Il libretto rosso di Cuba
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Il libretto rosso di Cuba

Il Líder Maximo spiega la giustizia sociale e difende la causa della rivoluzione

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Il libretto rosso di Cuba

Il Líder Maximo spiega la giustizia sociale e difende la causa della rivoluzione

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Il 26 luglio del 1953, un pugno di rivoluzionari guidati da Fidel Castro decide di dare "l'assalto al cielo" e, tentando il tutto per tutto, attacca due importanti avamposti militari cubani. La sortita è costretta a fare i conti con le avversità delle circostanze e si conclude in una disfatta. Quel giorno, la causa della rivoluzione cubana lasciò decine di morti sul campo di battaglia, mentre molti altri combattenti sarebbero stati crudelmente torturati e quindi uccisi dai soldati del dittatore Fulgencio Batista. Lo stesso Fidel Castro sarebbe stato catturato e condannato a un lungo periodo di carcere duro. Nel corso del processo che lo riguardava, però, Fidel prese la parola per urlare al mondo intero le sue ragioni grazie a una formidabile arringa difensiva, "La storia mi assolverà", trascritta e, in seguito, adottata come programma dal Movimento del 26 Luglio: il gruppo che, nel ricordo dei martiri cubani, continuerà a combattere fino alla vittoria. Dedicato a questo celebre e glorioso episodio, "Il libretto rosso di Cuba" recupera le profetiche parole di Fidel Castro per tornare a spiegare la giustizia sociale e continuare a difendere la causa della rivoluzione.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788867180363
Argomento
History
Categoria
World History
FIDEL CASTRO
La storia mi assolverà
Signori giudici, è la prima volta che un avvocato si vede costretto a esercitare il suo mestiere in una situazione così dura. Ma è anche la prima volta che contro un imputato vengono commesse tante e tali irregolarità. L’avvocato e l’imputato, oggi, sono la stessa persona. E, se come avvocato non ho potuto neppure vedere i verbali dell’istruttoria, come imputato sono settantasei1 giorni che mi trovo rinchiuso in una cella d’isolamento, contro qualunque norma umana e legale.
Chi vi parla odia profondamente la vanità degli stolti e né il suo spirito, né il suo carattere lo spingono ad atteggiarsi a tribuno o ad abbandonarsi al sensazionalismo. Se sono stato costretto a farmi carico della mia difesa, ciò è dipeso da due ragioni. Primo, perché di fatto sono stato privato di qualunque tipo di difesa. Secondo, perché solo chi è stato ferito così duramente e ha visto così insultata la patria e sporcata la giustizia può trovare in una simile circostanza parole che sono sangue del cuore e viscere della verità.
Non sono mancati generosi compagni pronti ad assumere la mia difesa. E il Colegio de Abogados dell’Avana aveva designato un avvocato competente e valoroso, il dottore Jorge Pagliery, presidente del collegio di quella città2, perché mi rappresentasse in questa causa. Non gli fu concesso, però, di rispettare il suo mandato: le porte della prigione gli sono state sbarrate ogni volta che ha tentato di incontrarmi e soltanto dopo un mese e mezzo dal mio arresto, grazie all’intervento dell’Audiencia3, ha avuto la possibilità di parlare con me per dieci minuti, anche se al cospetto di un sergente del Servicio de Inteligencia Militar4 (SIM). Si presume che un avvocato possa parlare in privato con il suo assistito: questo diritto viene rispettato in qualsiasi parte del mondo, a meno che non si tratti di un prigioniero cubano nelle mani di un implacabile dispotismo, sordo ai più elementari princîpi di legalità e di umanità. Il dottor Pagliery e io non abbiamo avuto nessuna intenzione di lasciare che gli argomenti con i quali avevamo pensato di affrontare il dibattimento venissero strumentalizzati. Si voleva forse scoprire in quali modi sarebbero state polverizzate le fantasiose bugie elaborate attorno ai fatti della caserma Moncada e come sarebbero state messe in luce le terribili verità che in tutti i modi si provava a nascondere? È stato per evitare tutto ciò che si è deciso, approfittando della mia qualifica di avvocato, che io stesso assumessi la mia difesa. Questa decisione, ascoltata e trasmessa dal sergente del SIM, ha provocato grandi paure. Sembra che qualche spiritello si sia divertito a mettere in giro la voce che, per colpa mia, i piani del regime sarebbero andati a finire male... ma voi sapete meglio di me, signori giudici, quante pressioni sono state fatte affinché mi fosse tolto persino questo diritto, consacrato a Cuba da una lunga tradizione.
