1980
«SCRIVEREMO IL TUO NOME
SUI MURI DELLA STORIA
A COLPI DI MITRA
FINO ALLA VITTORIA!»
1
15 GENNAIO
La pizzeria Gallo Nero non l’avevo mai sentita prima, d’altronde è a Trastevere, e non è che ci venga spesso. Un quartiere di poveracci, gente che vive nei bassi, ammucchiata. E poi puzza, odore di fogna e di fiume che s’appiccica ai muri.
La pizzeria però sembra bella, di classe, sul viale che porta verso il centro, a due passi da dove cadde Giorgiana, qualche anno fa. Ha un’insegna dipinta di fresco, dei vasi con i fiori all’ingresso e un menù scritto anche in inglese.
«Non è un posto da proletari questo», dico scherzando.
«È meglio così», dice Vale. «Non ci cercheranno qui.»
La saletta interna è ancora mezza vuota, e ci sistemiamo a un tavolino defilato.
«La vedi la porta del bagno?», dice ancora. «C’è una finestra da cui si raggiunge il vicolo.»
Annuisco.
«Da questa posizione», prosegue lei, «vedo l’entrata. Se ti faccio segno tu alzati e vattene.»
«E tu?»
«Io sono ricercata, se ci beccano per me non c’è niente da fare ma, per quanto ne so, tu non sei segnalato.»
Mi guardo attorno cercando di simulare disinteresse, ma sono improvvisamente nervoso. L’ansia crescente non mi impedisce di buttare un occhio nella scollatura di Vale.
«I signori ordinano?»
Distratto non mi sono accorto dell’arrivo del cameriere, un vecchietto arzillo con una divisa logora. Biascica le parole mentre snocciola i piatti del giorno.
Vale lo interrompe: «Solo due margherite e mezzo litro di vino della casa.»
Il cameriere si allontana, due saccopelisti tedeschi si siedono poco distanti da noi, posando gli zaini a terra. Li scruto con attenzione, cercando di capire se possano essere sbirri sotto copertura.
«Tranquillo», mi fa Vale. «Parlano tedesco. Mai visto uno sbirro che conosca una lingua.»
«Già», rispondo cercando di apparire indifferente.
«Ieri si è riunita la direzione strategica. È stato fatto il tuo nome.»
«A che proposito?», chiedo, cauto.
«Dopo l’arresto di Primo la Brigata Primavalle è rimasta scoperta. E a quanto pare tu sei riconosciuto da tutti come il più capace per ricoprire il suo ruolo.»
«Io non so... non mi piace pensarmi in termini di competizione con i compagni.»
«Non lo devi fare. Sei semplicemente la persona più indicata. È una decisione strategica.»
«Sono qua due margherite?», chiede il cameriere mentre appoggia le pizze sul tavolo.
Verso il vino a Vale, poi chiedo: «Ma chi è che mi ha proposto?»
«Io.»
«Tu?»
«“Io... tu”... non è quel che si dice una conversazione molto brillante», dice mentre ride. Si mette la mano davanti alla bocca. Ha dita sottili, unghie curate, la pelle liscia.
«È che sono un po’ confuso», rispondo.
«Mario ti vuole incontrare.»
«Cosa?»
«Oddio ti prego non mi far ripetere tutto. Non ti conosce, e sai, prima di affidare una direzione di brigata a qualcuno preferisce almeno conoscerlo.»
«Be’ sì, immagino di sì», butto giù una sorsata di vino. È davvero pessimo. «Per me Mario è una leggenda, lui li ha conosciuti i compagni che stanno dentro. Primo mi ha detto che ha gestito lui tutta la faccenda di Moro.»
«Sì, ma non ti montare la testa», dice Vale, finendo l’ultima fetta della sua pizza. Io non sono neanche a metà.
«In che senso?»
«Lui non è affatto contento del lavoro che fate a Primavalle, vi considera avventuristi, o peggio, piellini.»
«Piellini? Il nostro non è certo lo stile di Prima Linea!»
«Ma sono loro quelli che predicano la guerriglia diffusa e il radicamento sul territorio...»
Resto con la mia fetta di pizza a mezz’aria. La mozzarella inizia a colare sul piatto.
«La finisci tutta?», chiede Vale, speranzosa.
«Puoi prendere una fetta se vuoi.»
Mentre Vale armeggia con il coltello per appropriarsi della mia pizza, le chiedo: «Allora perché mi date la direzione della Brigata?»
«Te l’ho detto, è una mia idea. Credo che il vostro modo di agire sia più sensato della vecchia compartimentazione.» La pizza sparisce sotto il mio naso. «Sai, mandare compagni in città a loro sconosciute... non ha senso... siamo in una fase nuova, una fase pre-insurrezionale, i proletari devono avere un riferimento preciso nelle bierre.»
«Sì», dico, «è quello che penso anche io.»
«Lo so», risponde addentando la pizza. «Certo da qui a fare un comizio in piazza ce ne corre.»
«Ti ringrazio per la fiducia.»
«Oh oh, sei ironico?»
«Veramente no. Mi sento frastornato. Porto i miei amici a rischiare la vita, e loro me l’affidano volentieri. Mi guardano quando non sanno cosa fare. E adesso la direzione di brigata... Non ridere, ma a me vengono le vertigini, tutto qua.» Il cameriere torna per sapere se tante volte, un dolce, due caffè... io lo ringrazio mentalmente per avermi tolto dall’imbarazzo.
Continuiamo a parlare a lungo, e alla fine quando usciamo, prendiamo la porta anziché la finestra del bagno. E ci accorgiamo che si è fatto tardi.
