi di mitragliatrice. A Neully la Comune aveva fatto arrestare, su istanza di parecchi abitanti, un agente chiamato Marie, che si era fatto odiare per le sue vessazioni. Liberato dai Versagliesi Marie fece fucilare tutti quelli che avevano chiesto il suo arresto. L’occasione d’altronde era buona per disfarsi di ogni avversario politico, e i giudici non se lo dissimulavano. Quasi tutti erano bonapartisti e saziavano il loro odio contro i vecchi nemici repubblicani. Il dottor Tony Moilin, che era rimasto estraneo agli atti della Comune, ma era stato implicato in parecchi processi dell’impero, fu giudicato e condannato a morte in pochi minuti «non perché avesse commesso alcun atto che la meritasse – gli dissero i suoi giudici – ma perché era uno dei capi del partito socialista, pericoloso per il suo talento, il suo carattere e la sua influenza sulle masse, uno di quegli uomini, insomma, dei quali un governo prudente e saggio deve sbarazzarsi, quando trova la legittima occasione per farlo14».
Pur tuttavia anche i processi per direttissima delle corti marziali mettevano a dura prova la pazienza di certi generali. Il marchese di Gallifet, colpito da una specie di isterismo sanguinario, faceva fermare di tanto in tanto le colonne di prigionieri che conduceva a Versailles per ripulirle. All’Arco di Trionfo ne fucilò dapprima ottantadue, poi venti pompieri, poi una dozzina di donne. La domenica 28 mattina a Passy fece fermare una colonna di duemila federati e gridò:
«Quelli che hanno i capelli bianchi escano dalle file». Centoundici federati uscirono dai ranghi e furono immediatamente fucilati nei fossati. Per essi la circostanza aggravante era quella di essere stati adulti nel giugno del ’48.
Non soltanto il fatto di aver preso le armi per la Comune era sufficiente a dare la morte; veniva considerato come crimine capitale anche l’aver partecipato a un qualsiasi servizio della sua amministrazione. Sulla piazza della Concordia fu fucilato un impiegato colpevole di aver telegrafato per la Comune. Si sarebbe potuto andar lontano per questa strada e fucilare per la stessa ragione tutti quelli che avevano fatto le scarpe, infornato il pane, eccetera per i Comunardi. L’esercito, dispostissimo a mettere in pratica questa logica, sembrava temere che Versailles manifestasse qualche debolezza. «Non mandate X a Versailles, – diceva un ufficiale superiore a un altro – regolategli il conto a Parigi, perché a Versailles non lo fucileranno».
Come giustificare questo furore? Tutti i giornali versagliesi hanno detto che le perdite delle truppe erano state estr...

Indice dei contenuti

  1. Gli ultimi giorni della Comune
  2. Titolo
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. INTRODUZIONE: Il destino di una Rivoluzione
  6. GLI ULTIMI GIORNI DELLA COMUNE
  7. Introduzione dell’autore
  8. Capitolo I
  9. Capitolo II
  10. Capitolo III
  11. Capitolo IV
  12. Capitolo V
  13. Capitolo VI
  14. Capitolo VII
  15. Capitolo VIII
  16. Capitolo IX
  17. APPENDICE
  18. NOTE
  19. GLI ULTIMI GIORNI DELLA COMUNE: FINE