Il tribunale non fu in grado di accettare una simile possibilità, perché sarebbe stato come processare un imputato senza che a questo venisse riconosciuta nessuna assistenza legale. Ebbene, quell’imputato adesso sta esercitando un suo diritto, e nessun motivo al mondo gli impedirà di dire ciò che deve dire. E credo che bisogna spiegare, per prima cosa, le ragioni del crudele isolamento al quale sono stato sottoposto; perché si è voluto costringermi al silenzio; perché sono stati tramati dei piani, che il tribunale conosce, per assassinarmi; quali fatti gravissimi si vogliono nascondere al popolo; qual è il segreto di tutte le azioni irregolari a cui abbiamo assistito in questo processo. Sono questi gli argomenti che ho intenzione di esporre nel modo più chiaro possibile.
Voi, signori giudici, avete pubblicamente definito questo processo come il più importante della storia repubblicana e, se davvero era questa la vostra opinione5, non avreste dovuto permettere che la vostra autorità venisse insultata in maniera così palese. La prima udienza del processo si è tenuta il 21 settembre e, circondate dalle mitragliatrici e dalle baionette che invadevano scandalosamente l’aula del tribunale, più di cento persone si sono accomodate al banco degli imputati. La maggior parte di queste persone era estranea ai fatti, ed era stata sottoposta al carcere preventivo dopo aver subito ogni genere di soprusi e di sevizie nelle segrete dei corpi repressivi. Ma il resto degli imputati, pur essendo in minoranza, era fortemente risoluto, disposto a confermare con orgoglio la sua partecipazione alla battaglia per la libertà, a dare un esempio di abnegazione senza precedenti e a salvare dalle grinfie del carcere quel gruppo di persone che, con totale malafede, erano state coinvolte nel processo6.
Coloro che avevano combattuto tornavano a battersi. Ancora una volta con la causa giusta al nostro fianco, l’assalto terribile della verità si scagliava contro l’infamia. E di sicuro il regime non poteva prevedere la catastrofe morale a cui stava andando incontro. Come avrebbe fatto a sostenere tutte le sue false accuse? Come avrebbe potuto impedire che si sapesse quello che era accaduto veramente dal momento che tanti giovani erano disposti a correre qualunque rischio – carcere, tortura e morte, se necessario – per denunciarlo davanti al tribunale? In quella prima udienza venni chiamato a deporre e fui sottoposto a un interrogatorio di due ore, durante le quali risposi alle domande del pubblico ministero e dei venti avvocati della difesa. Potei svelare con cifre precise e dati inconfutabili la quantità di denaro utilizzata, il modo in cui era stata raccolta e le armi che eravamo riusciti a recuperare. Non avevo nulla da nascondere, perché in realtà tutto era stato ottenuto con sacrifici mai compiuti nella storia delle nostre lotte repubblicane.
Deponendo al cospetto del tribunale, parlai dei propositi che ci guidavano nella lotta e del comportamento umano e generoso che non abbiamo mai smesso di osservare nei confronti dei nostri avversari. Se fui in grado di rispettare il mio impegno morale, dimostrando la non partecipazione né diretta né indiretta di tutti gli imputati falsamente coinvolti nella causa, ciò lo devo alla totale adesione e all’appoggio dei miei eroici compagni, poiché loro, a dispetto di qualunque conseguenza, non si sarebbero mai vergognati né pentiti della loro condizione di rivoluzionari e di patrioti. In prigione non mi fu mai permesso di parlare con i miei compagni e, tuttavia, pensavamo di fare esattamente la stessa cosa. Accade che, quando gli uomini hanno in mente uno stesso ideale, nulla può isolarli, né le pareti di un carcere, né la terra dei cimiteri, perché uno stesso richiamo, una stessa anima, una stessa idea, una stessa coscienza e una stessa dignità li anima tutti.