2
1 FEBBRAIO
La Papa Giovanni è un’ex scuola media, uno di quei posti tirati su a prefabbricati di cemento e sabbia. Uguale a tanti altri, se non che in questo caso quando il tetto si è sfondato invece di ristrutturarlo hanno preferito semplicemente chiudere il piano superiore. Quando l’acqua è passata da un piano all’altro hanno dichiarato la scuola inagibile. Morvo ci andava da bambino, almeno credo, perché Morvo bambino è una cosa che non riesco a immaginarmi.
I tossici gravitano attorno alla Papa Giovanni come falene, ronzando. Si annusano vicendevolmente con i piccoli spacciatori, quelli che la merda la vendono e la prendono pure, a cicli alterni.
Alcune madri di Primavalle era da un po’ che guardavano storto l’ex scuola media. A un certo punto, una ha detto «sarebbe da chiuderceli tutti dentro»; un’altra era lì a sentire e ha aggiunto «non è male come idea.» Si sono organizzate in fretta, prima che i figli tossici potessero capirci qualcosa; hanno scelto un giorno e un’ora e si sono avventate contro la scuola a centinaia, brandendo bastoni, ramazze, mestoli, in mano lucchetti e catene: tutto quello che sono riuscite a trovare.
I figli presi alla sprovvista non hanno fatto in tempo a reagire; li hanno chiusi un po’ ovunque, a gruppi, specie in palestra, e adesso son lì che fanno avanti e indietro, di guardia, alcune in vestaglia, ciabatte e cappotto, altre più agguerrite, pantaloni e passo marziale.
Con l’A112 è la terza volta che passiamo di qua. Morvo al solito fuma e parla poco. Io ogni tanto stringo il calcio della P38. Guardiamo le madri dei tossici che si danno il cambio. Morvo ha un’espressione proprio strana, come se fosse intenerito e non volesse darlo a vedere.
«Bella idea, vero?»
«Già, hanno avuto coraggio, e tanta fortuna. Si credono invincibili perché li hanno presi di sorpresa, ma qui è facile che diventi un casino, e con le scope di certo non fermano gente come Cairo.»
«Pensi che si faranno vivi?»
«È matematico», bofonchia Morvo accendendosi l’ennesima Nazionale. «Metti caso che qualcuno di quei deficienti riescono pure a rimetterlo in sesto, a fargli passare la scimmia. Vuol dire che gli spacciatori hanno un cliente in meno. Credi che glielo lasceranno fare senza creare problemi?»
«Quindi? Siamo di ronda?»
«Tipo.»
«L’occulta squadra di sicurezza», dico ridacchiando.
“Madri-coraggio” stava scritto sul «Messaggero.» Ma qui più che il coraggio mi sembra che c’entri la disperazione. Morvo, avvolto dalla sua nuvoletta di fumo, è il samurai della lotta alla droga. Del resto era ovvio, dopo Ondina, Cairo, e con tutti quei fratelli e sorelle sotto la sua ala.
Butta la sigaretta e fa un sorriso storto, un po’ amaro. Ferma l’A112 proprio davanti alla Papa Giovanni.
«L’hai vista quella?»
Guardo dove sta puntando il dito. Una delle madri sta tenendo banco. Ha i capelli rosso violaceo, radi, le dita gialle e il bianco degli occhi che tende al marcio. Porta un paio di fuseaux e un maglione infeltrito quanto basta a farti prudere la pelle solo a guardarlo. Ha un dente sì e uno no, e i superstiti non se la cavano bene. Fuma con accanimento, quasi con rabbia.
«Maria, se vengono le guardie, che si fa?», le chiede un’altra mamma.
«Li prendiamo a calci i poliziotti!»
Ridono. Maria si accende la sigaretta nuova con la vecchia. L’aria del capo ce l’ha tutta, le altre sembrano pendere dalle sue labbra. In queste situazioni qualcuno finisce sempre per diventare il leader riconosciuto.
«Maria», la chiama una, «Ti cercava Corradino.»
«E che vuole?»
«Boh. È lì che frigna alla finestra. Giulietta e Romeo, pare.» Corradino se ben ricordo è il figlio di Maria, un ragazzone enorme, roscio, sempre con una rosetta con la mortadella in mano. Non sembrava neanche tipo da eroina. C’è finito dentro per caso, un po’ come Macello nelle bierre, credo. Era nel gruppo del baretto quando la merda ha cominciato a girare. Maria deve averci messo tre giorni ad accorgersene.
«Mamma!»
«Ma che ti urli, cretino. Tornatene con gli altri. Stai zitto, stai.»
«Mamma, ma questi sono cattivi! Mi è passata la scimmia, m’è passata tutta, giuro! Fammi uscire!»
«Seee, beato a te, un giorno e t’è passato tutto. E poi pure se è vero non esci finché non ti cresce il cervello.» Si volta verso una donna enorme, alle sue spalle. «Che c’hai una sigaretta, Maria?»
«Finite», fa quest’altra Maria cicciona.
«Tocca andarle a comprare.» Si alza frugandosi nelle tasche alla ricerca degli spicci. «Me lo guardi tu il fenomeno, Maria?»
«L’hai messo in cassaforte», sghignazza Maria cicciona.
«Mamma!»
«Che vuoi ancora?»
«Che mi porti un panino con la mortadella?»
Con Morvo ridiamo come dei matti mentre mette in moto e ricominciamo il giro.
«E Breda?»
«Non lo vedo da capodanno. Ogni tanto chiama a casa, con mio padre parlano di soldi, con mia madre di... be’ di Luce ovviamente. Dei loro progetti.»
«Luce sta bene, ...