Da quel momento cominciò a crollare come un castello di carta l’edificio delle infami menzogne che il governo aveva costruito attorno ai fatti, il pubblico ministero comprese quanto fosse assurdo tenere in prigione tutte le persone accusate di apologia di reato e presentò immediatamente istanza per la loro libertà provvisoria. Terminante le mie dichiarazioni, presentai istanza al tribunale per abbandonare il banco degli imputati e prendere posto tra gli avvocati difensori, cosa che, in effetti, mi venne concessa. Da allora cominciava per me quella che considero la missione più importante in questo processo: distruggere le calunnie vili, perfide, miserabili e vergognose che vennero lanciate contro i nostri combattenti e mettere inconfutabilmente in evidenza i crimini spaventosi e ripugnanti commessi contro i prigionieri, mostrando alla nazione e al mondo l’infinita sventura di un popolo che sta soffrendo l’oppressione più crudele e disumana di tutta la sua storia.
La seconda udienza si tenne martedì 22 settembre. Avevano terminato di deporre appena dieci persone e già ero riuscito a mettere in chiaro gli assassinii commessi nella zona di Manzanillo, stabilendo in modo circostanziato e facendo mettere a verbale la responsabilità diretta del capitano al comando di quel distaccamento militare7. Dovevano deporre ancora trecento persone. Che cosa sarebbe accaduto nel momento in cui, potendo contare su una mole schiacciante di prove, avrei proceduto a interrogare, davanti al tribunale, gli stessi militari responsabili di quei fatti?
Poteva il governo permettere che io realizzassi una cosa simile in presenza del pubblico numeroso che assisteva alle udienze, degli inviati della stampa, dei legali di tutta l’isola e dei capi dei partiti dell’opposizione che stupidamente erano stati portati sul banco degli imputati perché potessero ascoltare da vicino tutto quello che stava accadendo? Pur di non permetterlo, il governo avrebbe fatto saltare con la dinamite il tribunale insieme a tutti i suoi magistrati!
Nacque così l’idea di sottrarmi al processo e a tal fine si procedette manu militari. La sera di venerdì 25 settembre, vigilia della terza udienza, si presentarono nella mia cella due medici del carcere. Erano visibilmente angosciati: «Siamo venuti a visitarti», mi dissero.
«E chi si preoccupa tanto per la mia salute?», chiesi loro.
In realtà avevo capito subito le loro intenzioni. Gli stessi medici si comportarono lealmente e mi confessarono la verità: quello stesso pomeriggio il colonnello Chaviano9 aveva visitato la prigione e aveva detto ai dottori che «nel processo stavo arrecando grave danno al governo», che dovevano firmare un certificato nel quale si stabiliva che, in quanto malato, non fossi in grado di partecipare alle udienze. I medici mi dissero anche che, per quanto li riguardava, erano disposti a rifiutare l’incarico e a prendersi le responsabilità del loro gesto: rimettevano la questione nelle mie mani perché fossi io a decidere. Per me era difficile chiedere a quegli uomini di immolarsi sconsideratamente alla causa, ma neppure potevo assistere al compiersi di quella macchinazione come se nulla stesse accadendo. Allora rimisi la decisione alle coscienze dei medici, limitandomi a rispondere: «Voi sapete qual è il vostro dovere; io so bene qual è il mio».
Dopo essersi ritirati, firmarono il certificato. So che lo fecero perché, in buona fede, credevano che fosse l’unico modo per salvarmi la vita, che consideravano in grave pericolo. Io, da parte mia, non mi impegnai a mantenere il silenzio su questo dialogo. Sono impegnato solo con la verità e se dirla, in questo caso, dovesse danneggiare l’interesse materiale di quei bravi professionisti, non lascio ombra di dubbio sul loro onore, che conta molto di più.
iamges
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Quella stessa notte scrissi una lettera a questo tribunale denunciando il piano che si tramava, richiedendo la visita di due medici legali perché certificassero il mio perfetto stato di salute e manifestando che, se per salvare la mia vita dovevo permettere un simile stratagemma, allora preferivo morire. Per far capire che ero deciso a combattere contro una simile meschinità, aggiunsi al mio scritto quel pensiero del Maestro che dice: «Un principio proveniente dal profondo di una caverna può più di un esercito quando è giusto»10.
Sto parlando della lettera che, come il tribunale sa, la dottoressa Melba Hernández11 presentò il 26 settembre durante la terza udienza del dibattimento. Ho trovato il modo di recapitare il mio scritto, malgrado la severa vigilanza a cui ero sottoposto. Per colpa di questa lettera vennero decise immediate rappresaglie: la dottoressa Hernández fu messa in isolamento e io, visto che già ero in isolamento, venni recluso nel luogo più appartato del carcere. Da quel momento in poi, tutti gli imputati vengono perquisiti minuziosamente, da capo a piedi, prima di uscire per il processo.
Comunque, i medici legali arrivarono il giorno 27 per certificare che, in effetti, mi trovavo in perfette condizioni di salute. Ma, nonostante i reiterati ordini del Tribunale, non fui più condotto a nessuna udienza del processo. A ciò si aggiunga che tutti i giorni venivano distribuiti da persone sconosciute centinaia di piani falsi in cui si parlava di liberarmi dalla prigione: uno stupido alibi per eliminarmi fisicamente con il pretesto di un’evasione. Falliti tali propositi, grazie alla denuncia tempestiva di amici attenti, e scoperta la falsità del primo certificato medico, non rimase al regime altro mezzo che l’arroganza aperta e sfacciata per impedire la mia presenza al processo.
Caso insolito, quello che si stava verificando, signori giudici: un regime che aveva paura di presentare un imputato davanti ai tribunali; un regime di terrore e di sangue che si spaventava davanti alle idee di un uomo indifeso, disarmato, isolato e calunniato. Così, dopo avermi privato di tutto, mi si toglieva anche il processo in cui ero il principale imputato. Si tenga conto che ciò veniva fatto essendo in pieno vigore la sospensione dei diritti, grazie alla piena operatività della legge per l’Ordine Pubblico e la conseguente censura stampa e radiofonica.
Quali orrendi crimini deve aver commesso un regime che teme fino a questo punto la voce di un imputato! Eppure, rappresentanti della corte, devo ancora insistere sull’atteggiamento insolente e irriguardoso che in ogni momento hanno osservato nei vostri confronti i capi militari. Malgrado le tante volte in cui questo tribunale ha ordinato di porre fine al disumano isolamento cui ero sottoposto, malgrado le tante volte che ha ordinato che fossero rispettati i miei diritti più elementari, malgrado le tante volte che ha richiesto che fossi presentato al processo, giammai ha ottenuto obbedienza; uno per uno, tutti gli ordini sono stati disattesi. Come se non bastasse, durante la prima e la seconda udienza sono stato affiancato da una guardia incaricata di impedirmi, nel modo più assoluto, di parlare con qualcuno, persino nei momenti di sospensione dell’udienza, lasciando capire che, non solo nella prigione, ma perfino nello stesso Tribunale e addirittura alla presenza della corte non si sarebbero minimamente prese in considerazione le vostre disposizioni. Pensavo di porre questo problema nell’udienza successiva, in quanto questione di elementare onore per la Corte, ma... non sono più tornato in aula. E se in cambio di tanta arroganza siamo stati portati qui per essere condannati al carcere nel nome di una legalità che il regime sta violando dal 10 di marzo, allora bisogna riconoscere tutta la tristezza del ruolo in cui capi militari vogliono costringervi. Certamente in questo caso non è stata rispettata neanche una sola volta la massima latina cedant arma togae12. Vi prego di tenere ben presente questa circostanza. Perché gli sforzi di questo regime sono stati inutili: i miei bravi compagni, con insuperabile senso civico, hanno compiuto il loro dovere: «Sì, siamo venuti a combattere per la libertà di Cuba e non ci pentiamo di averlo fatto», hanno detto tutti quando sono stati chiamati a deporre.
Come se non bastasse, rivolgendosi al Tribunale con grande coraggio, i miei compagni hanno già denunciato gli orribili crimini commessi sui corpi dei nostri fratelli. Sebbene assente, ho potuto conoscere tutti i particolari del processo grazie ai detenuti della prigione di Boniato che, malgrado le minacce di severe punizioni, sono ricorsi ai mezzi più ingegnosi per farmi avere ritagli di giornale e informazioni di ogni tipo. I carcerati, in questo modo, hanno vendicato i torti subiti dal direttore Taboada e dal tenente ispettore Rozabal, che li costringono a lavorare dall’alba al tramonto per costruire ville private e, non contenti, li fanno morire di fame appropriandosi indebitamente dei fondi di sussistenza.
Intanto, mentre il processo andava avanti le parti si invertivano: quelli che accusavano si ritrovavano sotto accusa e gli accusati diventavano accusatori. A essere processati realmente non sono più i rivoluzionari, ma un signore che si chiama Batista... Monstrum horrendum13!
Non importa che dei giovani bravi e coraggiosi siano stati condannati se in futuro il popolo condannerà il dittatore e i suoi crudeli sbirri. Questi giovani sono stati confinati nell’Isola dei Pini, dove continua ad aggirarsi lo spettro di Castells14 e dove ancora non si è spento il grido degli innumerevoli omicidi compiuti. In questo luogo, segregati dalla società, strappati dalle loro famiglie ed esiliati dalla patria, i miei compagni sono andati a scontare la pena del loro amore per la libertà. Non siete d’accordo anche voi, adesso, che in una simile situazione è ingrato e difficile per questo avvocato adempiere alla propria missione?
Al termine di tante macchinazioni losche e illegali, per volontà di chi comanda e per debolezza di chi giudica, eccomi in questa stanzetta dell’Ospedale Civile, dove sono stato portato per essere processato in segreto, in maniera da non essere ascoltato, affinché la mia voce si perda e nessuno venga a sapere quello che sto dicendo. A che cosa serve allora il maestoso Palazzo di Giustizia dove, sicuramente, i signori giudici sarebbero stati molto più comodi?
Vorrei farvi notare come non sia bello che la giustizia venga amministrata nella stanza di un ospedale, circondati da sentinelle con la baionetta innestata. La gente, in questo modo, potrebbe pensare che la nostra giustizia sia ammalata... e carcerata.
Vorrei ricordare che le vostre leggi di procedura affermano come il processo debba essere «orale e pubblico» e che invece si è impedito al popolo di assistere a questa udienza. Si sono lasciati passare solamente due legali e sei giornalisti, sui cui giornali la censura non permetterà di pubblicare una sola parola. Noto che quale unico pubblico, nelle sale e nei corridoi, ho un centinaio fra soldati e ufficiali. Grazie per la seria e cortese attenzione che mi è stata dedicata! Magari potessi parlare davanti a tutto l’esercito!
Io so che un giorno questo stesso esercito arderà dal desiderio di lavare la macchia terribile di vergogna e di sangue che è stata gettata sull’uniforme militare dalle ambizioni di un gruppetto senza coscienza. Guai allora a coloro che oggi ostentano le loro nobili uniformi accollate... sempre che non siano stati già spogliati dal popolo!
Infine, devo aggiungere che non mi è stato concesso di tenere nella cella nessun trattato di diritto penale. Ora posso fare affidamento soltanto su questo minuscolo codice, prestatomi dal dottor Baudilio Castellano, l’ottimo difensore dei miei compagni. Allo stesso modo è stato proibito che arrivassero nelle mie mani i libri di Martí. Sembra che la censura della prigione li abbia considerati troppo sovversivi. O sarà perché ho detto che il mandante morale del 26 luglio era Martí in persona15?
Mi è stato impedito, inoltre, di portare in questo processo qualunque opera di consultazione su qualsiasi altra materia. Non ha assolutamente importanza. Porto nel cuore la dottrina del Maestro e nel pensiero le nobili idee di tutti gli uomini che h...

Indice dei contenuti

  1. Il libretto rosso di Cuba
  2. Titolo
  3. Indice
  4. Introduzione: «Ribellarsi è giusto». L’orizzonte di Fidel Castro e della Rivoluzione Cubana, di Cristiano Armati
  5. Fidel Castro: La storia mi assolverà
  6. Note
  7. Bibliografia Selezionata in Lingua Italiana
  8. Il Libretto Rosso Di Cuba: Fine